Omelia per la Domenica delle Palme
Sora, Cattedrale – Cassino, S. Giovanni, 25 marzo 2018
L’entusiasmo della “grande folla che era venuta per la festa” a Gerusalemme, oggi cede il passo alla fiducia operosa con cui la Chiesa si impegna a favorire l’ingresso umile e discreto di Cristo nella Città degli uomini. La liturgia ci deve incoraggiare ed educare a vivere l’impegno per la presenza di Cristo-Servo nell’epicentro sismico delle nostre inquietudini personali, turbolenze sociali, dissesti familiari, confusioni etiche, compromessi e intrecci di ogni genere. Questa domenica rappresenta la sintesi del groviglio di opposti sentimenti, comportamenti contrastanti, assurde contraddizioni, inaspettate giravolte, ripensamenti incomprensibili che caratterizzano il comportamento della folla nei confronti dell’uomo di Nazareth.
Lasciamo, allora, che il nostro custodire tra le mani i ramoscelli di palma o di ulivo, sia illuminato e riceva significato dalle sapienti parole della benedizione: “…concedi a noi tuoi fedeli, che rechiamo questi rami in onore di Cristo trionfante, di rimanere uniti a lui, per portare frutti di opere buone”.
Come i tralci alla vite
I ramoscelli ci ricordano come nella vita ordinaria dobbiamo restare uniti a Cristo. I rami che oggi portiamo con noi sono il risultato di una “potatura” spirituale. Esprimono il nostro programma di vita: sono metafora del nostro discepolato, della nostra sequela di Cristo-Messia, soprattutto alla luce della teologia del quarto vangelo. Nel cap. 15 di s. Giovanni, infatti, ritroviamo l’eloquente istruzione di Gesù grazie all’allegoria della vite e dei tralci: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (vv. 4-5).
Commenta s. Agostino: “I tralci sono nella vite in modo tale che, senza giovare alla vite, ricevono da essa la linfa che li fa vivere; a sua volta la vite si trova nei tralci per far scorrere in essi la linfa vitale e non per riceverne da essi. Così, questo rimanere di Cristo nei discepoli e dei discepoli in Cristo, giova non a Cristo, ma ai discepoli. Se un tralcio è reciso, può un altro pullulare dalla viva radice, mentre il tralcio reciso non può vivere separato dalla vite” (Omelia 81, Commento al vangelo di Giovanni). I rami potati non sono soltanto i tralci “secchi”, inutili, incapaci ormai di portare frutto, ma comprendono anche la potatura di rami verdi, praticata per rafforzare e rinvigorire ancora di più la fruttuosità della nostra vita cristiana. Essa ha sempre bisogno di purificazione sia da cose inutili, dannose, sia da elementi non essenziali, non importanti, o superflui, perchè frenano la vitalità della pianta: “Ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto” (Gv 15,2).
Rimanere uniti a lui
Assicurata la potatura, i rami possono “rimanere” saldamente unti al tronco, alla vite. Attraverso l’allegoria della vite e dei tralci Gesù richiede ai suoi di “rimanere” in Lui, per ricevere da Lui la linfa vitale. Nel quarto vangelo il verbo “rimanere” esprime l’adesione totale e permanente della propria esistenza all’“Io Sono” di Cristo, rivelatore del Padre, Parola increata fatta carne. La relazione fra Gesù e il credente è presentata come dono e responsabilità. Un dono: perché il “portare frutto” è basato unicamente nel “rimanere in Cristo”; una responsabilità: perché il “rimanere in Cristo” deve concretizzarsi nel “portare frutto”. Non c’è dono senza responsabilità, ma inversamente non c’è esercizio della responsabilità che non trovi la sua sorgente nel dono ricevuto. Presentarsi oggi come “rami potati” davanti al Signore, ci impegna ad accogliere il Signore nella “Città santa” della nostra esistenza personale, per aderire al suo mistero d’amore che la Chiesa celebra nei giorni successivi con i riti della Settimana Santa.
La folla che oggi esulta e acclama “colui che viene nel nome del Signore” , da lì a poco sposerà le accuse del Sinedrio e rivendicherà davanti a Pilato un giudizio di condanna contro Gesù. Per “rimanere” unito a Gesù, il discepolo deve uscire dalla folla, dalla massa, dai condizionamenti, per accogliere in prima persona le esigenze della sequela, disposto a comprendere e condividere il sacrificio della croce e la stessa morte del Maestro come un supremo atto d’amore, e non come un fallimento. Per portare frutti di autentico discepolato è di vitale importanza restare uniti alla vite, che è Cristo; rimanere in Lui significa vivere il vincolo di un amore “nuziale”, gioioso e fecondo. L’inizio del ministero di Gesù nel quarto vangelo inizia con la manifestazione del Signore alla nozze di Cana: Lui è lo Sposo delle nuove nozze di Dio con l’umanità. Discepolo è colui che scopre la sublimità di questo amore, attratto dalla bellezza dello Sposo divino.
Portare frutti di opere buone
La celebrazione della Settimana santa dovrà aiutarci a sciogliere e a risolvere le contraddizioni personali di cui parlavo all’inizio della meditazione. Dobbiamo saper prendere una chiara direzione e prendere le decisioni più giuste nei confronti della fede. A portare frutto ci aiuterà la partecipazione ai misteri di Cristo celebrati nei giorni della Passione-Morte-Risurrezione. Grazie ai singoli riti ci lasceremo nutrire e impregnare della rivelazione intima che Gesù fa di sé. E’ partecipando attivamente alla ricca azione liturgica del Triduo pasquale, che riscopriremo e accresceremo:
- la gioia di appartenere al popolo dei “consacrati”, sacerdoti-re-profeti (Messa crismale);
- l’emozione spirituale dell’intimità del Cenacolo e la condivisione dei suoi beni spirituali (Eucarestia, Sacerdozio, Comandamento nuovo);
- la compassione per l’iniquo giudizio e l’ingiusta condanna di Cristo, il dolore per i nostri fallimenti, il pianto per la vigliaccheria dei rinnegamenti e tradimenti, le molte fughe dal dolore. E proprio per questa miserabile condizione, ci sentiremo ancora di più attratti dall’adorazione devota della Croce, consegnando il compimento di ogni nostra speranza di conversione e di salvezza alla sofferenza e alla morte del Signore (Liturgia della Passione);
- l’attesa silenziosa del trionfo della vita sulla morte, del perdono sulla punizione, della grazia sul peccato (Veglia pasquale).
- L’Alleluia pasquale del mattino di Pasqua (Domenica di risurrezione).
Questo percorso spirituale ci aiuta ad allineare la nostra esistenza alla prospettiva dei misteri pasquali di Cristo. La libertà del credente, redenta dall’alienazione del peccato, è lo spazio esistenziale in cui il tralcio potato dovrà portare ancora più frutto. I discepoli imparano così a trovare nella storia fondatrice del Maestro, la chiave di lettura che permette di interpretare e accogliere il loro destino vissuto come “imitazione” di Cristo. E’ solo la partecipazione fruttuosa alla Pasqua del Signore che la vita del credente si lascia liberare da ogni forma di egoismo, per imparare a fare dell’amore la regola suprema del suo agire storico, incarnato, coerente e concreto.
+ Gerardo Antonazzo