Il Cielo in una stalla
Omelia per Natale 2017
E’ una notte stellata, anche se gelida, da far battere i denti e tremare le ossa: “C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge” (Lc 2, 8). I pastori trascorrono le ore notturne guardando il cielo. Non hanno certo bisogno di contare le pecore per prendere sonno; le vegliano al sicuro, con gli occhi ben aperti, facendo la guardia a loro custodia. Così, possono contemplare nelle tenebre della notte il chiarore delle stelle, il cui scintillio sfreccia in un cielo straordinariamente abitato da innumerevoli luci.
Sembrava essere una notte qualunque, come le molte trascorse a vegliare il gregge nei campi. All’improvviso “la gloria del Signore li avvolse di luce”: il chiarore delle stelle che sovrastava la fatica del duro mestiere, sembrava abbandonare completamente il cielo per concentrarsi nel campo dei pastori. La luce divina, che avvolge con la presenza dell’angelo questo manipolo di guardiani e mercenari, solitamente poco interessati ai misteri divini, sembra spaventarli: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo. E’ nato Cristo Signore…avvolto in fasce”. L’angelo invita i pastori a camminare guidati dalla luce nuova verso il segno di un bambino, dandone in anticipo la spiegazione dell’origine divina. I pastori, quel Dio che forse non hanno mai cercato né conosciuto, in questa notte lo potranno trovare nella mangiatoia di una grotta. La luce del cielo rischiara il buio di una stalla. L’annuncio dell’angelo rivela l’abbraccio definitivo tra il cielo e la terra.
Il censimento delle povertà
Mentre un decreto imperiale di Cesare Augusto decide il censimento dei sudditi come prova di forza e atto di potere, Dio decide, con un decreto di misericordia, di fare il censimento per sposare in prima persona tutte le forme e condizioni umane di povertà, scegliendo di condividere la semplicità nascosta e debole di una nuda nascita silenziosa. La salmodia ebraica celebrava da secoli la gloria di Dio nell’armonia del creato: “I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento” (Sal 19,2). La stessa parola di Dio dichiara con la voce dei profeti: “Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora?”(Is 66,1). A Betlemme troviamo la risposta attesa: Dio trasferisce la sua dimora sulla terra, abitando la povertà di una condizione precaria e fragile. La notte dei pastori annuncia che la gloria di Dio non sarà più soltanto nel cielo: “Gloria a Dio…e sulla terra pace”. La gloria di Dio dal cielo si affaccia sulla terra, e una stalla diventa il cielo dell’abitazione divina, il trono umile della gloria, la dimora semplice dell’onnipotenza di Dio, il luogo scelto da Dio per abbracciare l’umanità e condividere i giorni dell’uomo. Dio respira il profumo acre e nauseante di una mangiatoia, trasformata nella tenda della sua presenza tra noi: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…pieno di grazia e di verità” (cfr Gv 1, 14). Con la sua povertà Dio rende ogni povertà dimora regale della sua manifestazione e presenza.
Nato per caso?
A Betlemme Dio non nasce né per sbaglio, né per caso: nella “città del pane”, nell’insignificanza di un bambino che non fa notizia, al di fuori di ogni cronaca, prende carne l’iniziativa di Dio: “È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. Egli ha dato se stesso per noi…”(Tito 2,11-14). La parola grazia significa “dono gratuito”. La natività di Gesù è un mistero della luce, proprio perché in tale fatto si manifesta la grazia di Dio, l’amore gratuito di Dio. A Natale, Egli fa dono di tutto se stesso per noi! Dio è grazia, è il sommo bene che si fa umile dono, si dona da povero per chi è povero. La grazia di Dio non è potenza violenta che terrorizza, ma è gloria che si offre nella “grazia” di un bambino, nell’umiltà di un piccolo villaggio. La grazia della sua venuta trasfigura la nostra esistenza perché ci aiuta a rinunciare alle ambizioni terrene ed elevarsi nel rapporto verso se stessi (sobrietà), verso gli altri (giustizia) e verso Dio (pietà). Egli si dona a noi per “riscattarci da ogni iniquità, e formare per sé un popolo puro che gli appartenga”.
Nella carne della storia
I pastori comprendono finalmente dove cercare e come trovare Dio. Se li seguiamo, scopriremo Dio nella concretezza della carne umana, nei luoghi e condizioni umane più impensabili, negli “avanzi umani” scartati e ignorati dalla colonizzazione dell’egoismo. Dio ci precede nelle periferie dimenticate: “Colui che dà ad altri la ricchezza si fa povero. Chiede in elemosina la mia natura umana perché io diventi ricco della sua natura divina. E colui che è la totalità, si spoglia di sé fino all’annullamento. Si priva, infatti, anche se per breve tempo, della sua gloria, perché io partecipi della sua pienezza” (Gregorio Nazianzeno, Disc. 45, 9. 22. 28).
Il tema della concretezza di Dio-bambino è fondamentale, perché solo in una visione concreta ci può essere fede. Dio non ha parlato con l’uomo in astratto: a Betlemme ha accorciato, anzi annullato ogni distanza, ogni estraneità, ogni alterità e alterigia, ogni astrattezza. L’esperienza cristiana si fonda sulla carne umana di Gesù Cristo, Figlio di Dio: non possiamo piegare il cristianesimo nella direzione opposta all’incarnazione, in un processo inverso e perverso di astrazione! La partita della evangelizzazione si può giocare solo sulla concretezza dell’incontro con la vita reale delle persone: il problema è incastonare la fede nella concretezza della vita. Solo così la nostra professione di fede potrà intercettare l’esperienza di vita degli uomini e donne, giovani e ragazzi, bambini e anziani del nostro tempo. La concretezza con la quale Dio rende presente il cielo della sua gloria nel cuore di una stalla, è paradigma di una fede che la Chiesa deve annunciare non in astratta, ma incarnata nella vita degradata, nelle pieghe di un’umanità piagate, nelle attività lavorative sfruttate, nei problemi e nelle concrete invocazioni di ogni uomo. Le recenti parole di Papa Francesco ci sollecitano: “Il Natale ci ricorda che una fede che non ci mette in crisi è una fede in crisi; una fede che non ci fa crescere è una fede che deve crescere; una fede che non ci interroga è una fede sulla quale dobbiamo interrogarci; una fede che non ci anima è una fede che deve essere animata; una fede che non ci sconvolge è una fede che deve essere sconvolta. In realtà, una fede soltanto intellettuale o tiepida è solo una proposta di fede, che potrebbe realizzarsi quando arriverà a coinvolgere il cuore, l’anima, lo spirito e tutto il nostro essere, quando si permette a Dio di nascere e rinascere nella mangiatoia del cuore, quando permettiamo alla stella di Betlemme di guidarci verso il luogo dove giace il Figlio di Dio, non tra i re e il lusso, ma tra i poveri e gli umili” (21 dicembre 2017).</div>
+ Gerardo Antonazzo