“Un banchetto per tutti i popoli”
Omelia per la solennità del Corpus Domini
Cassino-Sora, 22-23 giugno 2019
La celebrazione del Corpus Domini, mentre rivendica la presenza reale del corpo di Cristo nelle specie eucaristiche, e il carattere sacrificale della messa nel suo riferimento al sacrificio della croce, non tralascia il forte invito alla speranza cristiana nella venuta ultima del Signore: “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11,26). Perché, dunque, celebriamo l’eucarestia? Perché è memoriale della Pasqua di Cristo che salva, e allo stesso tempo è prefigurazione del banchetto celeste, speranza che incoraggia e consola il cammino della Chiesa: “Tu hai voluto che il tuo Figlio, obbediente fino alla morte di croce, ci precedesse sulla via del ritorno a te, termine ultimo di ogni umana attesa” (Prefazio SS. Eucarestia III).
Nell’attesa della sua venuta
Le Orazioni del Messale richiamano di frequente la prospettiva escatologica della sinassi eucaristica: “Questa celebrazione eucaristica, che ci hai fatto pregustare la realtà del cielo, ci ottenga i tuoi benefici nella vita presente e ci confermi nella speranza dei beni futuri” (XXIX domenica T.O. anno B, Orazione dopo la comunione). Su tale dimensione ultima la catechesi ordinaria, compresa l’omiletica, pecca di omissione per un inspiegabile e ingiustificato silenzio. La mancata prospettiva escatologica della fede comporta il grave rischio non solo di perdere Dio dall’orizzonte dell’esistenza, ma di perdere del tutto lo stesso orizzonte di riferimento.
Il sacramento eucaristico esprime una tensione verso le realtà ultime talmente importante, da far diventare la stessa celebrazione il luogo privilegiato dell’invocazione del ritorno del Signore nella seconda venuta del Risorto. E’ noto che la prima generazione cristiana sentiva in modo molto acuto il fatto di vivere negli ultimi tempi. Questo sentimento si accompagnava a una viva attesa della seconda venuta del Signore. La comunità che celebrava la memoria della morte e risurrezione del Signore viveva proiettata nella speranza dell’incontro definitivo con Lui.
La formula di origine liturgica Maranathà‑Signore nostro, vieni (lCor 16,22; Ap 22,20; Didaché 10,26) è un’espressione‑simbolo di questa tensione interiore che l’eucaristica alimenta nella coscienza viva e vigile della comunità che celebra i divini misteri.
Il corpo eucaristico, mistero di comunione divina e umana, nutre la Chiesa pellegrina in attesa della beata speranza (Tt 2,13) della venuta del Signore: “Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro deli santuario e del vero tabernacolo” (Sacrosanctum Concilium, 8). La Chiesa riconosce che la celebrazione liturgica è in posizione per così dire intermedia tra la Pasqua e la venuta definitiva del Signore. La IV Preghiera eucaristica recita: “In questo memoriale della nostra redenzione celebriamo, Padre, la morte di Cristo, la sua discesa agli inferi, proclamiamo la sua risurrezione e ascensione al cielo dove siede alla tua destra, e, in attesa della sua venuta nella gloria, ti offriamo il suo corpo e il suo sangue … “. L’embolismo che il sacerdote aggiunge alla recita del Padre nostro (Liberaci Signore da tutti i mali…) si conclude con un esplicito riferimento alla speranza cristiana: “…. nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo”, mentre l’assemblea acclama la dossologia Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli.
Il sogno di Dio
La Chiesa, nutrita del sacramento eucaristico, “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio» (S. Agostino, De Civitate Dei, 18, 51, 2). Il cammino della Chiesa è rivolto al futuro ultimo, e perciò attraverso l’eucarestia sposa il grande sogno di Dio annunciato dalle parole del profeta: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6). Il profeta Isaia descrive il banchetto meraviglioso preparato sul monte santo e a cui Dio invita tutti i popoli. E’ un banchetto universale, perché universale è l’invito a farne parte. E non dimentichiamo che Isaia scrive questa lirica pagina di speranza nel momento in cui Gerusalemme è minacciata dall’invasore assiro che ha devastato tutti i suoi dintorni.
Abbiamo bisogno di sognare con Dio per favorire il compimento graduale di una convivialità davvero universale. Quando nelle cronache del nostro tempo avvertiamo con lucidità che il mondo in cui viviamo è terribilmente diviso dalle lotte per disputarsi i beni della terra, dal senso di appartenenza a una religione o un’etnia, da uno schieramento ideologico e così via, allora dentro di noi si fa strada un sogno: come sarebbe bello un mondo senza divisioni, senza odio, senza poveri! Ma se guardiamo più in profondità dentro noi stessi, con sincerità e lealtà, non facciamo fatica a riconoscere in noi i semi che avvelenano la nostra vita e i nostri rapporti con la vita degli altri. Non si tratta di moralismo di bassa lega, né di sensi di colpa, bensì della nostra verità che va accolta con umiltà e schiettezza per superare i nostri limiti e tirare fuori da noi la parte migliore. La parte che ama e che vuole amare. Il testo profetico di Isaia ci parla dello straordinario sogno di Dio che, nonostante tutti i fallimenti della storia umana, non smette di pensare, di promettere e di favorire questa unità del genere umano al di là di tutte le divisioni e di tutti gli odi. Sull’onda di questa grande speranza biblica, anche Gesù nel Vangelo descrive il ricco banchetto che Dio ha preparato per le nozze del suo Figlio. Lo conferma definitivamente l’ultima rivelazione biblica, in Ap 19,9: “Allora l’angelo mi disse: Scrivi: Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello! Poi aggiunse: “Queste parole di Dio sono vere”.
Il lessico eucaristico
Chiunque partecipa al sacramento eucaristico, partecipa al sogno di Dio. Tra il sacramento eucaristico e il banchetto universale al quale prenderanno parte tutti i popoli c’è la testimonianza feconda e audace della Chiesa, chiamata al coraggio di essere “il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano… Le presenti condizioni del mondo rendono più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo” (Lumen gentium, 1).
Ferma la fede nel sacramento dell’altare, operosa la carità: il rito consegna al cristiano un nuovo lessico con il quale impara il linguaggio dell’amore. Il lessico eucaristico si costruisce in particolare su tre parole-chiave: nuova alleanza, sacrificio, banchetto. Soprattutto la parola sacrificio nel nostro tempo non è amata; se ben compresa, è e rimane fondamentale, perché ci rivela di quale amore Dio, in Cristo, ci ama. Nutrendoci di Lui siamo liberati dai vincoli dell’individualismo, e per mezzo della comunione con Lui, diventiamo noi stessi, insieme, una cosa sola, il suo Corpo mistico. Vengono così superate le differenze dovute alla professione, al ceto, alla nazionalità, perché ci scopriamo membri di un’unica grande famiglia, quella dei figli di Dio, nella quale a ciascuno è donata una grazia particolare per l’utilità comune. Il mondo e gli uomini non hanno bisogno di un ulteriore aggregazione sociale, ma hanno bisogno dell’eucarestia celebrata dalla Chiesa, e quindi della Chiesa (cfr. Benedetto XVI, 15 giugno 2010). La celebrazione eucaristica rende capaci di condivisione e solidarietà, perché purifica e converte l’istinto della rivalità, gelosia, odio, disprezzo, insulto, falsità, ostilità e offesa dell’altro. Per non cadere nel rischio della “profanazione” eucaristica, il credente deve conoscere e apprendere il linguaggio della fraternità e fratellanza universale, della solidarietà, dell’accoglienza senza differenze e senza esclusioni, della universalità dell’amore di Dio, della inviolabilità della dignità umana. I gesti di condivisione creano comunione, rinnovano il tessuto delle relazioni interpersonali, improntandole alla gratuità e al dono, e permettono la costruzione della civiltà dell’amore.
+ Gerardo Antonazzo