Il volto del discepolo
Inizio del ministero pastorale ddon Tomas Jerez
Amministratore arrocchiale di S. Giuseppe di Casamarina,
in Roccadevandro (CE), 8 settembre 2019
Nel brano del vangelo di Lc 14, 25-33 il redattore riporta tre quadri pittorici di elevato prestigio, nei quali viene ritratto il volto del discepolo secondo tre prospettive diverse, ma complementari. Gesù è seguito da troppa gente che gli sta dietro nel suo viaggio verso Gerusalemme: Una folla numerosa andava con Gesù. Sembra preoccupato, quasi infastidito, per una presenza eccessiva di gente che potrebbe non aver capito le esigenze radicali della sequela. Gesù intende parlare con chiarezza, perché nessuno possa illudersi a motivo di facili ottimismi o di estemporanei entusiasmi per alcuni miracoli da lui compiuti, o per il fascino delle sue parole dinanzi alle quali si farà fatica nei momenti decisivi a prendere impegni, o a scegliere di vivere dalla sua parte. Il Maestro intende mettere alla prova e quasi interrompere il cammino dei più: si voltò e disse…. Gesù enuncia ex abrupto, senza fronzoli né circonlocuzioni generiche o raggiri di parole, le condizioni da soddisfare per essere suoi discepoli. Quello che vale per ogni cristiano, ancor più diventa essenziale e non negoziabile per chi è chiamato ad essere guida di comunità ad immagine di Gesù Pastore. Caro don Tomas, il Signore oggi conferma il tuo servizio al Vangelo affidandoti la cura pastorale della comunità parrocchiale di S. Giuseppe di Casamarina, nel comune di Roccadevandro (CE). Raccogli il suo sguardo su di te, incrocia il suo volto, custodisce le sue parole che ora ti affido.
Se uno viene a me
Il Maestro detta la prima regola; non siamo noi a decidere, e Lui non obbliga nessuno a diventare discepolo. Ma quello che poteva essere un bene per noi, non di rado diventa un tranello. Mi spiego: noi siamo cristiani come da tradizione. Possiamo quasi dire che nei nostri ambienti “si nasce” cristiani, ancor prima di diventarlo con il battesimo. Le nostre famiglie hanno ricevuto e trasmesso ininterrottamente la cultura religiosa che segna ancora oggi, nonostante tutto, la vita di ciascuno. E questo è un bene; dobbiamo essere riconoscenti. Può rivelarsi un tranello quando subiamo in modo passivo l’ambiente cristiano nel quale ci ritroviamo a nascere, senza forse mai scegliere di vivere da cristiani. Gesù, esperto educatore e profondo conoscitore del nostro animo, intende formarci come suoi discepoli, indicando i cardini della nostra appartenenza a Lui. Gesù mette a confronto il nostro amore per lui e la cura dei nostri affetti familiari. La parola sulla famiglia sorprende non poco, tenendo anche conto che la traduzione non mi ama più di…mitiga la forza del verbo greco odiare (miseo). L’ebraismo conosce la rottura dei legami familiari da parte dei leviti per il servizio del tempio (Dt 33,9-10), o da parte di uomini sposati che abbandonano tutto per diventare discepoli di un rabbì. Ma la richiesta di Gesù colpisce per la sua radicalità: si può amare chiunque, ma non possiamo amare nessuno più Lui. Prendere o lasciare! Si tratta di rivedere le proprie scelte e la scala dei valori, decentrandosi sull’Altro. Gesù non ci chiede di non amare nessuno, ma dichiara che nessun affetto può essere superiore all’amore per Cristo. Lui non soffre di gelosia, ma ce lo chiede per una ragione molto profonda: quando il Signore non è amato al di sopra di tutto e più di chiunque altro, Lui non solo non occuperà il primo posto, e nemmeno l’ultimo, ma sarà tristemente scomparso dall’orizzonte della nostra vita.
Colui che non porta la croce
La seconda condizione parla della croce: Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Solitamente alla parola croce attribuiamo il significato di dolore, e quindi di tristezza, con il relativo senso di repulsione. Pensare questo è come mutilare la comprensione del mistero: nella vergogna per una condanna ignominiosa, riservata agli infami e ai malfattori, e tra le sferzate della derisione, dell’insulto, degli scherni rivolti ai condannati, si fa strada il sacrificio con il quale Gesù offre per noi il dono prezioso della sua vita divina, in piena libertà e volontà, per dimostrare verso di noi l’amore più grande.
Il Signore non è un masochista, ma accetta la sofferenza e la morte solo per amore. Se è vero che la bellezza salverà il mondo, non dobbiamo mai dimenticare che la sola bellezza salvifica è l’amore crocifisso. Caro don Tomas, la croce della responsabilità pastorale nei confronti di una comunità parrocchiale è una prova d’amore, perché amoris officium pascere dominicum gregem, è ministero di amore pascere il gregge del Signore (S. Agostino, Commento a Giovanni 123,5).
Chiunque non rinuncia
Infine, la terza condizione della sequela: “Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”. Sarebbe troppo semplicistico immaginare che gli averi si riferiscano ai soli beni materiali, soprattutto il denaro, come fossero l’unico vero ostacolo alla sequela di Cristo. In parte è anche vero. Tuttavia, tra gli averi quello di maggiore peso, e al quale proprio per questo facciamo più fatica a rinunciare, è il nostro Io! La perversione dell’egoismo è ulteriormente peggiorata dalla bramosia insaziabile di imporci con sempre più evidenza e forza nei confronti degli altri. Insomma, la voracità inarrestabile dell’egoismo può mutare pericolosamente in egolatria o autolatria, nell’adorazione di se stesso, nel culto sfrenato del proprio Io. La rinuncia chiesta da Gesù è condizione di libertà, per non restare schiacciati sotto la tirannia crudele del malgoverno dei nostri affetti. Impegnarsi nell’amore per Cristo e di coloro che Lui mi affida, richiede la purificazione continua dalla tentazione del narcisismo e dell’autoreferenzialità, per servire con animo puro e libero, con una volontà di bene per gli altri, e con la consapevolezza che “si è più beatitudine nel dare che nel ricevere” (Atti 20, 35).
+ Gerardo Antonazzo