Vivere e morire d’Amore
Omelia per l’ordinazione presbiterale di Fra Giovanni Piacentini, OFM.CAP.
Badia di Esperia, 12 settembre 2020
Carissimi presbiteri e diaconi, carissimo fra Giovanni,
cari amici, fratelli e sorelle,
la parola dell’apostolo Paolo presenta una significativa sintesi della vita cristiana come reale condivisione di tutto il mistero di Cristo: “Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (Rm 14,7-8). La vita di ogni discepolo si misura con una sempre più personale, reale e totale adesione al Signore Gesù. Il compimento di tale processo lo indica e lo descrive lo stesso apostolo: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,19-20).
Dire: Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore, significa dunque vivere nel corpo, cioè nella nostra concretezza relazionale, la sequela di Cristo, che matura e si perfeziona come imitazione del Maestro secondo le parole dell’apostolo: “Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia. Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,20-21). Caro fra Giovanni, hai dalla tua parte colui che di questa esperienza ha dato viva testimonianza: il poverello d’Assisi è maestro di vita discepolare perfetta. L’esperienza mistica di Francesco è la chiave di volta di tutto il racconto agiografico, testimone della perfetta conformazione a Cristo. La sua conversione è il punto di partenza di una trasformazione spirituale che lo ha condotto ad un rinnovamento interiore realizzato attraverso la piena adesione al Signore Gesù.
Scrive Tommaso da Celano: “I frati che sono vissuti con lui sanno quanto fossero continui e quotidiani, quanto dolci e soavi, quanto benevoli e pieni d’amore i suoi discorsi su Gesù. La bocca parlava per la pienezza del cuore, e una fonte di amore ardente riempiva le sue viscere e si riversava al di fuori. Molto, certamente aveva in comune con Gesù: portava sempre Gesù nel cuore, Gesù sulla bocca, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra [ ] E poiché con amore sconfinato portava e serbava sempre in cuor suo Cristo Gesù, e Cristo Gesù crocifisso, proprio per questo più degli altri è stato gloriosamente fregiato del segno di Colui che, in estasi, contemplava in una gloria indicibile e incomprensibile” (Vita del beato Francesco, IX 112-5).
Il beato Francesco ti insegna che quando viviamo per Lui, il Signore ci porta a una pienezza, a una gioia, a una letizia tali che superano qualsiasi nostra immaginazione. Quando Cristo è all’opera con la sua chiamata, afferra un essere umano, lo invita a sé, lo chiama per farlo partecipe della sua vita, della sua pienezza, della sua missione: nulla di noi che non gli appartenga. E per meglio vivere l’appartenenza al Signore dobbiamo soprattutto saper morire per Lui, rinnegando l’idolatria del nostro io, l’orgoglio nefasto delle nostre presunte capacità umane. Esorta ancora l’apostolo Paolo: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! [ ]. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria [ ] Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,5-14).
Vivere e morire per il Signore impegna a vivere e a morire solo per amore! Vivere per amore è possibile se sappiamo morire ogni giorno; e morire per amore è fare del servizio agli altri l’unica ragione di vita nel nome e nell’amore di Cristo. La sua vita e la sua morte, il nostro vivere e il nostro morire, gridano lo stesso amore, e quando noi rispondiamo alla chiamata di Cristo, il Signore porta la nostra fragilità ad una pienezza tale da trasfigurare la nostra condizione umana in “sacramento” del suo Amore divino.
Vivere e morire con il Signore, carissimo fra Giovanni, significa consegnare a Lui la tua fragile umanità, il nulla delle tue debolezze. Non è inopportuno ricordare l’ammonizione di santa Teresa: “Se la vogliamo fare da angeli, probabilmente finirà che la faremo da demòni”. Il Rito di ordinazione oggi ti conforma sacramentalmente al mistero di Cristo, consegnando a Lui tutto quello sei. Lo Spirito Santo assume e trasfigura la tua concreta realtà umana; a questa sua azione ti sei già disposto docilmente con la Professione religiosa dei consigli evangelici della povertà, della castità e dell’obbedienza. Ma nulla di tutto ciò ti rende già perfetto. Resterai sempre mendicante della misericordia divina. San Francesco nella Lettera ai fedeli, che tra i suoi testi epistolari fu forse l’ultimo ad essere scritto, rivolgendosi a tutti i cristiani, ammoniva: “Coloro poi che hanno ricevuto la potestà di giudicare gli altri, esercitino il giudizio con misericordia, così come essi stessi vogliono ottenere misericordia dal Signore; infatti il giudizio sarà senza misericordia per coloro che non hanno usato misericordia” (num.191). E ancora: “E colui al quale è demandata l’obbedienza e che è ritenuto maggiore, sia come il minore e servo degli altri fratelli, e nei confronti di ciascuno dei suoi fratelli usi ed abbia quella misericordia che vorrebbe fosse usata verso di lui, qualora si trovasse in un caso simile. E per il peccato del fratello non si adiri contro di lui, ma lo ammonisca e lo conforti con ogni pazienza e umiltà” (nn. 197-198).
Caro fra Giovanni, la parabola del vangelo ti ricorda che tutto nella vita è frutto della misericordia di Dio, e tutto nel tuo ministero di prete deve parlare di misericordia. Così insegna il Papa: “Ci sono due cose che non si possono separare: il perdono dato e il perdono ricevuto … Tutti siamo debitori. Tutti. Verso Dio, che è tanto generoso, e verso i fratelli. Ogni persona sa di non essere il padre o la madre che dovrebbe essere, lo sposo o la sposa, il fratello o la sorella che dovrebbe essere. Tutti siamo “in deficit”, nella vita. E abbiamo bisogno di misericordia. Sappiamo che anche noi abbiamo fatto il male, manca sempre qualcosa al bene che avremmo dovuto fare” (Papa Francesco, 18 marzo 2020). Anche tu, fra Giovanni, sperimenterai di non essere il frate e il prete che dovresti essere, come anch’io sento di non essere il Vescovo che dovrei essere. Solo la misericordia di Dio dà respiro alla nostra felicità. Vita e ministero del presbitero sono manifestazione della misericordia divina. Tutto parla di compassione divina. Chi di noi sinceramente direbbe di sentirsi il peggiore peccatore del mondo? S. Francesco confessava di esserlo, non perché confrontava se stesso con gli altri, ma perché era così intimamente vivo nel suo cuore il senso del proprio peccato dinanzi a Dio che si sentiva sgomento e come schiacciato dal suo peso. Ricorda l’apostolo Giovanni: “Se diciamo di essere senza peccato, facciamo di Dio un bugiardo” (1Gv 1,10). Non c’è nessuno di fronte a Dio che non debba cantare le sue misericordie: “Misericordias Domini, in aeternum cantabo” (Sal 89).
Questo è vero anche per Maria Santissima, di cui oggi ricorre la memoria del suo Santo Nome. Ella pure avrebbe dovuto contrarre il peccato originale, secondo l’insegnamento di s. Tommaso d’Aquino. La sua Concezione Immacolata è un privilegio per il quale è stata sublimiori modo redempta (Pio IX, Ineffabilis Deus). Dunque, redenta anche Lei, in modo sublime, ma pur sempre redenta. Nessuno, dunque, si può sottrarre al riconoscimento di dover tutto alla misericordia infinita di Dio. Solo un sentimento vivo del nostro peccato, della nostra ingratitudine a Dio, della nostra resistenza alla sua grazia, solo un sentimento di vero pentimento per questa nostra avarizia con Lui, ci mette, caro fra Giovanni, nella condizione più vera per potergli finalmente rispondere: Eccomi!
+ Gerardo Antonazzo