L’architrave di un cantiere aperto
Omelia per la conclusione del Giubileo straordinario
12-13 novembre 2016
Penso alla conclusione dell’anno giubilare come all’inaugurazione di un tratto autostradale, non il completamento dell’intera costruzione. Molto infatti, la gran parte dell’impresa, resta ancora da realizzare. Abbiamo sviscerato la parola “misericordia” secondo le diverse modulazioni bibliche e pastorali. Può aver commosso, irritato, confuso, destabilizzato, indispettito…comunque non ci ha lasciato indifferenti. Ereditare un patrimonio così ricco e impegnativo ci impegna in un cammino che tocca il cuore della missione della Chiesa illuminata dal Signore Gesù, volto della misericordia del Padre. Di ciò che abbiamo “visto e udito” dobbiamo fare memoria e custodire: la memoria ci aiuta a riferirci con gratitudine a ciò che abbiamo vissuto; la custodia nel cuore ci chiede di guardare al futuro per continuare a trarne profitto. Il cantiere, pertanto, resta aperto; e il personale addetto non è al completo, a differenza di quanto spesso si trova scritto all’ingresso dei cantieri. Se la misericordia è “l’architrave che sorregge la vita della Chiesa”, di questa costruzione restiamo responsabili, sapendo di dover diventare operai specializzati della misericordia.
Tempio e tempo del perdono
Il vangelo inizia con l’ammirazione della gente per il grandioso tempio. Ricostruito e sontuosamente ornato da Erode il Grande, aveva una bellezza leggendaria. Lo storico romano Tacito parla di una “ricchezza inaudita”. Al di là dell’emozione estetica, l’imponenza del tempio incarnava per Israele la sublimità e la perennità della protezione divina. Gesù annuncerà la sua umanità come il vero tempio della gloria di Dio: “Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,20-21).
A immagine di Cristo, anche la Chiesa è tempio della misericordia di Dio, dove si impara a diventare “misericordiosi come il Padre” (Lc 6,36). Mentre ringraziamo il Signore per il dono del Giubileo, noi per primi vogliamo chiedere perdono al Signore per quanto non abbiamo potuto, saputo o voluto vivere nel corso dell’anno giubilare. Eravamo chiamati a passare dal Tempio del perdono al tempo della misericordia: chiediamoci in che cosa ci siamo arenati, di fronte a quale ostacolo ci siamo arresi, quali passi ci siamo rifiutati di fare, chi e perché abbiamo evitato, con chi non ci siamo riconciliati, perché ci siamo opposti alle ragioni altrui? Se ogni battezzato, non è disposto a diventare “casa del perdono”, la predizione della fine riguarderà la stessa comunità cristiana, destinata a sgretolarsi come il tempio di Gerusalemme: “…di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta” (Lc 21,6).
La strategia della prossimità
La conclusione del Giubileo incrocia la Parola di Dio che orienta la nostra speranza verso le “cose ultime” della storia. “Ultime” per l’importanza e la centralità che rivestono. E, tra tutte, la carità, perché la conclusione del Giubileo ci consegna la parola chiave con cui ci misuriamo durante l’esistenza terrena e con cui saremo misurati alla fine della storia nel “giorno del Signore”. Nella prima lettura oggi il profeta Malachia dichiara: “Sta per venire il giorno rovente come un forno. Allora tutti i superbi e tutti coloro che commettono ingiustizia saranno come paglia […]. Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia” (cfr. Ml 3,19-20). La carità “non avrà mai fine” (1Cor 13, 8). Nel giorno ultimo dell’incontro con il Signore saremo giudicati sull’amore, secondo la parabola di Matteo 25.
Nel segno della carità la misericordia si traduce in prossimità verso le povertà materiali, morali, e spirituali che feriscono la dignità della persona, per “risvegliare la nostra coscienza spesso assopita davanti al dramma della povertà e per entrare sempre di più nel cuore del Vangelo, dove i poveri sono i privilegiati della misericordia divina” (MV, 15). L’abbraccio del samaritano è un’accoglienza totale e incondizionata dei bisogni dell’altro: non lo abbandona finché non può dirsi sicuro della soluzione definitiva del problema. Dunque, non solo l’accoglienza, ma ancor più l’accompagnamento delle povertà ci rende davvero prossimi agli altri. Le “opere di misericordia” che la catechesi giubilare ha voluto attenzionare, prima ancora di essere “cose” da fare o azioni da compiere, esigono una conversione del cuore: chi è davvero convertito dalla misericordia di Dio, non può non convertirsi alla misericordia: “Non possiamo sfuggire alle parole del Signore: e in base ad esse saremo giudicati […] Non dimentichiamo le parole di san Giovanni della Croce: Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” (MV 15).
Il volto della maternità
La Chiesa è sempre madre per vocazione, spesso matrigna per difetto.
Il volto della sua maternità è ferito, imbrattato, sfigurato dal peccato dei suoi membri. La trappola della rigidità delle regole, la durezza dei giudizi, la spregiudicatezza delle condanne, il prurito della maldicenza, la tentazione della condanna, la maledizione dell’esclusione, e non solo, opacizzano fino a sfigurare il volto della tenerezza di una Chiesa aperta, accogliente, misericordiosa, perché prima di tutto madre. Nei vangeli coloro che contestano sempre, e sempre hanno da ridire, sono i farisei, i quali non ammettono che Gesù vada a mangiare in casa dei pubblicani e dei peccatori. Da questi ultimi, dagli ultimi, Gesù si lascia toccare, fino a lasciarsi sporcare dal sudiciume morale dei più deboli che, primi, si gettano ai suoi piedi per bagnarli di lacrime e appellarsi alla sua misericordia. Se Gesù Cristo è il volto della paternità e della maternità di Dio, la Chiesa non può sottrarsi alla missione di rivelare il volto paterno e materno del Signore.
E’ questa la logica del pensiero pastorale di Papa Francesco, chiaramente espresso soprattutto nelle due Esortazioni apostoliche: Evangelii gaudium e Amoris laetitia. La misericordia è la “via pastorale” della Chiesa tracciata dai verbi del suo agire: accogliere, accompagnare, discernere e integrare, non solo per l’annuncio del “vangelo dell’amore”, ma per l’intera sua azione evangelizzatrice.
Perseverare nella misericordia
“Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime” (Lc 21,19).
Il richiamo alla perseveranza ci chiede di andare oltre l’anno giubilare che oggi concludiamo. Perseverare nella misericordia richiede di ristrutturare la nostra mente e rilanciare il nostro agire nella direzione consegnata dal vangelo: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Per diventare “misericordiosi come il Padre”, dobbiamo imparare ad amare come Gesù, spogliandoci di ogni pregiudizio, e perseverando nella severità del servizio, con il solo catino e asciugamano. L’esercizio della misericordia non insegue atti eroici, non richiede slanci forfettari, non scrive storie leggendarie, non racconta brani singolari, ma sgrana una sequenza perseverante e ordinaria di azioni ravvivate da un amore disponibile a mettersi in gioco perché si pone in ginocchio, pur di raggiungere e baciare le bassezze di chi è caduto. E’ necessaria la perseveranza della misericordia di fronte alle tribolazioni e alle difficoltà, mettendo in conto le mancate gratificazioni e riconoscimenti, rifiuto e disprezzo, indifferenza e incomprensione. E’ in questa gratuità della misericordia che potremo essere riconosciuti come discepoli.
+ Gerardo Antonazzo