Un Dio strano, ma non estraneo
Omelia per la domenica delle Palme
9 aprile 2017
“Questa assemblea liturgica è preludio alla Pasqua del Signore”. Queste parole della liturgia orientano, dunque, lo spirito della nostra preghiera agli eventi che daranno “compimento al mistero della sua morte e risurrezione”. Un repentino mutamento di scena e di clima spirituale ci farà passare dai rami della festa all’albero della croce. Gli inni e i canti delle folla esultante, le grida e gli schiamazzi di bimbi e ragazzi, lasceranno il posto al grido del dolore, quello dell’Uomo della Croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. La domenica delle Palme diventa immediatamente domenica di Passione. La gioia della Città santa per il Messia si tramuta da lì a poco nel dolore del Messia per Gerusalemme, anticipato nel lamento per l’ostinato rifiuto: “Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!” (Mt 23, 37).
La scelta paradossale di Dio
E’ davvero strano il Signore, agisce contro ogni logica pur di non restare estraneo ai nostri problemi: “Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”(Fil 2, 5-7). Non trattiene per sé la natura divina, a voler conservare le distanze dalla condizione umana. Quella di Dio è davvero una scelta assurda, incomprensibile. Il suo è un errore imperdonabile? Ci lascia sorpresi, perché Lui che poteva evitare il dolore, di proposito lo sceglie; mentre l’uomo, che di certo non sceglie il dolore, non riesce ad evitarlo. Dio decide di non restare a guardare. Preferisce essere “strano”, non capito e non creduto, piuttosto che restare estraneo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido […]: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (Es 3, 7-8). Dio non fa finta di non vedere, non fa finta di non soffrire e non resiste alla “tentazione” di sporcarsi le mani: freme di compassione, prende l’iniziativa e decide di ‘scendere’ per intervenire e liberare, non certo per fare del male. Nella kenosis (abbassamento-umiliazione) di Cristo, Dio condivide tutto della condizione umana: il peccato no, ma il dolore sì! Anzi, tutto sembra finalizzato alla partecipazione al dolore dell’uomo. Perché? Perché la maledizione del peccato, causa di ogni dolore inflitto all’umanità e all’intera creazione, non poteva essere risolta e salvata se non con il dolore di Dio. Lui fa realmente sua la nostra maledizione, nell’anima e nel corpo. Per noi il dolore è una costrizione, per Lui è scelta d’amore. Decisione libera e consapevole. Si consegna volontariamente al dolore, con una libertà sovrana: “Gesù si fece innanzi e disse loro: ‘Chi cercate?’. Gli risposero: ‘Gesù, il Nazareno’. Disse loro Gesù: “Sono io!” (Gv 18,4-5).
Dolore salvifico
Se la domanda sul dolore dell’uomo è difficile, molto più complicata è la questione del dolore di Dio. Non ci turba solo la domanda: perché l’uomo soffre? ma ci inquieta perché Dio ha scelto di soffrire. E’ ammissibile un Dio sofferente? Avrebbe potuto salvarci dalla maledizione del peccato in modo diverso: “Se tu sei il Figlio di Dio, scendi dalla croce” (Mt 27, 40). Non lo fa! Non si lascia tentare. La Croce, di cui le palme sono preludio, è una “passione d’amore” nel senso che parla di un dolore che è segno di amore. Scrive Bruno Forte: “La croce è dunque il luogo in cui Dio parla nel silenzio: quel silenzio della sofferenza umana, che è diventata per amore la sua sofferenza! [ ]Il Dio cristiano soffre perché ama, ed ama in quanto soffre [ ]. Nella morte di croce il Figlio è entrato nella ‘fine’ dell’uomo, nell’abisso della sua povertà, della sua tristezza, della sua solitudine, della sua oscurità”.
La consegna del dolore
Nel momento estremo del tormento, le tenebre del Calvario si illuminano di una luce imprevedibile; nell’ora estrema dell’abbandono da parte del Padre, Cristo trasfigura l’imprecazione in preghiera di abbandono a Lui e sigilla la sua totale consegna: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”(Lc 23,44). Nella triste condizione del fallimento, ogni uomo e donna non potrà non sentirsi intimamente unito a chi, anche Lui abbandonato, solo con se stesso, si sente tradito, angosciato. Come chi lotta, giorno dopo giorno, per mantenere viva la speranza, e giungere a sentire Dio non più un nemico, ma un Padre buono che, allargando anche Lui le braccia, mi abbraccia per accogliere lo strazio della mia disperazione, e trasfigurarlo in sacrificio d’amore, farmaco di guarigione interiore.
Grazie al dolore di Gesù crocifisso anche il dolore dell’uomo cambia volto, cambia significato. Se il nostro dolore fosse condannato all’assurdo non sarebbe altro che una tragedia, un peso insopportabile. Se invece la sofferenza è trasfigurata dal dolore di Dio, l’oscurità terribile dell’angoscia è perforata dal raggio della luminosità del Crocifisso: “Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Il dolore umano dei nostri lamenti ci trapassa l’intimo e ci distrugge; invece, il dolore consegnato nelle mani perforate di Cristo, ci risana e ci fa sentire parte di un mistero universale d’amore e di guarigione. Nel soffrire con Cristo diventa possibile trasformare il dolore in amore, il soffrire in offrire. “Il dolore – scrive don Gnocchi – non si deve tenerlo per sé, ma bisogna farne dono agli altri”; esso “ha un grande potere sul cuore di Dio, di cui bisogna avvalersi a vantaggio di molti”.
+ Gerardo Antonazzo