“Apri la bocca e mangia ciò che io ti do”
Esprimo la mia gioia spirituale nel pregare insieme con l’intera Comunità del Seminario: a ciascuno di voi, Educatori e Seminaristi, assicuro il mio cordiale affetto e stima. Ringrazio per l’invito a presiedere questa significativa Eucarestia che, oltre ad essere impregnata degli elementi liturgici che caratterizzano il tempo dell’Avvento, celebra anche, con il rito di istituzione del ministero del Lettorato, una delle tappe spirituali che ritmano il percorso formativo e sviluppano il discernimento vocazionale della Comunità.
Il ministero del Lettorato, in particolare, esprime la pedagogia con cui la Chiesa educa gradualmente alla complessità della missione coloro che sono scelti per l’ordine sacro affinché “l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tim 3,17).
Miséreor turbae
Nel vangelo che abbiamo celebrato con l’atto liturgico della proclamazione, Gesù ci rende partecipi dei suoi forti affetti interiori: ” Sento compassione per la folla”.
Così esorta Papa Francesco:
“Pensiamo oggi a Gesù, che sempre vuole che tutti ci avviciniamo a Lui; pensiamo al Santo Popolo di Dio, un popolo semplice, che vuole avvicinarsi a Gesù; e pensiamo a tanti cristiani di buona volontà che sbagliano e che invece di aprire una porta la chiudono … E chiediamo al Signore che tutti quelli che si avvicinano alla Chiesa trovino le porte aperte, trovino le porte aperte, aperte per incontrare questo amore di Gesù. Chiediamo questa grazia” .
E durante un’altra omelia del mattino, nella cappella di S. Marta: “Tenerezza! Ma il Signore ci ama con tenerezza. Il Signore sa quella bella scienza delle carezze, quella tenerezza di Dio. Non ci ama con le parole. Lui si avvicina – vicinanza – e ci dà quell’amore con tenerezza. Vicinanza e tenerezza! Queste due maniere dell’amore del Signore che si fa vicino e dà tutto il suo amore con le cose anche più piccole: con la tenerezza. E questo è un amore forte, perché vicinanza e tenerezza ci fanno vedere la fortezza dell’amore di Dio” .
La compassione esprime la condivisione dei bisogni della gente che si stringe attorno. Gesù ascolta il grido di speranza dei malati di ogni genere; accoglie persone stanche e affamate; incoraggia i discepoli preoccupati e disorientati per la sproporzione tra il luogo deserto e la possibilità di garantire il pane per la folla numerosa.
Il deserto è luogo della tentazione, della mormorazione e della ribellione, quindi del peccato contro Dio. Ma può diventare luogo di invocazione, di fiducia, di alleanza, e di rivelazione della potenza ineffabile dell’amore di Dio.
In questo luogo deserto, la compassione di Gesù dimostra che il segni del Regno di Dio ormai sono evidenti: “Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele” (Mt 15, 30-31).
Sono i segni dimostrativi della nuova era messianica, che Gesù elencherà per i messaggeri di Giovanni Battista:“Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo” (Mt 11,2-5).
Gesù vuole condividere la sua compassione, rendendo i discepoli partecipi di questo sguardo amorevole del cuore. Già in Mt 9, 36-10,1 troviamo questa apprensione pastorale del Maestro: “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore…”. E che cosa fa? Come risolve questa difficoltà? “Chiamati a sé i dodici discepoli…” L’evangelista, per indicare la chiamata, usa il verbo greco proskalesàmenos (dal verbo greco kaleo), così come farà anche nella redazione del brano della liturgia odierna, dove si dice che: “Gesù chiamati (proskalesàmenos) a sé i suoi discepoli, disse: Sento compassione per la folla” (Mt 15,32).
Chiamati a collaborare
Proskalesàmenos, dunque chiamati a collaborare, resi partecipi della compassione del Maestro.
L’esortazione che tra poco il rito dell’istituzione del Lettorato rivolgerà ai candidati, afferisce al significato dello stesso ministero: “Diventando lettori, cioè annunziatori della Parola di Dio, siete chiamati a collaborare a questo impegno primario nella Chiesa”. Ancora una volta sarete chiamati per nome, come nel giorno del Battesimo, così come quando siete stati ammessi agli ordini sacri. Il vostro ”Eccomi” esprime il dialogo ininterrotto con il Signore.
Ogni tappa della formazione al ministero presbiterale è segnata, e sempre riparte, da questo dialogo ininterrotto tra il discepolo e il Maestro, costruito intorno ad un appello, ad una parola di chiamata, e alla risposta consapevole, al consenso libero di chi accoglie questa pro-vocazione.
Oggi il Signore passa nella vostra esistenza e rinnova il suo invito: considera la folla, e guarda con occhio di predilezione la vostra storia. Egli non può considerare i bisogni della folla senza pensare a voi; così anche, non può pensare a voi indipendentemente dai bisogni della gente. Egli considera le attese della gente, conosce la sua fame di speranza e di gioia, e chiede ancora oggi: «Chi manderò e chi andrà per noi?». E io risposi: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8).
Il banchetto della vita
Con la preghiera iniziale della Colletta abbiamo chiesto al Padre di essere trovati “degni di partecipare al banchetto della vita”.
L’elemento del banchetto domina anche la scena profetica narrata da Isaia nella prima lettura, e la condivisione del cibo occupa la narrazione letteraria del vangelo odierno.
Ancora oggi il Signore chiama coloro che rende partecipi della sua compassione, preparandoli a nutrire la fame della folla con il primo e fondamentale alimento, il cibo della Parola.
La Parola è cibo che alimenta la vita del popolo di Dio. La Dei Verbum 21 richiamandosi alla tradizione antica, cara ai padri della Chiesa, riscopre la venerazione della Parola di Dio al pari del Corpo di Cristo, parlando di “Mensa della Parola di Dio e Mensa del Corpo di Cristo”: “La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella Liturgia di nutrirsi del pane della vita alla mensa sia della Parola di Dio che del Corpo di Cristo”.
Gesù stesso ci ha detto l’uomo non vive soltanto di pane ,” ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio “(Mt 4,4). Origene affermava che bisogna mangiare il Verbo sotto la specie della Parola, e per questa via si arriva alla manducazione perfetta, anche sacramentale, del corpo e del sangue di Cristo. Si parla allora di mensa della Parola perché anche essa è già comunione viva ed efficace con Cristo Verbo, comunione nella fede e nell’adesione amorosa.
S. Ambrogio commentando i salmi scrivee: “Si beve il Cristo al calice delle Scritture come da quello eucaristico” .
S. Cesario di Arles in un sermone scrive: “Vi domando, fratelli e sorelle, che cosa vi sembra più importante: la Parola di Dio, o il Corpo di Cristo? Se volete rispondere bene, dovete senza dubbio dire che la Parola di Dio non è da meno del Corpo di Cristo. E allora, se poniamo tanta cura quando ci viene consegnato il Corpo di Cristo perché nulla di esso cada per terra dalle nostre mani, non dovremmo porre altrettanta attenzione perché la Parola di Dio, che ci è offerta, non sfugga dal nostro cuore, cosa che avverrebbe se stiamo pensando ad altro? Colui che avrà ascoltato con negligenza la Parola di Dio non sarà meno colpevole di colui che, per la propria negligenza, avrà fatto cadere a terra il Corpo di Cristo” .
Questo testo è un bel commento alla vicenda di Samuele, commentata dal testo sacro con questa osservazione: ”Samuele crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole” (1Sam 3,19). Così come Maria di Nazareth, la quale “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore (Lc 2,19).
La fede si nutre di cibo e bevanda spirituali
I due verbi – avere fame/avere sete – in senso metaforico esprimono bene il forte desiderio di Dio e della sua Parola: «L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…» (Sal 42,3); «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63,2); «Ecco verranno giorni -dice il Signore – in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore» (Am 8,11 ). E Gesù: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la Parola di Dio e la custodiscono” (Lc 11,28).
Potremmo esprimere il contenuto di questa beatitudine con il commento di don Luigi Serenthà «Beati quelli che hanno fame e sete di fare la volontà di Dio, cioè che dicono: il mio nutrimento, il nutrimento su cui faccio crescere la mia vita, così come il corpo cresce sul pane e sull’acqua, non è la mia volontà, ma la volontà di Dio. Io ho fame di Dio, ho sete di lui, la sua volontà è punto di riferimento per la mia esistenza. Mi affido a Dio, lui è la mia gioia, ciò che egli mi rivela lo mangio e lo bevo con quella avidità con cui l’assetato e l’affamato bevono l’acqua e mangiano il pane».
Sant’Ignazio nei suo Esercizi spirituali ammonisce: «Non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima ma il sentire e gustare le cose interiormente». Il desiderio dell’uomo spirituale è di «gustare la dolcezza del Signore (Sal 26,4). A questo desiderio, Dio risponde inviando la sua manna (cfr. Es 16,14-15). In più passi del Talmud la manna viene poeticamente descritta come lavorata nelle macine celesti, tra le nuvole, per essere cibo di cui si nutrono gli angeli. La manna è simbolo della Sapienza divina. Il Talmud racconta che la manna cadeva davanti alla porta dei giusti come pane perfettamente lievitato. Le persone comuni dovevano uscire dalla loro dimora per trovarla come pasta da lavorare; i malvagi, invece, erano costretti a vagare per raccoglierla come materiale grezzo da macina. La manna dunque rinvia anche alla Parola di Dio. Alcuni suggestivi passi del Talmud spiegano che la manna cadeva per tutti i figli di Dio, ma ciascuno assaporava e gustava un sapore diverso da quello degli altri.
Ascoltate e vivrete
Come ascoltare la Parola? La meditazione è la forma più idonea dell’ascolto fecondo della Parola.
Durante il suo viaggio in Germania, Benedetto XVI ha detto: “Non esiste soltanto la sordità fisica, che taglia l’uomo in gran parte fuori della vita sociale. Esiste una debolezza d’udito nei confronti di Dio di cui soffriamo specialmente in questo nostro tempo. Noi, semplicemente, non riusciamo più a sentirlo – sono troppe le frequenze diverse che occupano i nostri orecchi. Quello che si dice di Lui ci sembra pre-scientifico, non più adatto al nostro tempo. Con la debolezza d’udito o addirittura la sordità nei confronti di Dio si perde naturalmente anche la nostra capacità di parlare con Lui o a Lui…L’orizzonte della nostra vita si riduce in modo preoccupante”.
Come ascoltare Dio? Ascolto di Dio prima di tutto, vuole dire riconoscere che qualcosa ci raggiunge dall’esterno, supera i nostri desideri e previene le nostre stesse domande. È riconoscere la priorità di Dio nei nostri confronti. L’essere umano è un essere creato come “uditore della parola”. Nella sua stessa identità è configurato come essere dialogante, interlocutore, aperto alla comunicazione. I mistici amano citare a questo punto, in riferimento alla voce di Dio, il versetto del Cantico dei Cantici (2, 14): “La tua voce è soave”; “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (1 Sam, 3, 9). Questa è la richiesta che il vecchio Elia insegna al giovane Samuele ed esprime un atteggiamento fondamentale dell’anima che sa, nella fede, che il suo Dio vuole entrare in comunicazione diretta con lei. L’ascolto richiede concentrazione dei sensi e apertura a ciò che giunge attraverso l’udito. Ascoltare è una radicale disposizione della mia libertà all’accoglienza incondizionata della chiamata di un tu.
In senso biblico, ascoltare, come amare, ha in se stesso la ragion d’essere. Ossia, non si ha bisogno di ascoltare “affinché…”. Si ascolta e basta! La persona si unisce amorosamente al suo Signore, abbandonandosi a lui. Ascoltare è rimanere nell’attesa di Dio, in fiduciosa attesa, senza desiderare null’altro se non Lui. La parola di Dio “ascoltata”, e non soltanto sentita da noi, produce la fecondità: “Ascoltate e vivrete!” (Is 55, 3).
Nell’era digitale il primato tocca alla visione e all’immagine rispetto a ciò che può essere ascoltato. La Scrittura, invece, pone l’accento sull’ascolto. «La fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta dalla parola di Cristo», afferma l’apostolo Paolo (Rm 10,17). Non a caso l’imperativo sul quale si fonda la fede antico-testamentaria è sintetizzato nel comandamento “Ascolta Israele!”; un appello rivolto con insistenza dal Signore “Ascoltate la mia voce” (cfr. Is 28:23; 32:9; Ger 7:23; 11:4-7) e ripetuto frequentemente dai profeti “Ascoltate la parola del Signore…” (Is 1,10; 28,14; 66,5; Ger 2,4; 7,2; 9,20; 17,20; 21,11; 29,20; 31,10; 42,15; 44,24-26; Ez 13,2; 34,7-9; 36,1-4; 37,4; Os 4,1).
Anche la sequenza eucaristica sottolinea l’importanza dell’ascolto: «Visus, tactus, gustus, in te fállitur, sed audítu solo tuto créditur».
Per il cristiano, ascoltare è mettersi in sintonia con Cristo, il servo obbediente che dona se stesso per la vita del mondo (cfr. Fil 2,5-11). La capacità di ascoltare è intrinseca alla capacità di amare: ci può essere un ascolto senz’amore, ma non può esserci un amore senz’ascolto. L’amore di Dio verso l’umanità si rivela nel fatto che egli ascolta il grido del suo popolo e interviene in suo favore. Similmente, il nostro amore verso il prossimo comincia con l’ascolto delle loro domande.
Meditare la Parola
Il rito dell’istituzione del Lettorato esorta il candidato ad accogliere la Parola di Dio con docilità, e a meditarla ogni giorno. E la preghiera rivolta a Dio a favore dei candidati recita: “Fa’ che nella meditazione assidua della tua parola, ne siano intimamente illuminati…”. La meditazione è un momento importante della vita spirituale.
Per gli antichi, la “meditatio” era un esercizio di lettura, di ripetizione, anche pronunziata, delle parole, fino a imparare il testo a memoria; “meditatio” era un esercizio in cui interveniva la persona intera: il corpo, perchè la bocca pronunziava il testo; la memoria che lo riteneva; l’intelligenza che si sforzava di penetrarne il significato; la volonta` che si proponeva di metterlo in atto nella vita pratica. I Padri parlavano anche di “masticare” la Parola, per essi c’era la famosa “ruminatio” della S. Scrittura, cioè ritornare sul testo, richiamarne le parole, ritrovare il tema centrale e imprimerlo profondamente nel cuore.
Si cerca il “sapore” della Scrittura, non la scienza. Giovanni di Fecamp (sec.XI) scrittore benedettino che si distinse per gli scritti ascetici precursori di quelli di san Bernardo, priore dell’abbazia di Fécamp e abate della stessa, parla di “gustare in ore cordis”, “assaporare nella bocca del cuore”: “Poi la voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: «Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta ritto sul mare e sulla terra». Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: «Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere, ma in bocca ti sarà dolce come il miele». Presi quel piccolo libro dalla mano dell’angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’amarezza. Allora mi fu detto: «Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni e re” (Ap 10,8-11).
Il consumo del libro da parte di Giovanni ha la sua controparte in Ezechiele 2: “Figlio dell’uomo, àlzati, ti voglio parlare». A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava…Mi disse: Figlio dell’uomo, ascolta ciò che ti dico e non essere ribelle come questa genìa di ribelli: apri la bocca e mangia ciò che io ti do». Io guardai, ed ecco, una mano tesa verso di me teneva un rotolo”.
Mangiare un libro è un’espressione semitica per dire “ricevere nel cuore” (3,10). Noi abbiamo una simile espressione idiomatica. Noi diciamo: “Ho letteralmente divorato il libro”, oppure “Devo prima digerire quello che ho sentito”. Ezechiele racconta la sua vocazione profetica descrivendo la visione del libro (3,4).
Ricevi e trasmetti
La Parola è di Dio, noi la riceviamo per trasmetterla fedelmente. Nessuno è padrone della Parola di Dio: “La parola di Dio non è incatenata!” (“Tim 2,9).
Afferma Raniero Cantalamessa : “…Un mezzo primordiale con cui si trasmette la parola, ogni parola, è il fiato, il soffio… anche la Parola di Dio segue questa legge, si trasmette per mezzo di un fiato, di un soffio… Il Soffio di Dio è lo Spirito Santo… La Parola di Dio può essere resa viva solo dal Soffio di Dio che è lo Spirito Santo…
San Paolo dice che senza lo Spirito Santo non è possibile dire nemmeno “Gesù è il Signore” che è la formula più elementare di annuncio cristiano… Come dobbiamo fare, in pratica, per ottenere anche noi lo Spirito Santo e essere animati da questo Soffio di Dio che rende potente la Parola?… Il primo punto è la preghiera… La preghiera di Gesù fa scendere lo Spirito Santo. La preghiera di Gesù riempie la Sua vita… Le folle premono.., ma Gesù non si lascia catturare,… non vuole rinunciare al Suo dialogo col Padre… La preghiera è un sottofondo continuo della Vita di Gesù…”.
Meno si prega più si parla, ma sono parole inutili, un diluvio di parole inutili… Questa parola inutile è il contrario della Parola di Dio feconda e creatrice. Nella vita di Gesù ci furono molte notti di Getsemani, non una sola, nelle quali lottava col Padre… per piegare la Sua volontà a quella del Padre. Poi al mattino… predicava e la gente diceva: “Parla con autorità”. Noi siamo uomini dalle labbra impure… ma se Tu Signore ci chiami, noi ti diciamo “Ecco manda me”.
+ Gerardo Antonazzo