IL RISVEGLIO MISSIONARIO DELLA CHIESA IN UN MONDO CHE CAMBIA
17 giugno 2019
Prof. Don Giovanni Tangorra
Venerdì abbiamo studiato tre tratti per così dire anagrafici dell’identità della Chiesa: la comunione, il popolo e la sinodalità. Stasera parliamo di missione, che dal latino mittere, vuol dire letteralmente “inviare/mandare”. È la Chiesa inviata al mondo come sacramento di salvezza. La vita cristiana funziona come il movimento cardiaco di sistole e diastole, raccoglie e invia. «Vieni e seguimi», dice Gesù, che aggiunge: non «si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15).
Il concilio ha inserito la missione tra gli elementi identitari, per cui si parla di Chiesa missionaria. Nell’Evangelii nuntiandi (= EN), Paolo VI preferisce dire “Chiesa evangelizzatrice”, e scrive che «la Chiesa esiste per evangelizzare» (n. 14). I due termini sono da considerarsi sinonimi, anche se il secondo esprime meglio il contenuto: la missione della Chiesa è evangelizzare, cioè portare la buona novella di Cristo.
Oggi si avverte l’urgenza di un risveglio missionario, perché il mondo sta cambiando. Non siamo più in un’epoca “naturalmente” religiosa, quando si nasceva a un tempo cristiani e cittadini, e la società faceva da campana protettiva, ma in un ambiente aperto, spesso disgregante. Il rischio è ripiegarsi su se stessi, vivacchiare, in attesa di tempi migliori. Così facendo, però, si assomiglia all’uomo della parabola che nasconde il suo talento, mentre lo Spirito spinge a navigare in mare aperto.
Il nostro argomento ha assunto proporzioni vaste, per cui vorrei articolare la riflessione in tre momenti: gli aspetti generali, la Chiesa in uscita, le parrocchie missionarie. Nel primo percorrerò alcune tappe del modo in cui è stata concepita la missione; nel secondo mi soffermerò sull’Evangelii gaudium (= EG); il terzo avrà come riferimento la parrocchia, individuando alcuni obiettivi pratici di conversione missionaria.
- Aspetti generali. Punto di partenza è l’immagine di Gesù missionario, in parole e opere, che camminò per i villaggi, comunicando la buona novella del Regno, cioè dell’azione misericordiosa di Dio che salva. Lasciando questa terra, Gesù affida la sua missione messianica ai discepoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19). L’evangelizzazione non è dunque un optional, ma un imperativo del Signore. In 1Cor 9,16, Paolo giunge a scrivere: «Annunciare il Vangelo è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!».
Nella comunità apostolica si notano due importanti passaggi: Gesù diventa l’oggetto dell’evangelizzazione e la missione si universalizza. «Ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo», scrive Atti 5,42. L’universalità della sua salvezza porta la Chiesa a intraprendere un viaggio che secondo il racconto lucano la condurrà da Gerusalemme a Roma, caput mundi. Spicca la figura di Paolo, l’apostolo dei pagani, e senza di lui forse noi non saremmo qui a parlare di cose cristiane.
Lungo la storia, la missione è stata esercitata in varie forme, la parola, la testimonianza, la carità, i sacramenti. Una delle principali è la tras-missione, la catena che ha permesso alla fede di passare da una generazione all’altra. Nel medioevo, la missione era concepita come compiuta, perché gli spazi geografici circostanti erano evangelizzati. Fu la scoperta dei nuovi continenti a determinare un risveglio missionario. La Chiesa europea inviò missionari in tutto il mondo. Al suo interno, dando per scontato che tutti erano già cristiani, si preferì parlare di “cura pastorale” (il curato), dal carattere sacramentale. Verso la metà del XX secolo si fece la traumatica esperienza che proprio i paesi di più antica tradizione cristiana erano in realtà “terra di missione”. Si è così cominciato a parlare di pastorale missionaria, o, con un’espressione coniata da Giovanni Paolo II, di “nuova evangelizzazione”.
Il concilio Vaticano II si è occupato della missione soprattutto nella LG e nel decreto sulla missio ad gentes. Quattro nuove prospettive sono: 1) La dichiarazione che la Chiesa «è missionaria per sua natura»; 2) la distinzione tra “missioni”, riferite all’evangelizzazione dei non cristiani, e “missione” al singolare, per indicare tutte le attività della Chiesa; 3) L’estensione della responsabilità all’intero popolo di Dio, e non più solo ai missionari per vocazione; 4) L’integrazione degli obiettivi, per cui la missione non si occupa solo della salvezza delle anime, ma «procura insieme la gloria di Dio e la nostra felicità» (AG 2).
- La Chiesa in uscita. Tra i documenti pontifici postconciliari, c’è la citata EN (1975), la Redemptoris missio di Giovanni Paolo II (1990) e, ai nostri giorni, l’EG di Francesco (2013). Quest’ultima Esortazione ha lo scopo di rilanciare la missione, che il papa eleva a paradigma, cioè a principio ispiratore di tutto. È divisa in cinque capitoli. Il primo spiega il paradigma; il secondo descrive la situazione; il terzo, più importante, tocca vari aspetti dell’evangelizzazione; il quarto tratta delle implicazioni sociali; il quinto dà la spiritualità. Poiché Francesco adopera più volte la metafora “Chiesa in uscita”, ci soffermiamo su di essa, rilevando tre propositi.
- a) Il primo è di riaccendere il gusto dell’azione. Uscire implica un dinamismo: alzarsi, incontrare gli altri, spostarsi, portarsi fuori da un ambiente chiuso o, figurativamente, da una situazione di stallo. L’opposto della Chiesa in uscita è la Chiesa autoreferenziale, letargica, abitudinaria, che si guarda allo specchio. A fronte di un cristianesimo definito “rassegnato, sterile, funereo”, si vuole «orientare nella Chiesa una nuova tappa evangelizzatrice, piena di fervore e dinamismo» (n. 17).
«Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia» (n. 27).
L’uscita missionaria ha un presupposto nella “conversione pastorale e missionaria”, che dev’essere individuale e comunitaria. Ogni Chiesa particolare, sotto la guida del suo Vescovo, scrive il n. 30, è chiamata alla conversione missionaria, cioè a costituirsi in uno stato permanente di missione. I nn. 81-82 danno per contrasto l’“accidia pastorale”, che è sterile, paralizzante, pigra, e lascia le cose come stanno. Occorre dunque scuotersi, ritrovare il fervore, mettersi in movimento.
- b) Un secondo proposito della metafora è di precisare il soggetto, cioè chi è questa Chiesa che deve uscire. In linea con l’ecclesiologia conciliare, l’EG rimanda all’intero popolo di Dio, prendendo dal documento latinoamericano di Aparecida l’immagine dei “discepoli-missionari”. Tutti siamo a un tempo discepoli e missionari, sono «le due facce di una stessa medaglia». Il fondamento è il battesimo.
«In virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cf. Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare a uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati» (n. 120).
La Chiesa è dunque un popolo missionario. Tutti però lo sono ciascuno a suo modo, secondo i carismi ricevuti, i ministeri, e le situazioni di vita, testimoniando la fede nella pastorale, la politica, la cultura, la fabbrica, l’ufficio, la famiglia, la scuola. In EN 24, Paolo VI scrive che «chi è stato evangelizzato a sua volta evangelizza».
- c) Dopo il dinamismo e il soggetto, il terzo proposito è di precisare i destinatari della missione, che il papa concentra in un’altra metafora: la periferia. Nel nostro vissuto è il centro a fare da calamita. Anche le Chiese possono sviluppare una mentalità da centro, quando si chiudono nelle sagrestie. La periferia evoca invece una distanza, e per questo la missione ha bisogno di spirito d’iniziativa:
«La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cf. 1Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa!» (n. 24).
Al n. 20, le periferie sono i lontani dalla fede, «che hanno bisogno della luce del Vangelo»; al n. 53, la metafora assume un significato sociale. Sono le periferie di chi vive nei bassifondi esistenziali: il malato, il disoccupato, il «senza potere», lo sfruttato. Come si sa, l’opzione preferenziale dei poveri costituisce un filo rosso della concezione missionaria di papa Bergoglio, motivo per cui l’Esortazione dedica un intero capitolo alle questioni sociali, ponendo al centro la carità.
- Parrocchie missionarie. Se l’immagine della Chiesa in uscita ci ha proiettati per così dire fuori dagli ambiti ecclesiali, non si deve commettere l’errore di pensare che le nostre comunità siano già evangelizzate. Al contrario, oggi si avverte un senso di distacco crescente, di stanchezza, di chiese che si svuotano. La Chiesa, nel modo in cui ad esempio abbiamo parlato l’altra sera, a volte è più sulla carta o nei discorsi, che nella realtà. Al n. 15 dell’EN, Paolo VI scrive che «evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa». La riflessione sulla parrocchia (senza comunque dimenticare altre forme aggregative, come i movimenti, le associazioni, le congregazioni, le famiglie) serve a ricordare quest’aspetto della missione.
Può sembrare paradossale, ma la storia della parrocchia è una lucida testimonianza della Chiesa missionaria. All’inizio, il cristianesimo era cittadino. I vescovi svolgevano la funzione dei parroci, in comunità ancora piccole, che nascevano nelle città. Se l’Oriente è rimasto in questo modello, favorendo la centralità dell’episcopato, l’Occidente ha conosciuto il fenomeno dell’espansione nelle campagne (le periferie di allora), inventando la parrocchia, che dal greco paroikía vuol dire letteralmente “abitare vicino”, “stare presso”. È la Chiesa che vive tra le case, scrive Giovanni Paolo II in Christifideles laici 26. All’inizio erano per lo più affidate ai diaconi, poi giunsero i presbiteri-parroci che, potendo esercitare una cura totale, svolsero un ministero all’incirca simile a quello del vescovo.
Grazie alla sua immediatezza, la parrocchia ha conosciuto un rapido e meritato successo, favorita dall’uomo spaziale che nasceva e moriva nello stesso posto. Nel medioevo fu centro di vita sociale e divenne sinonimo di appartenenza, civile e religiosa. Il parroco doveva provvedere anche alla ricerca e alla formazione dei suoi successori. La decadenza inizia con l’esaurirsi della missionarietà, quando, più che centro di evangelizzazione, divenne una struttura burocratica. La sua crisi è esplosa nell’immediato postconcilio, con la diffusione dei movimenti (oggi anch’essi in crisi), che a ragione la giudicavano superata. È sopravvissuta, ma che abbia bisogno di una riforma è cosa tangibile. Nata per un tipo di società che non esiste più, essa subisce l’ipoteca del passato, e rischia di vivere di rendita, rifugiandosi nel tempo che fu, mentre deve affrontare le sfide del rinnovamento.
Il concilio parla poco della parrocchia, la sua crisi non era ancora del tutto evidente. Per quanto riguarda la realtà italiana, va dato merito alla Cei di aver pubblicato nel periodo postconciliare una serie di documenti pregevoli, anche se la rapidità con cui si succedevano non ha dato il tempo di assimilarli. Del 2000 è Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, che aveva lo scopo di aprire un decennio di conversione missionaria. Si può riconoscere ai vescovi italiani di avere in qualche modo anticipato l’EG. Nel suo decennio rientra la nota pastorale (= NP), Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, del 2004, passata piuttosto in sordina, mentre merita maggiore attenzione. Si riconosce che il futuro della Chiesa passa attraverso la parrocchia, ma a condizione di una riforma, che deve portare a passare da una pastorale della conservazione a una pastorale missionaria. Al n. 1 leggiamo:
«Una pastorale tesa unicamente alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana non basta più. È necessaria una pastorale missionaria, che annunci nuovamente il Vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza umana conformemente al Vangelo e, nel nome del Vangelo, contribuire a rendere nuova l’intera società».
Non propongo un commento, ma prendo degli spunti da questa Nota per suggerire obiettivi pratici che possono contribuire a disegnare il volto di una parrocchia missionaria.
- a) Il primo è la conoscenza della situazione. L’evangelizzazione parte dal dove e l’a chi si rivolge l’annuncio. È l’icona del buon pastore che conosce le sue pecore. Si tratta di osservare la realtà che ci circonda, della Chiesa e dell’ambiente in cui viviamo. Oggi siamo nel tempo dei cambiamenti rapidi. In meno di un secolo si è passati dal carbone all’atomica, e per comunicare basta un clic per entrare in contatto con il mondo. Soffriamo la sindrome da mutamento. Il passato perde di valore, e la scoperta di ieri è già vecchia. Si deve poi fare i conti con fenomeni ad ampio raggio, come la post-modernità e la globalizzazione, che il concilio non conosce, ma che stanno mutando la geografia antropologico-culturale del nostro tempo.
Due fattori sociali inediti che toccano da vicino la parrocchia odierna sono il nomadismo e il pluralismo, fattori opposti a quelli che l’hanno sorretta nella storia, e cioè la stanzialità e l’unitarietà. Le case sono ancora vicine, ma le persone che le abitano sono dissimili: nella lingua, nei costumi, nella religione (se c’è). Per la NP conoscere la situazione e i destinatari dell’evangelizzazione è il primo passo della conversione missionaria. Per sostenerla si propone l’atto sinodale del discernimento comunitario, e per avviarlo il n. 4 dà un utile traccia di domande.
- b) Il secondo passo è di riformulare con uno stile missionario gli ambiti che costituiscono il tessuto tradizionale della vita parrocchiale. Essi sono esaminati uno per uno e occupano in pratica tutto il documento.
– Fondamentale è l’annuncio di Gesù Signore. «Nessun cristiano devii da questa fede, che è la sola a essere la vera fede cristiana», scriveva sant’Agostino. La NP dice che chi incontra la parrocchia deve poter conoscere e incontrare Cristo, aggiungendo che occorre riscoprire l’annuncio di Cristo «come azione essenziale della Chiesa in una società sempre più scristianizzata». Si tratta di dare spazio alla parola di Dio e alle sue varie forme di comunicazione, come la catechesi o la lectio divina.
– Dall’annuncio prende il via l’iniziazione cristiana, che ha il suo vertice nella celebrazione eucaristica. È un ambito cruciale, perché costituisce ancora il maggior punto di raccolta del popolo ecclesiale. Qui pure è necessaria una conversione missionaria. Da come si celebra una messa, si può capire se una parrocchia è in stato di missione o no, e se le Chiesa si svuotano, probabilmente è anche perché non si sa più celebrare. Penso alle prediche lunghe e indigeste, spesso avulse dalla parola proclamata, dove si dice quello che passa per la mente, accelerando meccanicamente la parte eucaristica. La liturgia è il luogo in cui si dovrebbe fare esperienza della bellezza del mistero divino.
Vi rientra la difesa della domenica, che sta diventando un giorno qualunque mentre l’ebraismo ci insegna cosa vuol dire costruire l’identità di un popolo sul giorno santo. Scrive la NP: «Dobbiamo “custodire” la domenica, e la domenica “custodirà” noi e le nostre parrocchie, orientandone il cammino, nutrendone la vita».
- c) Un terzo obiettivo è il territorio, che esaminiamo da due prospettive: sociale e diocesano. La parrocchia è una comunità che abita in un determinato luogo, deve quindi entrare in sintonia con esso, la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni, i suoi problemi sociali. Il vero soggetto del territorio è però la diocesi, cui spetta la definizione di Chiesa particolare. Per la NP, la conversione missionaria passa dalla valorizzazione dei legami con la diocesi. Il n. 11 afferma che «è finito il tempo della parrocchia autosufficiente». La pastorale missionaria si pratica a rete e ha il suo centro propulsore nella diocesi. Il vescovo è il primo pastore e il suo ministero richiede prossimità, vicinanza, altrimenti la diocesi si riduce agli uffici della curia.
- d) Quarto obiettivo è educare (educarsi) alla corresponsabilità. Si è visto l’altra sera come questo sia un aspetto fondamentale per costruire una Chiesa sinodale. Occorre uscire dal clerico-centrismo, soprattutto oggi che i preti invecchiano e il loro numero si sta riducendo drasticamente. «Solo con un laicato corresponsabile, – scrive la NP – la comunità può diventare effettivamente missionaria».
- e) Un ultimo obiettivo su cui puntare, ma sul quale la Nota non si sofferma, rivelando un deficit di comprensione tipicamente europeo su quest’aspetto, è la pietà popolare. È vero che essa pure ha bisogno di essere evangelizzata, tuttavia è anche vero che si tratta di una forza evangelizzatrice. Francesco lo sostiene con energia nell’EG, definendola “mistica popolare”. Non si può dimenticare che proprio la pietà popolare è stata uno dei principali anelli con cui si è trasmessa la fede e, ancora oggi, costituisce un vero serbatoio di pastorale missionaria.
È il momento di chiudere. L’altra sera ci ha accompagnato nel congedo l’icona dei discepoli di Emmaus, stasera vorrei proporre Lc 5,1-11, che definisco il racconto della barca che voleva stare ormeggiata. Dopo aver predicato il regno di Dio alle folle, Gesù vide due barche attraccate a riva, e disse a Simone: prendi il largo (duc in altum) e gettate le reti. La Chiesa non è fatta per restare alla banchina, ma per disancorarsi e andare lontano. I discepoli venivano già da una notte di duro lavoro, dove avevano raccolto reti vuote, allora Pietro dice: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Si fida di Gesù, e la speranza non è delusa. Le reti tirate con il sudore delle braccia ritornano cariche di pesca. È allora che il maestro dice: «Io vi farò pescatori di uomini». Grazie della pazienza.
Giovanni Tangorra
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