RELAZIONE – VIVERE IL MISTERO DELLA CHIESA: COMUNIONE E SINODALITÀ

CONVEGNO PASTORALE DIOCESANO

VIVERE IL MISTERO DELLA CHIESA:

COMUNIONE E SINODALITÀ

Aquino 14.06.19

Prof. Don Giovanni Tangorra

 

L’argomento che mi è stato proposto, e che ci vede riuniti in questo convegno diocesano, è la Chiesa. Parlare di essa, per un cristiano, è come riflettere su se stessi. Anche se, come scriveva Jacques Maritain, «il modo con cui il linguaggio corrente si serve della parola “Chiesa” spinge alla confusione». C’è chi, come i giornalisti, la identifica ancora con il papa, il clero, il Vaticano; o chi ne ha un’idea astratta, e poco coinvolgente, come quando si dice lo Stato. È perciò opportuno, qualche volta, lasciare, come amava dire Paolo VI, che sia «la Chiesa a parlare di se stessa».

Due sono le domande fondamentali che ci si deve porre se vogliamo conoscere qualcosa: che cos’è e a cosa serve. Nel caso della Chiesa si parla di identità e missione. Stasera rivolgeremo le attenzioni alla prima, lunedì alla seconda. È bene però precisare che nel suo caso i due aspetti sono indivisibili e s’influenzano reciprocamente, per cui si può affermare che la Chiesa è missionaria quando è realmente se stessa, ed è se stessa quando è realmente missionaria.

Come tutti i misteri della fede, inoltre, la Chiesa non è solo oggetto di conoscenza, ma di esperienza. Henri De Lubac diceva che della Chiesa si parla troppo, ciò che manca è viverla. Non basta allora studiarla, occorre starci dentro, crederci, amarla. Può così capitare che una pia vecchietta, che non ha mai seguito una lezione di ecclesiologia, sappia della Chiesa più di un teologo.

Poiché non possiamo esaurire l’ecclesiologia in una conferenza, sceglierò tre argomenti che hanno una natura costitutiva, cioè non possono mancare nella carta d’identità della Chiesa. Essi sono: la comunione, il popolo di Dio, e la sinodalità. Stanno insieme in un nesso che potremmo riassumere così: la Chiesa è il popolo generato dalla comunione divina, che vive in maniera sinodale.

Nella riflessione ci accompagnerà la dottrina del concilio Vaticano II. Svoltosi tra il 1962 e il 1965, questo concilio ha inteso tracciare le vie del rinnovamento, in un tempo che stava mutando radicalmente. «Uno straordinario evento», l’ha definito Benedetto XVI in un’udienza del 10 ottobre 2012, segnalandolo come «la bussola che permette alla nave della Chiesa di procedere in mare aperto». Il concilio ha promulgato sedici documenti, tra cui quattro costituzioni, che fanno da punti cardinali. Tra loro spicca la Lumen gentium (= LG), definita la magna charta dell’ecclesiologia conciliare.

Essa comprende otto capitoli. Il primo parla dell’essenza della Chiesa risalendo al mistero della comunione trinitaria; il secondo considera il soggetto storico di tale comunione che è il popolo di Dio; il terzo, il quarto e il sesto parlano delle compagini interne: chierici, laici, religiosi; il quinto propone la santità come obiettivo della vita ecclesiale; il settimo traccia il profilo pellegrinante del popolo verso il regno di Dio. L’ultimo capitolo è dedicato alla Beata Vergine, presentata come modello e tipo dell’essere e della missione della Chiesa. Nonostante il mondo di allora sia diverso da quello odierno, il materiale dà una solida base per crescere insieme come Chiesa.

  1. La comunione. Il primo capitolo di LG è intitolato “il mistero della Chiesa”. Nel linguaggio biblico, il mistero non è un enigma da decifrare, ma una realtà ripiena della presenza salvifica di Dio. La Chiesa, diceva Paolo VI, è «una realtà impregnata dalla presenza di Dio». Oggi stiamo smarrendo il senso del “mistero”, ci fermiamo alle cose come appaiono, mentre dovremmo saper andare oltre.

Lo scopo del capitolo è di esporre l’essenza spirituale della Chiesa, che si scopre con la fede. Per chiarirla ci parla delle sue origini, trovandole non in un’invenzione degli uomini, ma nel mistero della comunione trinitaria. La Chiesa è ex Trinitate. Infatti, diventiamo Chiesa dopo essere stati battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. È la sorgente che alimenta le regioni profonde della sua vita, come la falda acquifera per la corrente di un fiume.

I nn. 2-3-4 di LG disegnano un’icona trinitaria della Chiesa: essa discende dal disegno del Padre di salvare tutti gli uomini; è realizzata attraverso l’incarnazione del Figlio; si attualizza tramite il dono dello Spirito. L’esito è un’autocomprensione, resa con una bella citazione di san Cipriano: la Chiesa è il «popolo radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Ci chiedevamo: che cos’è la Chiesa? Questa è una risposta decisiva, che pone nel giusto ordine la verticale della comunione con Dio e l’orizzontale della comunione tra noi.

Per valutare questi sviluppi è utile ricordare che le precedenti ecclesiologie preferivano partire dagli elementi istituzionali, dando un’immagine fredda dell’identità ecclesiale. Il concilio non li nega, e il n. 8 spiega il loro ruolo, ma ha voluto accendere i riflettori su ciò che conta veramente, e cioè la comunione con Dio da cui proviene la comunione tra noi. È anche la ragione della missione della Chiesa, che, come scrive LG 1, è di essere nel mondo «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».

La via di accesso al mistero di comunione è Cristo. L’allora cardinal Ratzinger scriveva che tutto parte dall’incontro con Cristo. È lui a creare la comunione con il Padre nello Spirito Santo, da cui proviene la comunione tra gli uomini. Ciò fa di Cristo la legge di gravità della vita ecclesiale. Egli è la pietra angolare. Senza di lui la Chiesa sarebbe un pianeta spento, come dicevano i padri, paragonandola alla luna: Cristo è il sole, la Chiesa non splende di luce propria ma è il suo riflesso lunare.

Si avverte l’eco di quest’immagine nel titolo della costituzione: lumen gentium. Come si sa il titolo di un documento riproduce le prime due parole del testo. Giacché in questo caso la materia da trattare era la Chiesa, ci si sarebbe aspettato di trovarla a soggetto dell’espressione, e invece si dice: lumen gentium cum sit Christus, «Cristo è la luce delle genti». «Da lui siamo, per lui viviamo, verso di lui tendiamo», scrive il n. 3. La vita delle nostre comunità pone a volte di fronte a situazioni critiche. La ricerca delle soluzioni pastorali non dovrebbe mai dare per scontata la verifica su questa centralità di Cristo, sulla necessità di riscoprire Cristo.

La comunione divina ha una natura interiore, si vive nella testimonianza delle virtù teologali, cioè credendo, sperando amando. Tuttavia la Chiesa è fatta di uomini, occorrono perciò mezzi visibili per manifestarla e realizzarla. I principali sono la parola di Dio, i sacramenti e la carità. Spicca l’eucaristia, che non a caso la tradizione ha designato proprio con il termine “comunione”, influenzata da 1Cor 10,16-17: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo». Come si vede, anche questo testo intreccia la verticale e l’orizzontale. Lo diceva il grande Aquinate: la chiamiamo “comunione” perché essa ci unisce a Cristo e agli altri.

Un’ultima precisazione. La comunione ecclesiale prodotta dalla comunione divina non va vista solo a livello individuale o interpersonale, ma s’incarna in una Chiesa locale o particolare, che comunemente chiamiamo “diocesi”. Questa non è un accessorio nella costituzione della Chiesa. Ne derivano alcune conseguenze: che la diocesi è da ritenersi il primo soggetto della missione e che la Chiesa universale, una e indivisibile, esiste in una pluralità di Chiese (communio ecclesiarum). Tra i compiti della Chiesa locale rientra perciò la difesa della propria particolarità, che porta a immedesimarsi nella storia, nella cultura, nei problemi del luogo, così da condurre i cristiani del suo territorio a riconoscersi in essa.

Verifica. Nella Novo millennio Ineunte, Giovanni Paolo  II diceva che la Chiesa deve diventare «casa e scuola della comunione». Questa frase può costituire la base di un confronto progettuale, avendo presente ciò che abbiamo detto.

  1. Il popolo. Il secondo capitolo della LG s’intitola: il popolo di Dio. Se il concetto di comunione ci ha elevato alla trascendenza, quello di popolo ci immerge nella storia. Esso serve al concilio soprattutto per rispondere alla domanda: chi è la Chiesa? In altre parole: chi è il soggetto incaricato da Dio per vivere il mistero della comunione nella storia e portarla al mondo? È il popolo dei fedeli.

L’interesse per tale questione scaturisce dalla constatazione che l’identità ecclesiale aveva subìto proprio qui le sue maggiori riduzioni, a causa di una visione piramidale e clericale che aveva posto i laici nel ruolo di destinatari più che di protagonisti. Yves Congar scriveva che per molti secoli la Chiesa è stata pensata come un sistema, una struttura, e non come «il popolo dei battezzati o, secondo la formula nella quale si è giustamente riassunta tutta l’ecclesiologia dei padri, il “noi” dei cristiani».

  1. a) Introducendo l’idea del popolo di Dio, il concilio rilancia la dimensione comunitaria della Chiesa. Fil 1,7 chiama i cristiani synkoinonoi, cioè uomini comunitari. La vita ecclesiale ha una natura aggregante, stabilisce rapporti, ci si riconosce, ci si sente parte di un insieme. La Chiesa non è opera dei singoli, non ci si salva da soli, abbiamo bisogno di unirci ai fratelli. LG 9 vi vede un proposito divino, scrivendo: «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». La costruzione comunitaria della fede è una sfida da raccogliere, oggi che avanza l’idea di un cristianesimo fai da te.
  2. b) Un altro aspetto è il coinvolgimento della totalità. Se il popolo “siamo noi”, esso comprende «tanto i laici, quanto i religiosi e i chierici», dice LG 30. Possiamo aggiungere: donne, uomini, vecchi, bambini, intellettuali, disabili, eccetera. La Chiesa non è un club che seleziona i suoi membri, ma abbraccia la totalità dei battezzati. Non esiste quindi una divisione tra cristiani di serie A o di serie B, perché tra tutti i membri vige pari dignità nell’essere e nella missione. È ciò che papa Francesco ha chiamato rovesciamento della piramide. Un popolo è tuttavia anche una realtà organica: ci sono carismi, ci sono ministeri, ci sono pastori. Chi però diventa papa o vescovo o prete, non cessa di essere fratello e cristiano come gli altri. Lo diceva sant’Agostino: «Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano».
  3. c) Un terzo aspetto è di stabilire un rapporto più inclusivo con la storia. Un rischio del concetto di comunione è lo spiritualismo, di pensare alle “anime”, dimenticando i “corpi”. Il concetto di popolo, invece, fa mettere i piedi per terra; respira di carne e sangue, ci dice che la Chiesa non è abitata da angeli ma da uomini, e questi portano in essa il loro bagaglio esistenziale e culturale, le loro fragilità, i loro problemi sociali, familiari, economici. La vita ecclesiale non è zona franca, ma assume la vita concreta della gente, condivide il sudore, le angosce, il dolore e le gioie del mondo. LG 9, dice che la Chiesa è un “popolo messianico”, cioè “popolo di speranza”. Il suo impegno è la realizzazione delle promesse messianiche, che sono: il perdono, la giustizia, la pace, la vittoria sulla povertà, sul peccato, la morte.

Verifica. Al termine di questo secondo punto, propongo come verifica questa frase di Romano Guardini: «Non basta stare nella Chiesa, occorre essere la Chiesa».

  1. La sinodalità. Poiché in questa conferenza ho scelto di trattare aspetti costitutivi dell’identità ecclesiale, per cui, riepilogando, la Chiesa è il popolo che sorge dalla comunione trinitaria, si può dire la stessa cosa per questo terzo elemento della sinodalità? A prima vista la risposta è negativa, perché essa appartiene al fare più che all’essere, ed evoca un’esperienza temporanea: ad esempio i sinodi si aprono, si svolgono e si chiudono, mentre la comunione e il popolo sono realtà stabili.

Eppure è stato l’odierno vescovo di Roma, nel discorso tenuto in occasione della commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi, il 17 ottobre 2015, a dire espressamente che la sinodalità è una «dimensione costitutiva della Chiesa». Costitutivo vuol dire che è una parte essenziale dell’essere. Le parole sono importanti e occorre dare loro il giusto peso, traendone le conseguenze, ma per rispondere dobbiamo anche chiederci: che cos’è la sinodalità?

Per definirla di solito si ricorre all’etimologia della parola greca syn-odos, che letteralmente si traduce con: riunirsi, camminare insieme. Lo scopo della sinodalità è disegnare un modo permanente di essere Chiesa, partecipativa e corresponsabile. I suoi contrari sono l’isolamento e il clericalismo. Ad esempio, una parrocchia clericocentrica, che ruotasse intorno al parroco, senza diffondere la corresponsabilità non sarebbe certamente una parrocchia sinodale. Così intesa, la sinodalità è la regina delle riforme, il volto della Chiesa che verrà, e che siamo chiamati a costruire.

Il Vaticano II non la conosce ancora e non dà istruzioni a suo riguardo, tuttavia pone alcuni fondamenti: nella dottrina della collegialità, che stabilisce un equilibrio tra l’episcopato e il primato romano; quando parla del sensus fidei, o insiste sulla cooperazione tra pastori e fedeli; e quando suggerisce la creazione degli organismi sinodali, dal sinodo dei vescovi ai vari consigli pastorali. Per chi vuole approfondire, suggerisco il documento analitico della Commissione teologica internazionale, intitolato La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2 marzo 2018.  Mi limito a suggerire due processi di realizzazione: nella vita e nella prassi.

  1. a) Prima di essere una questione di potere o un metodo di lavoro, la sinodalità è uno stile di vita. Per stile intendo la conformità tra ciò che si è e ciò che si fa. Se, come abbiamo detto, siamo comunione e popolo, allora dobbiamo mettere in moto una serie di atteggiamenti coerenti, tipici di chi sceglie la compagnia: nella lode di Dio, nella condivisione del pane eucaristico, nel portare gli uni i pesi degli altri, nel rispettare i vari ritmi di crescita, nell’ascolto reciproco. È l’ideale, sapendo che la realtà è faticosa, permeata da conflitti di ogni genere, dal carattere alle diversità di vedute. Da questo punto di vista, la sinodalità è pure un’ascesi.
  2. b) La prassi sinodale implica invece l’idea di responsabilità condivisa. Il fondamento è ciò che scrive san Paolo: «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,7). Notare il fine: per il bene comune. Se ciascuno ha un dono dello Spirito, un carisma, tutti hanno diritto di parola, tutti possono intervenire nelle cose che riguardano la vita ecclesiale.

Questa caratteristica dovrebbe guidare l’esercizio del governo, regolando il processo decisionale. Papa Francesco insiste su questo punto, dicendo che la sinodalità parte dal basso. Nella Chiesa esiste un’autorità regolatrice, ma le sue decisioni devono passare attraverso un’azione sinergica, che dispone ad ascoltare e non solo a essere ascoltati. San Cipriano scriveva che nel suo ministero episcopale si era data la regola di prendere le decisioni solo dopo aver consultato gli altri.

Nella Chiesa antica si ricorreva alla sinodalità anche per questioni alte. In questo momento penso alle parrocchie, che stanno chiudendo per mancanza di preti, e mi chiedo: ma lì non c’è una comunità di cristiani? E com’è possibile che non riescano a organizzarsi, almeno per assicurare le attività minime della propria vita? Datevi da fare, dovremmo dire: cerchiamo insieme la soluzione del problema, noi siamo qui per sostenervi e non per sostituirvi. Un passaggio obbligatorio è la formazione, creare percorsi formativi all’animazione cristiana.

Il nodo critico della prassi riguarda gli strumenti sinodali, chiamati organismi di partecipazione e previsti dalla normativa canonica: il sinodo diocesano, il consiglio presbiterale, i consigli pastorali diocesani e parrocchiali, il consiglio per affari economici, la consulta delle aggregazioni laicali. Una loro caratteristica è favorire la partecipazione dei laici, per questo Giovanni Paolo II nella Christifideles laici invita a rilanciarli. La prassi sinodale comincia da qui. Ovunque la Chiesa si raduna, si cresce come Chiesa.

Sono però note anche le difficoltà di funzionamento di questi organismi, oscillante tra il democraticismo di chi vorrebbe mettere tutto ai voti, e il verticismo di decisioni prese prima di riunirsi. Imparare a confrontarsi non è semplice. Si dovrebbe anche uscire dal logorio di discussioni su “cose nostre”. L’Evangelii gaudium sostiene che «l’obiettivo di questi processi partecipativi non sarà principalmente l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti» (n. 31). Essi sono i laboratori del confronto e del discernimento. Fu Tommaso d’Aquino a scrivere che nel discernimento «l’uomo è aiutato dal consiglio degli altri».

Siamo alla conclusione. “Chiesa, conosci te stessa?”, ci siamo chiesti all’inizio. Potrebbe risponderci: “Sono la compagnia del Risorto”. È l’icona sinodale dei discepoli di Emmaus. Dopo la sconfitta della croce, essi camminano insieme ma all’indietro, finché non si avvicina il Risorto che spezza il pane e accende i loro cuori all’invocazione: «Resta con noi, Signore, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). Dopo aver vissuto il mistero dell’incontro, i due riprendono il cammino, ancora insieme, ma questa volta in avanti, per annunciare la speranza ai fratelli che avevano lasciato. La Chiesa serve a questo. Le sue strutture dovrebbero portare a rivivere esperienze del genere. Grazie per la pazienza.

Giovanni Tangorra

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