Omelia per la consacrazione della chiesa e dell’altare
Sant’Angelo in Teodice, parrocchia “S. Maria della Valle”
6 agosto 2017
Celebriamo in questa domenica della Trasfigurazione la consacrazione dell’altare e della chiesa quale tempio santo di Dio. Qui la comunità cristiana -tempio vivo del Signore costruito con pietre vive unite a Cristo- celebra i divini misteri. Ed è bello che questo solenne rito della consacrazione della chiesa e dell’altare si inserisca in maniera discreta, ma efficace, nel significato della trasfigurazione del Signore Gesù sul monte Tabor.
La trasfigurazione del Signore è trasfigurazione della sua umanità: non si tratta di una trasformazione della sua persona, Gesù non diventa un altro. Manifesta se stesso nella verità totale del suo essere. E’ trasfigurazione che non aggiunge nulla a ciò che Gesù in quanto Cristo, figlio di Dio. Il Padre lo dichiara con la voce della nube: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento” (Mt 17,5). Gesù lascia trasparire la sua divinità, quindi la sua identità divina, nel segno luminoso di una luce intensa . E’, pertanto un processo di rivelazione, un evento teofanico. Nelle molte manifestazioni divine narrate nella Bibbia l’elemento della luce è rivelazione dell’ineffabile e dell’indicibile. Il corpo dell’uomo di Nazareth non è impedimento ma condizione reale, tangibile, concreta, nella quale si manifesta il Figlio di Dio. Questo era importante per gli apostoli, non era necessario per Gesù. Anche oggi vuole confermare la Chiesa nella certezza che in Lui “abita corporalmente la pienezza della divinità” (Col 2,9). Questa luce divina, teofanica, è rivelatrice del mistero dell’Uomo-Dio, nascosto ma realmente presente. L’umanità del Signore, assunta dal grembo verginale di Maria, è “sacramento” della sua divinità. Nel corpo umano di Gesù, Dio rivela la sua presenza e la sua azione salvifica: Gesù può agire e parlare nella condizione di uomo e di figlio di Dio.
Miei cari amici, oggi la montagna sulla quale il Signore conduce anche noi, con Pietro Giacomo e Giovanni, è la celebrazione eucaristica domenicale. Di questo noi siamo testimoni oculari: ogni celebrazione liturgica è trasfigurazione del Mistero. Nel rito, le realtà umane sono assunte dalla potenza dello Spirito e trasformate in “sacramento” dell’amore di Cristo per la Chiesa: in particolare la parola, il pane e il vino, il dolore, l’assemblea, la nostra stessa vita. I sacri misteri rivelano la presenza di Dio. Ciò che viene trasformato dallo Spirito, trasfigura e rivela il mistero luminoso di Dio. Gli occhi della fede sono illuminati dall’intensità della luce divina che traspare dal “sacramento” delle trasformazioni: l’ineffabile mistero si rivela nelle azioni sacre. Le realtà umane consacrate dallo Spirito sprigionano l’intensa luce che rivela quanto realmente contengono e significano per la fede del popolo di Dio.
Nella liturgia della parola noi ascoltiamo parole umane, ma al termine della proclamazione noi dichiariamo “Parola di Dio” quanto abbiamo ascoltato. La parola umana è assunta da Dio, viene trasformata come “sacramento” della sua Parola che rivela la luce del Verbo. Anche il pane e il vino vengono presentati al Signore con le parole delle benedizione, spesso sovrastate dal canto: “Benedetto sei tu Signore Dio dell’universo dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane (questo vino) …li presentiamo a te perché diventino cibo e bevanda di salvezza”. Con le parole della consacrazione questi elementi naturali sono trasformati in “sacramento” del corpo e del sangue di Cristo, morto e risorto. La fede del credente si lascia folgorare dall’intensa luce della presenza del crocifisso Risorto.
Nel sacramento eucaristico Gesù perpetua il sacrificio della sua vita, trasformando sull’altare anche il dolore umano. La luce del Tabor getta luce sulla notte del Calvario. Il sacrificio di Cristo sulla croce trasfigura la sofferenza, la croce e la stessa morte: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio” (Eb 5,7). Gesù vive il dolore che non può evitare in atto di amore per mezzo del quale salva l’umanità. Il fallimento umano dell’abbandono sprigiona luce dell’amore più grande, quello di chi sa dare la vita per gli amici (cfr. Gv 15,13). D’ora in avanti il dolore umano può non essere più maledizione, ma grazia!, e il cristiano può finalmente dire con Gesù: “Padre, nelle tue mani consegno il mio dolore”.
Sulla montagna della celebrazione eucaristica la Chiesa in preghiera chiede che il Signore trasformi tutti con la potenza dello Spirito Santo “perché diventiamo un corpo solo e un solo spirito”. Intorno all’altare non siamo più persone disperse, ma credenti radunati e trasformati nel corpo mistico di Cristo; diventiamo Chiesa. A noi il compito di diffondere la luce della carità e della comunione, perché tutti vedano la presenza del Signore nella bellezza della nostra fraternità.
Infine, quando al termine della Messa siamo congedati dal tempio di Dio, noi siamo invitati a percorrere le strade della vita trasformati dall’amore della Croce, per brillare nel mondo con la forza trasfigurante dell’impegno sociale, nel segno concreto della giustizia, della solidarietà, della carità per i più poveri: “La carità di Cristo ci possiede…” (2Cor 5,14). La carità ci impegna nel mondo delle mille tragedie per riconoscere la sacralità della carne dei poveri. Nella Lettera con cui Papa Francesco ha istituito per il mese di novembre prossimo la Giornata mondiale dei poveri scrive: “Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli. Sempre attuali risuonano le parole del santo vescovo Crisostomo: Se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è nudo; non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità” (Omelia su Matteo 50, 3).
+ Gerardo Antonazzo