Costruire la casa di Dio
Omelia per la Dedicazione della Cattedrale
Inizio anno pastorale
Sora-Chiesa Cattedrale 9 ottobre 2018
Carissimi, la celebrazione odierna per l’inizio del nuovo anno pastorale ci istruisce abbondantemente in merito alla responsabilità e fatica nel costruire la “casa” di Dio (Chiesa e Famiglia). E questo per due ragioni: ci soccorre la ricorrenza della Dedicazione di questa Chiesa cattedrale, e ci provoca la grazia della Parola di Dio. La ricorrenza liturgica della Dedicazione ci dona la gioia spirituale di rigenerare la consapevolezza del nostro essere Chiesa una-santa-cattolica-apostolica. Le quattro proprietà sono interconnesse: non sono disposte in ordine semplicemente sequenziale ma in modo consequenziale. A riguardo, direi come l’unità del nostro essere Chiesa è condizione della santità della Chiesa, così la sua apostolicità è condizione della sua cattolicità.
La Chiesa realizza ed esprime la sua santità nella misura in cui si edifica nell’unità, e quindi nella communio. Unità e comunione, poi, sono i principi costituivi dello stile sinodale, stile performativo della Chiesa. Afferma il documento della Commissione Teologica Internazionale (“La sinodalità nella Chiesa”, 3 maggio 2018): «La sinodalità [nel contesto ecclesiologico della communio], indica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e realizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assemblea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice» (n. 6). In tal senso, è proprio vero quanto afferma s. Giovanni Crisostomo: “Chiesa e Sinodo sono sinonimi”, perché la Chiesa non è altro che il “camminare insieme” del Gregge di Dio.
Anche la cattolicità della Chiesa dipende dalla sua apostolicità, cioè dalla comunione con i successori degli Apostoli. E’ grazie alla sua apostolicità che ogni Chiesa particolare è “cattolica”, cioè in comunione universale con le altre Chiese sparse nel mondo. La Chiesa universale, infatti, è costituita da tutte le Chiese particolari in comunione apostolica tra di loro. Il custode dell’unità e dell’apostolicità di ogni Chiesa particolare è il Vescovo. E la Cattedra episcopale è il segno del ministero del Vescovo al servizio dell’edificazione della Chiesa particolare, anche quando il suo ministero si svolge in luoghi diversi dalla chiesa cattedrale. Così, la Cattedra da centro diventa prossimità, sapendo bene che i luoghi della prossimità sono sia le parrocchie, ma anche gli ambienti di vita. Mentre da un lato la Chiesa cattedrale esprime la centralità dell’azione pastorale del Vescovo, dall’altro deve promuovere, quale centro propulsore, la prossimità del Vescovo verso tutti i fratelli e sorelle. Per questo oggi si parla piuttosto di “Cattedrale diffusa”, nel senso di saper percepire che l’azione apostolica del Vescovo, ovunque lui sia presente, esprime e promuove l’unità della Chiesa diocesana. La Cattedrale diffusa recupera, come concetto e come simbolo, il senso dell’unità della Chiesa locale, ed esprime allo stesso tempo un affratellamento più ampio e comprensivo, ritrovando quell’ “andare verso” che dal centro si diffonde a quel che sta attorno, e dal vicino guarda al lontano. A livello segnico, oggi è ormai necessario rafforzare il cordone ombelicale che collega il centro delle diocesi con le sue realtà periferiche. Pertanto, abbiamo sempre bisogno di guardare alla cattedra episcopale non in modo statico e museale ma dinamico, per interpretare e comprendere il significato del ministero episcopale anche quando il Vescovo è altrove e la sua azione abbraccia la periferia, e si estende “in fines terrae” con l’intento di tenere in unità tutti i confini e le periferie umane della chiesa locale. L’affermazione di s. Ignazio di Antiochia secondo il quale “Ubi episcopus ibi ecclesia” è palesemente significativa, perché dichiara che nella persona del Vescovo, lì dove si trova d agire, è spiritualmente presente grazie a lui tutta la Chiesa diocesana (ibi ecclesia). Da questa prospettiva si comprende meglio l’altra espressione di s. Ignazio: “Nulla senza il Vescovo”, dove il “senza” non significa la necessità della sua presenza fisica, ma nulla è possibile “senza” la comunione con lui.
Carissimi, anche la liturgia della Parola ci educa e ci prepara alla costruzione della “casa di Dio”. Il Salmo ci affida la responsabilità del nostro essere costruttori di questa “casa”, metafora sia della Chiesa che della famiglia. Ma non possiamo illuderci di riuscire a edificare senza il Signore. Cosa significa nel concreto? Ripartiamo dal vangelo. Gesù ancora una volta trova ospitalità nella casa di Betania, presso gli amici di sempre (Marta, Maria, Lazzaro). Mentre inizialmente Marta è la prima che accorre per accogliere Gesù, subito dopo il vangelo la descrive in conflitto, innescato dalla scelta di Maria di sedersi ai piedi di Gesù per ascoltare il suo insegnamento (v. 39), cosa che raccomanda, del resto, una sentenza rabbinica: «La tua casa sia una casa di riunione per i saggi, aggràppati alla polvere dei loro piedi e bevi le loro parole nella sete» (Pircie Avot 1,4). E allora perché Marta grida allo scandalo? Non sempre si considera che lo scandalo deriva dal fatto che si tratta di una donna. Un rabbi non ammette mai la presenza di una donna nella cerchia dei suoi discepoli. “Insegnare la Legge alla propria figlia è come insegnarle la dissolutezza” (Sota 3,4). La scena riflette la libertà di Gesù, che accetta donne nella cerchia delle persone a lui più vicine (8,1-3) e permette anche a loro di accedere al sapere su Dio, considerato privilegio dei maschi (Focant-Marguerat). Gesù non punisce Marta, ma prende le difese di Maria.
Inoltre, a partire da questa accesa discussione noi apprendiamo ancora di più. Il racconto ci consegna tre parole chiavi per edificare la “casa di Dio”: accoglienza, ascolto, e servizio. Primo verbo: accogliere la presenza del Signore. Mettere Dio al centro! Dio uno di casa, la sua deve poter divenire una presenza davvero familiare. Dare ospitalità a Dio significa aprirgli la porta, appena arriva e bussa: “Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). Il secondo verbo è ascoltare la parola del Signore, non ponendosi mai al di sopra, ma ai suoi piedi. Il Papa stamattina commentava a tal proposito: “Fermati, guarda il Signore, prendi il Vangelo, ascolta la parola del Signore, apri il tuo cuore”. L’ascolto del Signore cambia la nostra vita, converte persino la nostra idea di religiosità: lo dimostra san Paolo facendo riferimento al suo incontro con il Signore risorto sulla via di Damasco. Nulla di scenografico; ma semplicemente: “…quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo…”. Ascoltare significa vivere da innamorati del Signore, perché la capacità di ascoltare è la prova più bella dell’amore verso l’altro. Quanto più ascoltiamo la Parola in famiglia, tanto più cresce l’amore per il Signore. “Nelle parole di Gesù, dunque, noi riceviamo una vita: non possiamo, dunque, ripeterle senza vivere di quella Parola, né possiamo annunciarla se non coinvolgendo in quella Parola la nostra vita” (M. Semeraro). Il terzo verbo per costruire la casa è servire. Gesù non boccia la generosità di Marta. Purifica la sua sollecitudine dal rischio della distrazione: il testo sottolinea che Marta era “distolta” dai molti servizi. Distolta, cioè distratta da chi? Dal Signore! A motivo del nostro da fare possiamo correre due rischi: non avere mai tempo per Dio, perdere Dio di vista mentre ci impegniamo a fare molte cose e iniziative per gli altri. Questa è mondanità spirituale, trattare le cose di Dio senza di Lui! Il nostro da fare, i nostri progetti, le opere di apostolato, la carità verso gli altri non devono distrarci dal Signore. Affannarci per gli altri e servire il Signore da “indaffarati”, significa amare e darci da fare nel nome e per amore di Cristo.
+ Gerardo Antonazzo