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AMORE CHE SI CONSEGNA
Omelia per l’XI Congresso tomista internazionale
Aquino-Chiesa della Madonna della Libera, 24 settembre 2022

 

Cari presbiteri. padri Domenicani, studiosi, docenti, ricercatori, studenti, autorità accademiche, sindaci, sorelle e fratelli tutti,

sono particolarmente felice di accogliere i partecipanti all’XI Congresso tomistico internazionale, oggi in pellegrinaggio ad Aquino e a Roccasecca, due amate Città ad alta “vocazione tomista” perché chiamate a custodire con particolare impegno culturale e profonda cura spirituale la memoria di san Tommaso, il Dottore Angelico. Ringrazio in modo speciale p. Serge-Thomas Bonino, Presidente della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino, conoscitore acuto della produzione letteraria di san Tommaso e sostenitore convinto della divulgazione del pensiero tomista. Il Papa nell’Udienza a voi riservata (22 settembre 2022) ha parlato a braccio: “Prima di parlare di San Tommaso, prima di parlare del tomismo, prima di insegnare, bisogna contemplare: contemplare il maestro, capire oltre il pensiero intellettuale cosa ha vissuto il maestro e cosa ha voluto dirci il maestro”. Contemplando ciò che il Dottore Angelico ha insegnato da maestro illuminato, impariamo non solo a contemplare la verità, ma a trasmetterla: “E’ più bello trasmettere agli altri ciò che si è contemplato che contemplare solo” (Summa Theologiae II-II, q. 188, a. 6: Sicut enim maius est illuminare quam lucere solum, ita maius est contemplata aliis tradere quam solum contemplari).

Consegnato nelle mani degli uomini

San Tommaso, recuperando la nozione dell’Essere parmenideo, scrive “Deus non est in genere substantiae” (De potentia, q. 7, a. 3, ad 4). Per san Tommaso Dio non è riconducibile al solo essere e sostanza; piuttosto, bisogna parlare di un Dio-Amore. Per cui l’actus essendi in Dio va incluso nell’actus amandi del Vangelo. Ci guidi l’ispirazione dell’Aquinate nella meditazione della Parola di Dio secondo il testo odierno di san Luca (Lc 9,43-45). La pericope presenta inizialmente un clima di entusiasmo, un vociare di stupore diffuso: “Tutti erano ammirati di tutte le cose che faceva”. L’evangelista insiste sul coinvolgimento di tutti … per tutte le cose che Gesù compiva. Il clima è favorevole al successo conclamato. L’aria che si respira sembra molto buona, il vento a poppa, la direzione quella giusta, si vive una situazione in cui si gode di un momento particolarmente felice e favorevole. Immediatamente prima, infatti, san Luca racconta della guarigione di un ragazzo, liberato da Gesù dal tormento di uno spirito immondo. La gente lo esalta, tutti gridano al miracolo con stupore e grande meraviglia. La folla accerchia Gesù, lo ascolta e lo segue volentieri. Anche gli apostoli hanno davanti agli occhi l’evidente potenza di Gesù. Ma inaspettatamente Gesù ammonisce: “Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini” (Lc 9,44). S. Tommaso così nella Catena Aurea commenta le parole di Lc 9,43b: “Non enim signa salvant sed crux beneficia prestat” (i segni non salvano, ma la croce conferisce benefici). Gesù cerca di predisporre i suoi discepoli all’evento drammatico della consegna di sé nelle mani degli uomini, Giuda in primis. Le sue parole rivelano in particolare la piena coscienza che Gesù ha di sé, la sua libertà interiore, e la sua obbedienza filiale.

L’autocoscienza di Gesù

Gesù passa dalle sue azioni alla sua passione, dalle cose che fa a quelle che subirà. Ancora una volta si tratta dell’esorcismo fondamentale e definitivo: dalla potenza alla debolezza, dal dominio al servizio, dalla signoria alla sottomissione. La sua affermazione enigmatica sottolinea in modo esplicito la coscienza che Gesù ha della sua missione. Questa profezia è più prossima rispetto alla predizione precedente. La prima volta è stata preannunciata in prospettiva, quindi al futuro (Lc 9,22ss); adesso, invece, la consegna del Figlio dell’uomo è imminente, e si riferisce senza alcun dubbio a qualcosa di drammatico. Gesù è consapevole di non essere più padrone di se stesso, sa e dichiara che altri disporranno di lui. Così recita il quarto vangelo: “Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine … Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava…” (cf. Gv 13, 1-4). S. Tommaso commenta ancora: “S. Paolo dice in Rm 8,32 che Dio padre pro nobis omnium tradidit eum; mentre Giuda lo consegna per avidità di denaro, il Padre consegna Gesù per una buona causa”. La totale, libera e consapevole consegna di sé segna il termine conclusivo della vita terrena di Gesù, ma è soprattutto il culmine di una chiara e inequivocabile dimostrazione della sua auto-donazione come supremo atto d’amore per gli uomini.

Libertà interiore

Da qui, la sua libertà interiore nell’atto di rimettere la propria vita nelle decisioni dei suoi avversari. Pienamente libero di soffrire, pienamente libero di amare: “Noi consideriamo follia il mettersi nelle mani di chiunque, lasciandogli con fiducia di fare ciò che vorrà, in bene e in male. Gesù, però, si presenta buono, disponibile, misericordioso; per condividere la nostra situazione, giunge a consegnarsi nelle mani degli uomini, sapendo di correre il grave rischio che ne possano abusare” (C.M. Martini). Gesù non si tira indietro. Sa di non trovarsi come dinanzi ad un cieco destino al quale lui deve sottostare. Non è in preda a qualcosa di irrazionale, per quanto possa presentarsi come umanamente irragionevole. E’ pienamente libero, nel pieno possesso di sé, delle proprie facoltà mentali, morali e spirituali. E’ una persona che “si possiede”, si tiene in mano. E’ propriamente sua ogni decisione, perciò libera e consapevole. Nulla muove Gesù nelle sue scelte se non l’esercizio pieno della sua libertà interiore. E’ proprio nella sua passione e morte che spicca, come in nessun altro momento, il peso (kabod, gloria, in ebr.) decisivo della sua soggettività. “Si potrebbe dire che soltanto qui avviene l’incarnazione nel senso pieno del termine. Che Dio abiti un corpo umano non è ancora incarnazione: deve abitare una soggettività umana, deve farsi quella soggettività in azione” (A. Rizzi). Noi, come i discepoli, non riusciamo a comprendere facilmente né a condividere la libertà interiore con la quale Cristo sceglie di consegnarsi: “Restavano per loro così misteriose che non ne coglievano il senso, e avevano timore di interrogarlo su questo argomento”. Commenta san Tommaso: “L’incomprensione dei discepoli non era motivata da lentezza ma da (mancanza) di amore”. La violenza perpetrata viene trasvalutata dalla libertà di chi ne è vittima, grazie alla motivazione trainante dell’amore. I discepoli non sono in grado di capire il piano di Dio, sono ancora ciechi. Anzi, subito dopo le parole di Gesù sono colti dal maestro in una diatriba assurda, come se il Maestro non avesse preannunciato il suo destino di umiliazione: “Nacque una discussione tra loro, chi di loro fosse più grande” (Lc 9,46).

Obbedienza al Padre

La consegna che Gesù fa di sé nelle mani degli uomini è rivelazione luminosa della sua filiazione divina. La sua obbedienza al Padre si può giustificare e comprendere nella prospettiva di totale amore filiale. Una tale obbedienza è esercitata come piena condivisione e accettazione: “Ecco, io vengo … per fare, o Dio, la tua volontà” (cf. Eb 10,5-7). Gesù obbedisce da “figlio” e non da sottomesso, da servo e non come uno schiavo, portatore di una missione e non inibito dalla volontà di un padrone. Si dichiara “servo” in quanto investito di una missione da svolgere. “Il suo ‘consegnarsi’, sta tra due necessità: tra il negativo del suo essere consegnato alla morte dai nemici e il positivo del suo essere alla presenza del Padre; e soltanto questa presenza dà senso – il senso evangelico, cristologico – all’assunzione della morte. Accanto alla libertà in cui s’incarna l’amore divino, la libertà che obbedisce al divino volere. Un’analisi del vangelo di Giovanni mostrerebbe che questa seconda è la ragione della prima: che la mistica giovannea dell’unione tra il Padre e il Figlio è mistica dell’obbedienza del Figlio al Padre. Senza arrivare a questa elaborazione, i sinottici mettono in opera una serie di accorgimenti narrativi per dire che Gesù vuole liberamente la propria morte, e la vuole in obbedienza a Dio” (A. Rizzi). Con la sua obbedienza filiale, Gesù dimostra che “Dio non è soltanto il Dio sublime e lontano dal mondo sopra di noi (come tendenzialmente nell’Islam), e non ha disdegnato di venirci incontro nell’uomo Gesù, che con il suo auto-abbassamento non disdegna di amare gli uomini nelle cui mani si consegna (cf. K. Berger, Gesù, p. 75). Il suo è un amore di totale consegna di sé in obbedienza al mandato salvifico del Padre: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). A tale proposito, san Tommaso commentando la Lettera ai Galati annota: “S. Paolo si gloria soltanto in Gesù Cristo e, innanzi tutto, nella croce di Cristo. In essa infatti sono riuniti tutti i possibili motivi di gloria. Ci sono persone che considerano motivo di gloria l’amicizia dei grandi e dei potenti; Paolo ha bisogno soltanto della croce di Cristo, per scoprirvi il segno più evidente dell’amicizia di Dio” (Commento sulla Lettera ai Galati 6,14).

Cari amici,

senza la profonda contemplazione dell’amore di Cristo nel compimento del suo sacrificio e senza il gusto spirituale della sua filiale obbedienza, per la nostra condizione umana resterebbe solo il pessimismo del non-senso e l’insignificanza dell’assurdo, nei termini in cui lo declina il testo sapienziale: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, tutto è vanità”.

                                                                                                          + Gerardo Antonazzo

 

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