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Benedetto: monaco “fatto-Chiesa” per evangelizzare il mondo – Omelia tenuta dal Card. Giuseppe Petrocchi in occasione del transito di s. Benedetto (Abbazia di Montecassino – Concattedrale di Cassino, 21 marzo 2025)

BENEDETTO: MONACO “FATTO-CHIESA”,
PER EVANGELIZZARE IL MONDO

Omelia tenuta dal Card. Giuseppe Petrocchi,
in occasione del transito di s. Benedetto
Abbazia di Montecassino – Concattedrale di Cassino

21 marzo 2025

I Santi sono Parola vissuta. Per questo la Parola di Dio spiega la vita dei Santi, e la vita dei Santi costituisce un catechesi viva sulla Parola: la illustra con sapienza attraente e la trasmette con una testimonianza efficace.

La storia dei Santi non conosce l’usura del tempo, poiché è animata dallo Spirito Santo che vi imprime il sigillo dell’eternità: pertanto la loro “lezione” di vita gode di una perenne contemporaneità. I loro insegnamenti e le loro esperienza vanno coniugate non al passato ma al presente, perché ciò che il Signore ha compiuto e manifestato “in” loro ieri, resta valido anche oggi.

I Santi sono “figure-ponte”: infatti, ci trasmettono, con le parole e con le opere, l’esperienza di Dio che hanno fatto e, attraverso la narrazione della loro vicenda evangelica e umana, ci consentono di risalire al Signore, così come loro Lo hanno incontrato e accolto. Attestano con fedeltà il “sì” detto “a” Dio e il “sì” detto “da” Dio.

  1. Benedetto rappresenta un “ponte” di straordinaria ampiezza e solidità: davvero un “monumento” alla santità, eretto per sempre.

Va sottolineato che il “ponte della santità” non è fatto solo per essere ammirato, ma per essere transitato, nelle due direzioni di marcia: si percorre per arrivare alla comunione con Dio, su cui immette, e per ritornare alla situazione esistenziale da cui si è partiti, per illuminarla e trasformarla con la grazia che si è trovata. Ecco perché l’autentica venerazione verso Santi poggia non solo sul ricorso alla loro intercessione, ma deve far leva sulla volontà di contemplarli e imitarli.

In questa prospettiva si intuisce perché il “Monastero”, di cui san Benedetto è Padre e Modello, possa essere definito un “cantiere di santità”, in cui progressivamente si edifica e si annuncia una «vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (EG, n. 259).

Questo itinerario di perfezione esige che il Monaco debba ricorrere – ogni giorno meglio e di più – a un radicale impegno di “conversione”. Il suo primo campo di lavoro consiste nell’operare su se stesso, per demolire progressivamente i difetti e irrobustire le virtù: cristiane e esistenziali.

Il tempo in cui praticare questa entusiasmante e faticosa “impresa” è il “momento presente”. Era questa la norma fondamentale che scandiva il percorso spirituale ed etico dei “Padri del deserto”: tale imperativo veniva così riassunto e proclamato: «C’è una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: “oggi” convertiti»1. Un anacoreta, interrogato su come conducesse i suoi giorni, rispose: «Da quando ho rinunziato alla terra ho detto a me stesso: tu sei nato “oggi”; “oggi” hai cominciato a servire Dio, “oggi” hai cominciato a vivere qui come ospite. Sii così ogni giorno, come uno straniero che domani deve partire. Questo io consiglio a me stesso ogni giorno»2.

La garanzia di una integrale “ascesa”, sul Sinai della Parola, è una “ascesi” vigorosa e perseverante: tesa a estromettere da se stessi l’ “uomo vecchio”, segnato dal male, per crescere nell’ “uomo nuovo”, configurato al Signore, crocifisso e risorto (cfr. Ef 4,20-24). Il mondo interiore e relazionale del Monaco ha come centro di gravitazione la Parola: ascoltata, praticata e annunciata.

Il brano biblico preso da Libro dei Proverbi (2,1-9), trasmette una promessa sulla quale il credente è chiamato a investire per intero se stesso: «Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole e custodirai in te i miei precetti, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio, perché il Signore dà la sapienza, dalla sua bocca escono scienza e prudenza» (Pr 2, 1.5-6).

Il dono che lo Spirito Santo concede, a quanti cercano di mettere la Parola al centro della loro vita, è la Sapienza, caratterizzata dalla partecipazione al modo in cui Dio stesso vede noi, il mondo e gli altri. Il Sapiente, in senso biblico, guarda – per grazia ricevuta – la realtà (dentro e fuori di sé) con gli occhi di Dio. Ecco perché può sempre contare sulla assistenza prov dell’Altissimo ( «Egli riserva ai giusti il successo, è scudo a coloro che agiscono con rettitudine, vegliando sui sentieri della giustizia e proteggendo le vie dei suoi fedeli» – Pr 2,7-8), qualunque cosa accada.

E la Sapienza genera la Saggezza, che è l’attitudine umana a comprendere «l’equità e la giustizia e tutte le vie del bene» (Pr 2,9). Il saggio utilizza correttamente la ragione e il cuore per apprendere, gradualmente, l’ “arte di vivere degnamente”, secondo la verità animata dall’amore, senza perdersi nei labirinti oscuri di un mondo edonistico e secolarizzato.

Una “icona” di Sapienza evangelica pienamente accordata con i valori morali e ontologici della saggezza umana è la Regola, che esprime il “genio” carismatico di san Benedetto. Vi compare un pensiero compatto e sequenziale, logicamente ordinato, rigoroso nelle motivazioni fondative e nelle finalità, saldamente sistematico ed equilibrato, dove il particolare è sempre connesso con l’orizzonte universale.

San Benedetto è un eccellente maestro ma è anche un diligente discepolo: ha imparato dalla meditazione assidua dei testi biblici e dalla contemplazione mistica; si è ispirato alle tradizioni eremitiche e cenobitiche delle Chiese del medio-oriente; ha ricavato preziosi ammonimenti e traiettorie evangeliche dalle molteplici esperienze che ha vissuto.

La Regola, destinata a disciplinare e orientare la vita personale e comunitaria dei Monaci benedettini, ha avuto una influenza immensa nella Chiesa, sotto il profilo giuridico e aggregativo come in quello esistenziale, poiché è stata adottata o presa a modello da innumerevoli Ordini e Congregazioni religiose. In essa viene tracciata una via sicura, riconosciuta dalla Chiesa, che conduce ai vertici della perfezione cristiana ed umana.

Proprio la Sapienza, e la sua figlia prediletta, la Saggezza, spingono ad impostare la vita di Comunità (di ogni Comunità: famigliare, civile, diocesana, claustrale), assegnando la precedenza alle appassionate esortazioni che abbiamo ascoltato dall’apostolo Paolo: «Fratelli, scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei riguardi di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi» (Col 3, 12-13).

In sintonia con queste raccomandazioni, vorrei proporre una breve riflessione sul tema del perdono, che rappresenta l’architrave portante nella architettura della carità comunionale, disegnata da s. Paolo nel brano citato.

L’esperienza del perdono si articola in quattro “passaggi”, tra loro strettamente interconnessi: ogni “polarità” richiama ed esige le altre. Come nei “vasi comunicanti”, la crescita o l’abbassamento di livello in un ambito, comporta, proporzionalmente, l’aumento o la diminuzione del volume anche negli altri.

Le quattro coniugazioni del verbo perdonare sono:

Lasciarsi perdonare da Dio: riconoscendo umilmente le nostre fragilità, nella certezza che la grazia del Signore sana dal male che ci abita e ci rende capaci di maturare nella Vita vera;

Perdonarsi: sapendo trattare noi stessi con la stessa misericordia che ci è stata elargita dal Signore attraverso la Chiesa. Occorre l’onestà di ammettere, senza atteggiamenti riduttivi o irritati, le nostre povertà, evitando dannose autoindulgenze o sterili auto-deplorazioni. Va perciò mobilitata la nostra personalità, allertando le sue buone attitudini, affinché, sostenuta dalla grazia, sia sempre protesa a “riscattarsi” dai condizionamenti del peccato e decisa a potenziare la tensione verso la santità.

Perdonare: che non vuol dire lasciar perdere o – peggio – indietreggiare davanti alla arroganza. Il perdono è una espressione alta e coraggiosa della carità e si manifesta nel tenace impegno a vincere il male con il bene, nell’intento di ristabilire l’armonia interpersonale che è stata violata da egoismi graffianti e divisivi.

– Chiedere perdono: scelta che, spesso, ci rimane molto difficile da praticare, perché temiamo di esporci a possibili “rappresaglie” degli altri: di qui le strategie di evitamento, con il rimando a tempo indefinito come pure con il ricorso a interpretazioni degli eventi che sostanzialmente ci scagionano; la formula ricorrente è: “ho sbagliato, ma non avrei agito così se l’altro non mi avesse indotto a farlo”. Con questo stratagemma la responsabilità viene ribaltata sul prossimo: manca il “mea culpa” e la “ferita” relazionale, non sanata, rischia nel tempo di infettarsi e di generare “scompensi” affettivi e comportamentali.

L’Apostolo delle Genti completa il suo pensiero affermando: «sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori. E rendete grazie!» (Col 3, 14-15).

La pace, accesa nel cuore dallo Spirito Santo, non si identifica con la semplice assenza di problemi (la pace “senza” problemi è occasionale e intermittente) ma rivela la sua origine “pasquale” perché è stabile e permanente: non tramonta, qualunque cosa accada. Questa pace – che non il mondo non sa dare – viene solo dal Signore (cfr. Gv 14,27) e permane “nonostante” i problemi, anzi, si consolida “grazie” ai problemi, se vengono trasformati in Amore crocifisso-risorto.

Il testo della Lettera ai Colossesi spalanca ulteriori orizzonti sull’unità fraterna, animata dallo Spirito del Signore: «La parola di Cristo abiti tra voi nella sua ricchezza. Con ogni sapienza istruitevi e ammonitevi a vicenda con salmi, inni e canti ispirati, con gratitudine, cantando a Dio nei vostri cuori. E qualunque cosa facciate, in parole e in opere, tutto avvenga nel nome del Signore Gesù, rendendo grazie per mezzo di lui a Dio Padre» (Col 3, 16-17).

L’ascolto condiviso della Parola si traduce in correzione reciproca e consiglio fraterno, congiunti all’incoraggiamento e al sostegno vicendevole nell’avanzare sulle vie (talvolta impervie) della coerenza evangelica: fino alla pienezza voluta da Dio.

Va ribadito l’asserto teologico e antropologico che non ci si fa santi da soli; ma si diventa santi “insieme”: la santità è una avventura straordinaria da gestire non al “singolare” (come “io” individualistico), ma al “plurale”: come “Noi-Chiesa”.

Le Beatitudini, proclamate da Gesù, brillano come stelle splendide nel Cielo della Rivelazione biblica.

Occorre fare una attenta sosta meditativa su ogni espressione di questa pagina evangelica, sapendo che i verbi, che ne cadenzano il ritmo espressivo, vanno interpretati non solo come mirati ad un “futuro ultimo”, ma come riferiti anche al “presente”. In altri termini, queste solenni promesse si realizzeranno non solo in un tempo compiuto e finale, ma si attuano “già da adesso”, anche se “non ancora” nella forma perfetta, ma in configurazioni “provvisorie” e con modalità incomplete. Infatti il Regno di Dio è già stato avviato ma esso attende di giungere alla pienezza escatologica.

Affido alla vostra fedele sollecitudine la riflessione “personalizzata” sulla “buona notizia” che l’Evangelista Matteo ci ha trasmesso in questa Liturgia della Parola.

Alla luce del Discorso della Montagna, risultano ardite e avvincenti le massime enunciate da un Padre del Deserto (Nilo Asceta), destinate ai Consacrati nella Comunità contemplativa:

«Beato il monaco che, dopo Dio, considera tutti gli uomini come Dio.

«Beato il monaco che riguarda come cosa propria, con piena gioia, la salvezza e il progresso di tutti»

«Beato il monaco che si considera rifiuto di tutti»

«Monaco è colui che, separato da tutti, è unito a tutti».

«Monaco è colui che si considera uno con tutti perché continuamente gli sembra di vedere se stesso in ciascuno»3.

In tale prospettiva, il Monastero si pone come Casa e Scuola di Santità.

Di conseguenza ogni Monastero è chiamato ad offrire la testimonianza di “esemplarità”, cioè ha il compito di rendere “visibile” e “fruibile” – a tutti gli uomini di buona volontà – una vita personale e comunitaria “trasfigurata” dalla Parola.

Poiché il bene è diffusivo, la vita contemplativa non rimane ripiegata su se stessa, ma irradia su tutta la Chiesa e sul mondo un coinvolgente dinamismo di grazia e attiva uno slancio evangelizzante a raggio planetario. Infatti, «come espressione di puro amore che vale più di ogni opera, la vita contemplativa sviluppa una straordinaria efficacia apostolica e missionaria» (Vita Consecrata, n.59).

Inoltre questa testimonianza, data nel Signore, provoca cambiamenti sociali incisivi e migliorativi a carattere globale. Il Concilio Vaticano II afferma che “tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità e tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano” (LG 40).

La creatività propria della vita di comunione esprime anche una forza trasformante e innovativa in campo culturale, elaborando e trasmettendo un “umanesimo integrale”, aperto a Dio, e – proprio per questo – costruttore della civiltà dell’amore, della pace e della fraternità universale.

La storia secolare dell’Ordine benedettino costituisce una prova imponente della validità di questi asserti e attesta a voce alta, di fronte al mondo, la provvidenziale generatività ecclesiale, culturale e sociale del carisma di s. Benedetto. In lui e nella sua opera si manifestano le meraviglie compiute dallo Spirito in coloro che – sull’esempio di Maria – sono un “sì” totale alla volontà di Dio. Con il suo motto “ora et labora” e nell’imperativo di «non anteporre nulla all’amore di Cristo» (RB 4,21) ha contribuito ad edificare la “Città di Dio” e a dilatare l’autentica “Città dell’uomo”.

Alla scuola di Maria – sempre perfettamente allineata con la Sapienza del Signore e con i Suoi interventi – anche noi dovremmo gradualmente diventare maestri nel pensare e nell’agire in “sincronia” con l’azione dello Spirito,

L’umile Ancella del Signore, che tutti precede sulla via della santità, vi aiuti, carissimi Monaci, ad essere un’eco viva del suo “Amen”: sia Lei a benedire e custodire la vostra testimonianza-consacrata, perché diventi sempre di più – nella Chiesa e nel mondo – sorgente di unità, lievito di solidarietà, annuncio credibile e attraente del mondo che verrà. Così sia!

Giuseppe Card. Petrocchi

 

1Vita e detti dei Padri del deserto”, II, 223. 10, Roma 1975.
2 “Vita e detti dei Padri del deserto”, II, 282, Roma 1975.
3 La Filocalia, vol. 1, Gribaudi 1982, Nilo Asceta, p. 286; nn. 121-123)

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