CRISTO, ORIGINE E COMPIMENTO
Omelia per la Messa Crismale
Cassino-Chiesa Concattedrale, 27 marzo 2024
Cari fratelli nel presbiterato,
diaconi e seminaristi, consacrate e consacrati,
ragazzi e giovani, ammalati e volontari,
sorelle e fratelli laici,
partecipi tutti del sacerdozio battesimale, siamo chiamati oggi a condividere fraternamente la gioia di celebrare Cristo, Sommo ed eterno sacerdote, l’Unto di Dio, il Consacrato dallo Spirito, l’Inviato del Padre, il Messia mandato a proclamare l’anno di grazia del Signore: “Oggi si è compiuta questa Scrittura” (πεπλήρωται, realizzare). Mentre nella sinagoga di Nazareth il Messia interpreta le antiche Scritture decentriamoci da ogni altra attenzione o distrazione, perché siano gli occhi di tutti fissi su di Lui, Cristo. Le parole di Gesù stillano collirio sullo sguardo del cuore e rischiarano il desiderio di contemplare il suo Volto, e di radicare nel suo sguardo d’amore la nostra esistenza. In questa direzione va anche il monito dell’autore di una straordinaria meditazione sul sacerdozio di Cristo: “Avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine (ἀρχηγὸν-fondamento) alla fede e la porta a compimento (τελειωτὴν-a buon fine)” (Ebr 12, 1-2).
Origine e compimento
Cari amici, solo Cristo è origine (ἀρχηγὸν) della fede e di ogni vocazione, per formare in Lui e grazie a Lui un “popolo regale, nazione santa, popolo di sua conquista” (1Pt 2,9). Da qui, la domanda: siamo davvero incamminati verso il compimento, la maturità e la pienezza, della nostra specifica vocazione? Il fine ultimo del cammino è misurarsi con “l’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,13). In questo processo di perfezionamento della nostra vocazione dobbiamo restare resilienti contro il “peccato che ci assedia” (cfr. Lettera agli Ebrei) e tende a distogliere il nostro cammino dalla finalità ultima, cioè la “misura della pienezza di Cristo”. Al tal fine, suggerisco alcuni passi da compiere per non deviare dal cammino di perfezionamento in Cristo della nostra esistenza:
- Fare costante memoria delle ragioni fondative e dei principi ispiratori della nostra scelta di vita, per non rischiare di vivere come cristiani, consacrati o preti per caso. Non smettiamo mai di fare domande in questo senso: qual è l’origine del mio essere sposato o prete, qual è l’elemento originante che provoca, sostiene e rigenera la dimensione vocazionale della mia vita?
- Il secondo passo consiste nel diagnosticare con lo strumento del discernimento le ferite del peccato. Ferite di natura morale, che ammalano il cuore e infettano le opere; ferite di natura spirituale, capaci di tarlare la robustezza della fede e quindi pervertire l’esperienza religiosa di Dio.
- Il terzo passo riguarda la ferma volontà di guarire e rigenerare il nostro stato di vita personale, ripartire da una seria conversione, puntare sulla centralità della Parola e dell’Eucarestia che devono innervare le nostre devozioni e religiosità, affidarsi alla costante direzione spirituale sotto la guida di persone sagge secondo lo Spirito, consegnarsi al sacramento della confessione per vivere da misericordiati e non da super-eroi, poi decaduti.
- Il quarto passo riguarda la solida e non solita resistenza di fronte agli ‘assalti di ritorno’ contro i quali Gesù ci mette in guardia: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Lc 11,24-26). Quando meno ce lo aspettiamo, il Maligno fa ritorno con più facilità nella nostra vita.
- Un ulteriore e decisivo passo che fa la differenza, è quello dell’obbedienza evangelica. L’obbedienza è il baluardo e difesa della propria fedeltà alla sequela di Cristo. Non c’è perfezionamento della vita cristiana senza l’obbedienza ecclesiale, qualunque sia lo stato vocazionale personale.
E’ compiuto!
Nel cap. 19 del vangelo di Giovanni ascoltiamo le parole di Gesù in croce: “È compiuto!” (v. 30), Gesù ha portato ‘al fine ultimo’ affidatogli dal Padre la sua esistenza morendo sulla croce per amore. Così Gesù dichiara di aver raggiunto il fine ultimo e risolutivo del mandato per il quale era stato inviato nel mondo, riconsegnando la sua vita nella perfetta obbedienza al Padre: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Ebr 5,8-9). Cari amici, la nostra obbedienza parla di docibilitas e di docilitas. La parola docibilitas significa ‘insegnabilità’, cioè la disposizione che uno ha ‘ad essere insegnato’, che in un buon italiano non esiste, ma significa che la persona ‘ha imparato a imparare’ e dunque, in qualsiasi circostanza, trova il modo di lasciarsi formare dalla realtà, dal contesto che sta vivendo. È la persona che ha imparato a imparare la vita dalla vita. Per tutta la vita, perché l’atteggiamento tipico di chi si pone di fronte alla formazione permanente. E’ in questo processo che si innesta l’autentica docilitas evangelica di cui l’esempio dell’obbedienza di Cristo è paradigma. E’ nella logica dell’obbedienza di Cristo al Padre che si radica e si spiega l’obbedienza ecclesiale. Insegna il Papa: “Non c’è una Chiesa sana se i fedeli, i diaconi e i presbiteri non sono uniti al vescovo. Questa Chiesa non unita al vescovo è una Chiesa ammalata. Gesù ha voluto questa unione di tutti i fedeli col vescovo, anche dei diaconi e dei presbiteri. E questo lo fanno nella consapevolezza che è proprio nel vescovo che si rende visibile il legame di ciascuna Chiesa con gli Apostoli e con tutte le altre comunità, unite con i loro Vescovi e il Papa nell’unica Chiesa del Signore Gesù, che è la nostra Santa Madre Chiesa Gerarchica” (5 novembre 2014).
Obbedire è amare con tutto il cuore sino alla fine (Gv 13,1), cioè fino al compimento totale e definitivo della volontà del Padre (εἰς τέλος ἠγάπησεν). Davvero nostra gloria è la croce di Cristo. La gloria del credente, di cui siamo spesso in ricerca spasmodica e libidinosa, si compie nell’obbedienza per un amore disinteressato, per non cadere nella trappola della mondanità di una logica contrattuale, rivendicativa e sindacale, perfino rancorosa e vendicativa. Il cammino sinodale ci sta educando a “discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). Per fare cosa, se non per obbedire tutti, pastore e gregge, alla volontà di Dio? Il compimento della propria vita, come per Gesù, sta nell’atto sublime dell’obbedienza.
Fedeli cooperatori, non solisti
Scrive Papa Francesco: “La Santa Madre Chiesa per prima cosa non chiede di essere leader, ma cooperatori…perché E il presbitero è testimone di questa comunione, che implica fraternità, fedeltà e docilità. Coristi, insomma, non solisti” (24 febbraio 2024). Vivere nella grazia della cooperazione, significa servire con amore e disinteresse, senza mai diventare servili. Sapendo, però, che ogni atto di abbandono a Dio è sempre tentato dal suo contrario: anche Gesù è provato sulla croce. La soluzione e il superamento sta in un atto totale e incondizionato di consegna fiduciale a Dio e alla Chiesa. Propongo la felice riflessione di uno dei teologi più importanti del secolo scorso: “Il ministero (ordinato) come tale può e deve esigere l’obbedienza di fede e d’amore di tutti i cristiani. Esso può e deve richiedere questa obbedienza a motivo della evidenziata distinzione di ufficio e persona, dell’evidenziata intangibilità dell’ufficio anche nel caso della più grande indegnità della persona. E la cristianità cattolica si rivelerà sempre nuovamente come quella che veramente vive dello Spirito di Cristo per il fatto che essa nelle situazioni di importanza decisiva presta sottomissione al ministero altrettanto incondizionatamente quanto Cristo si è sottomesso al volere del Padre per la redenzione del mondo” (H.U. von Balthasar, Gli stati di vita del cristiano, p. 319). Ciò significa che l’obbedienza è la condizione per vivere in modo puro e autentico la propria libertà: liberi da tutto e da tutti per offrire il proprio ossequio alla piena volontà di Dio, ragione prima e ultima della nostra esistenza presbiterale. In particolare a voi presbiteri la liturgia crismale chiede: “Volete rinnovare le promesse che avete fatto davanti al Vescovo e al popolo santo di Dio?”. Restiamo su questa domanda: le promesse non sono fatte al Vescovo, ma “davanti” al Vescovo, dunque fatte con coscienza retta a Dio. La vita cristiana di ognuno di noi è fondata sulle promesse: promesse battesimali, promesse rinnovate nella Confermazione, promesse matrimoniali, promesse presbiterali, promesse dei consacrati. Oggi invito tutti a rinnovare le proprie specifiche promesse, e in modo particolare l’obbedienza ecclesiale a Cristo, maestro e pastore: consacrati e laici, giovani e adulti, presbiteri e diaconi. Invito ciascuno, secondo il proprio stato di vita, a rinnovare le promesse legate al proprio stato di vita. A tutti ricordo che rinnovare non significa ripetere! Esprimiamo con uno spirito nuovo le promesse di sempre. Sia proprio questo lo spirito interiore di ognuno di noi: come una cosa nuova da professare davanti a Colui che “fa nuove tutte le cose” (cfr. Ap 21,5).
Cari presbiteri,
facciamo tesoro anche di quanto san Tommaso d’Aquino lascia in eredita: “Sacerdos constituitur medius inter Deum et populum” (Summa Theol. III, q.82, a.3). Il presbitero è mediatore: sta tutto dalla parte di Dio, vivendo la santità della sua ordinazione; sta tutto dalla parte del popolo, per intercedere e operare per la sua salvezza. Questo è possibile perché, secondo san Tommaso: “Cristo è la fonte di ogni sacerdozio: infatti il sacerdote della Legge [antica] era figura di lui, mentre il sacerdote della nuova Legge agisce in persona di lui (in persona ipsius operatur)” (Summa Theol. III, q. 22, a. 4,). In uno degli incontri con papa Giovanni Paolo II, al termine del pranzo consumato nel Seminario Romano Maggio, salutava i seminaristi ricordando loro con queste sublimi parole: “Dire di un uomo che può agire in persona Christi, è molto di più del dire vicarius Christi”. Tra l’altro, bisogna ricordare che nell’antica tradizione con l’appellativo di «vicari di Cristo» sono anche chiamati i vescovi (così già l’Ambrosiaster nel IV secolo); non solo, ma gli stessi poveri sono talora denominati «vicari di Cristo». Mentre solo dei presbiteri si dice che celebrano in persona Christi.
Cari presbiteri,
tanto grande la nostra dignità, tanto avvilente la nostra fragilità. L’unica vera speranza è la sconfinata misericordia dii Dio e la fraterna solidarietà presbiterale. Concludo con tutti voi la mia meditazione con un’orazione liturgica che recita:
“Ispira le nostre azioni, Signore,
e accompagnale con il tuo aiuto,
perché ogni nostra attività
abbia sempre da te il suo inizio
e in te il suo compimento”.
+ Gerardo Antonazzo