IL RECINTO, LA PORTA, IL PASTORE
Ordinazione presbiterale di don Danilo Di Nardi
Aquino-Chiesa Madonna della Libera, 30 aprile 2023
Introduco la meditazione biblica con un particolare ringraziamento al Signore, perché con la celebrazione della IV Domenica di Pasqua dieci anni fa iniziavo il mio ministero episcopale. In questi anni il Signore ha consolato la nostra Chiesa diocesana con la grazia di quindici giovani consacrati dallo Spirito per il presbiterato. Invochiamo oggi l’effusione dello Spirito su questo nostro fratello Danilo, e ringraziamo il Signore Gesù, Pastore dal cuore buono, e bello nei suoi sublimi affetti con cui sceglie i suoi ministri.
Vietato scavalcare
L’incipit della catechesi di Gesù è dirompente. Nel dialogo con i presenti entra a gamba tesa, e senza giri di parole denuncia: “Chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante” (Gv 10,1). L’antitesi tra un brigante e il pastore fa sospettare che l’interesse per il gregge può essere rivendicato sia da coloro che lo sfruttano e lo distruggono, sia dal pastore legittimo che lo custodisce e lo nutre per avere la vita. Gesù denuncia e disapprova la tentazione di salire da un’altra parte del recinto, piuttosto che attraversare la porta, pur di raggiungere il gregge. Non si può diventare preti a qualunque costo, né si può vivere da preti in qualunque modo! Il recinto custodisce la vita degli altri di cui non siamo padroni: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24). Il verbo “salire” in greco (anabàino) lascia pensare a colui che preferisce arrampicarsi per scavalcare il recinto, piuttosto che entrarvi legittimamente: “Si può qui vedere anche l’immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare ‘in alto’, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi non servire. E’ l’immagine dell’uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l’immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l’umile servizio di Gesù Cristo. Ma l’unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. E’ questa la vera ascesa, è questa la vera porta” (Benedetto XVI, 7 maggio 2006). Dunque non sgomitare, non illudersi di diventare qualcuno, di contare più di altri, magari cercare una posizione di superiorità, di prestigio, di ruolo, di protagonismo. Il dono del sacerdozio e l’esercizio del sacro ministero non fungono da “ascensore sociale” e, ancor peggio, non servono per migliorare le proprie condizioni economiche. Sacerdoti “arrampicatori” sono coloro che mirano a fare carriera. Osserva Francesco: “L’arrampicatore alla fine è un traditore, non è un servitore. Cerca il proprio e poi non fa niente per gli altri. L’unica cosa che gli arrampicatori fanno è il ridicolo, fanno il ridicolo…Il pericolo di cercare il proprio piacere e la propria tranquillità è il pericolo di arrampicarsi, e purtroppo nella vita ci sono tanti carrieristi”.
Dalla soglia alla porta
Caro Danilo, passando attraverso la “porta stretta” (Mt 7,13-14) della Croce si impara ad amare, a vivere per gli altri, a servire con il dono di sé. Nessuno di noi può immaginarsi prete senza “passare” attraverso Cristo, ri-configurare la nostra vita al Pastore, perché “è Cristo colui che pasce il suo gregge, e insieme con tutti coloro che pascolano [nel] bene egli è un solo uomo, poiché tutti sono in lui. Allorché dunque cerchiamo di piacere agli uomini, non cerchiamo il nostro tornaconto, ma vogliamo godere con gli altri … È poi manifesto contro chi dica l’Apostolo: Se cercassi di piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo” (S. Agostino, Discorso 47,12). Prima di attraversare la porta bisogna sostare sulla soglia. Il passo è breve, ma il passaggio non è scontato, anzi molto impegnativo. Prima bisogna stare sulla soglia del Mistero: è la soglia della preghiera, della contemplazione, dello studio, nell’attesa che il Signore riveli il suo volto e ci introduca nella sua profonda amicizia. Dall’intimità e dalla familiarità con i suoi affetti e sentimenti impariamo l’arte pastorale. Dalla soglia del Mistero a lungo “abitata” potremo oltrepassare la “porta” che è Cristo e ritrovarci con Lui nel recinto delle pecore. Seguendo la nuova traccia formativa dei Seminari, ai candidati al ministero è proposto di vivere intensamente nel processo formativo la tappa “configuratrice” a Cristo: “Questa configurazione esige un ingresso profondo nella contemplazione della Persona di Gesù Cristo, Figlio prediletto del Padre, inviato come Pastore del Popolo di Dio. Essa rende la relazione con Cristo più intima e personale e, al contempo, favorisce la conoscenza e l’assunzione dell’identità presbiterale” (Ratio fundamentalis, nn. 68-73). Il nostro ministero non può mai diventare una caricatura del Pastore. “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”. Non è il gregge che deve nutrire il pastore, ma è il pastore che assicura vita in abbondanza alle pecore.
Identikit: farsi riconoscere
Il vangelo indica alcune priorità che caratterizzano il rapporto del pastore con il gregge.
Chiama le pecore ciascuna per nome.
Si chiedeva J. Maritain: “Che cosa vogliono gli uomini prima di tutto? Di che cosa hanno bisogno prima di tutto?”, un interrogativo che oggi ancor più che allora scuote le nostre coscienze. “Hanno bisogno – così continua – di essere amati, di essere riconosciuti; di venire trattati come essere umani; di sentire rispettati tutti i valori che ognuno porta in sé” (La vocazione dei Piccoli fratelli di Gesù, La Locusta, 1982). Chiamare per nome è segno di affetto, di vicinanza, di relazione amicale, di attenzione alla persona come fosse unica, di premura e amorevolezza. La persona di cui conosci il nome ti appartiene, e ti sta a cuore, unica, irripetibile, così come è, per quello che è. Il nome custodisce la storia, la singolarità di ciascuno.
Le pecore ascoltano la sua voce.
Caro Danilo, ricordati che in qualunque comunità sarai inviato come presbitero, tu sei sempre l’ultimo arrivato, e avrai tutto da imparare ascoltando la voce delle persone, perché a loro volta riconoscano la tua e ti seguano. Per familiarizzare con la voce del pastore, il pastore deve sostare e stare a lungo con la vita della gente, la biografia umana e spirituale di ogni persona, il cammino di ciascuna famiglia, la tradizione di ogni contrada, la storia e la cultura di ogni comunità: “Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. Se ascoltano la voce, sono pronti anche a seguirti perché si fidano della voce del pastore: il gregge si fida del pastore e sa “che non è un ladro di felicità o di libertà: ognuno entrerà, uscirà e troverà pascolo. Troverà futuro” (E. Ronchi). Il vero pastore si prende cura concretamente delle persone, con i loro bisogni e necessità. Una cura che necessita del fare concreto di ogni giorno, per diventare buona pratica per il “bonum honestum”.
Cammina davanti al gregge.
Se il pastore cammino, il gregge lo segue. Tocca al vero pastore aprire cammini, indicare orizzonti, esplorare nuovi territori. La tradizione scout ricorda ai capi: “Se tu rallenti, essi si arrestano, se tu cedi, essi indietreggiano, se tu ti siedi, essi si sdraiano, se tu dubiti, essi disperano, se tu critichi, essi demoliscono, se tu cammini davanti, essi ti supereranno, se tu dai la mano, essi daranno la loro pelle, e se tu preghi… allora, essi saranno santi”. Camminare davanti al gregge significa segnare il ritmo dei passi.
Caro Danilo,
è il Signore a tracciare i tratti della tua spiritualità presbiterale. Si rivolge innanzitutto a te quando dichiara: “Se uno entra attraverso di me …entrerà e uscirà e troverà pascolo”. Se Cristo sarà pascolo per te e nutrirà la tua vita, allora sarai in grado di guidare e condurre i tuoi fratelli e sorelle là dove c’è nutrimento, perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
+ Gerardo Antonazzo
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