Fortunati gli amici di Dio: in ricordo di Angelo Molle
L’unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti cari in chi non è mai perduto. S. Agostino Confess 9.14. In ogni istante della nostra esistenza diciamo addio a qualcuno o a qualcosa. Sotto mille forme diverse. Sono tutte forme di sofferenza… perdere una persona cara, un bambino, una compagno di vita, la sofferenza per aver perso il lavoro… per un fallimento… per la nostra stessa morte che si avvicina inesorabile. Per farvi fronte abbiamo bisogno di “qualcosa di più della psicologia”; occorre “una risposta alla domanda sul perché”. “Il cristianesimo non cerca… la soluzione nella rassegnazione… neppure in una prudente relativizzazione o nell’indifferenza. La fede prende assolutamente sul serio la sofferenza e la separazione: non ci gira attorno… Mai da sola, ma con Gesù. E con la ferma speranza di trovare dall’altra parte la vita nuova in Dio. Buona questa iniziativa perché la morte non solo ci porta via le persone care ma con il tempo anche il ricordo di esse si affievolisce. Ma da cristiani, il nostro, non è solo un ricordo, ma una memoria che proprio per la nostra fede nella resurrezione si ravviva. In fondo ogni volta che celebriamo l’Eucarestia si realizza in pienezza quella comunione dei santi che professiamo nel credo domenicale.
1. Gli anni insieme
Ci ritroviamo questa sera per questo appuntamento che è una memoria viva di un amico che vive dall’altra parte la vita nuova con il Risorto. Con Angelo ho condiviso 10 anni della mia vita dalla prima media a Sora fino al secondo anno di filosofia nel seminario di Anagni. Più o meno dal 1978 al 1988. Gli anni dell’adolescenza, della gioventù. Ci siamo incontrati che facevamo la V elementare alla villa Grancassa di S.Donato Valcomino, dove il seminario aveva questo luogo ci vacanza. Tutto il mese di agosto si stava lì. Io ero con alcuni amici del mio paese e Angelo con un amico di Roccasecca Tommaso Lagi. (tumas e ngiulett). Abbiamo fatto le scuole medie insieme. Anche la cresima facemmo insieme perché in quell’anno si fece in seminario. Non ho un bel ricordo di quel Sacramento celebrato in Seminario, mancò qualcosa, forse una comunità che non fosse composta soltanto dai nostri genitori e padrini.
Nel passare al IV ginnasio già ci fu una sostanziale scrematura. In classe eravamo 5 mi sembra. Quando il professore faceva ritardo o mancava passavamo il tempo come potevamo, ma non nella noia e neanche ripassando la lezione ma il nostro passatempo era fare la lotta tra di noi. Non dimenticherò mai quando, entrando il professore, trovò uno di noi legato al termosifone. Ci mise la nota a tutti quanti. Il passaggio al V ginnasio non fu indolore, perché nel seminario di Sora chiuse la scuola e dovemmo andare tutti i giorni a Casamari. Fu un anno alquanto difficile. Al primo liceo andammo ad Anagni, si respirava un’aria diversa, con maggiore libertà. A scuola c’era tra noi sempre una sana rivalità ma nella massima collaborazione.
Al primo liceo eravamo poco più di sei, con professori che però ci interrogavano anche tutti i giorni per cui non potevi fare i calcoli quando ti toccava. Non dimenticherò mai la mia interrogazione di storia su Marco Polo, che non avevo studiato perché interrogato nella lezione precedente. Avevamo professori, gesuiti, esigenti ma anche “particolarmente” simpatici, nel senso che ognuno di loro aveva qualcosa di piacevole e per noi divertente, dal prof di scienze padre Socciarelli che ci minacciava di farci studiare l’estate chimica, con un fico e una formuletta, al professore di Italiano padre Nicolini tanto preciso che mi aveva scelto come bidello ma non sempre corrispondevo alle sue attese e poi il prof di Latino e greco che quando mi chiamava all’interrogazione mi chiamava “Meta”, che è il mio paese.
Questo era particolare nel dare i volti al compito in classe, non riuscivamo mai a raggiungere la sufficienza. Quando aveva corretto i compiti ci chiamava tutti insieme in camera e c’era un vero e proprio verdetto o sentenza, sennonché… nel secondo liceo cambio tutto. Qualche professore si ammalò, altri lasciarono
Anagni. Eravamo ancora nella fase di passaggio dalla gestione dei gesuiti a quella diocesana. Vennero dei professori laici; nel II e III liceo avemmo due professoresse diverse in lettere. Quella del terzo liceo quando ci dava troppi compiti, o faceva qualcosa che non era di nostro gradimento la minacciavamo alzando la pedana e portandola a spasso per la classe. L’esame di maturità fu una passeggiata, non lo prendemmo troppo sul serio, stavamo in seminario ed uscivamo quasi tutte le sere. Non avevamo poi una preparazione remota troppo di spessore con tutto questo cambio di professori che c ‘era stato.
Al primo e secondo filosofia le cose cambiarono, ci fu un salto di qualità. Le classi erano ovviamente numerose, le nostre relazioni si arricchirono di nuovi amici. Poi con un discernimento più oculato Angelo decise di lasciare il seminario e si fidanzò con Maria. Ricordo ancora il posto al mio paese quando Maria venne e mi disse che era la fidanzata di Angelo. C’era e c’è ancora la sorella dell’ex parroco di Roccasecca, don Pierino, che era stato parroco su a meta per 17 anni, lo stesso numero di anni anche poi stette qui. Il sacerdote che mi ha battezzato. Finché anche lui nel 1988 con una morte inaspettata e prematura ci lasciava. Naturalmente con Angelo abbiamo sempre tenuto rapporti molto stretti, venne a suonare alla mia ordinazione. Appena ordinato sacerdote venni qui per quasi un anno a coadiuvare don Pasqualino, (anche nel liceo, per qualche mese, venivo nel fine settimana qui a Roccasecca, essendoci don Pierino e dormivo anche a casa di Angelo). Quando feci il trasloco da Roccasecca a Isola del Liri, dove mi mandò il vescovo Brandolini in attesa di una sistemazione definitiva, mi aiutò proprio lui. E poi sempre rapporti di collaborazione, lui stava a Isola del Liri, io poi a Castelliri e poi ognuno con i propri impegni. Finché, dopo qualche mese al mio trasferimento ad Arce, venni a sapere la notizia del male di Angelo. Ricordo l’ultima telefonata prima dell’operazione. Ricordo quando Maria mi fece il messaggio della sua dipartita, ero al semaforo. L’ho accompagnato dall’ospedale di Cassino fino a casa sua, fino al giorno dei funerali, e oggi spesso mi reco nella sua tomba a chiedere qualche favore. Tante storie di cui siamo stati protagonisti, ora sembra tutto finito.
Sento di fare mia, nella sostanza, ciò che S. Agostino nelle confessioni racconta riguardo la drammatica morte di un amico carissimo, ” mi ero fatto un amico, che la comunanza dei gusti mi rendeva assai caro. Mio coetaneo, nel fiore dell’adolescenza come me, con me era cresciuto da ragazzo, insieme eravamo andati a scuola e insieme avevamo giocato; però prima di allora non era stato un mio amico, sebbene neppure allora lo fosse, secondo la vera amicizia. Infatti non c’è vera amicizia, se non quando l’annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell’amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato” (4.7).
La perdita di un amico lascia un vuoto che comunque sarà occupato sempre da lui, come ognuno ha un posto nella vita lo ha anche nella morte, soprattutto nel cuore di chi gli ha voluto bene. Lo troviamo descritto bene nelle Confessioni, dove il Santo di Ippona continua: L’angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore . Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia patria, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza le aveva trasformate in uno strazio immane. I miei occhi se lo aspettavano dovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva e non poteva più dirmi: “Ecco, verrà”, come durante le sue assenze da vivo. Io stesso ero divenuto per me un grande enigma. Chiedevo alla mia anima perché fosse triste e perché mi conturbasse tanto, ma non sapeva darmi alcuna risposta; e se le dicevo: “Spera in Dio” 26, a ragione
non mi ubbidiva, poiché l’uomo carissimo che aveva perduto era più reale e buono del fantasma in cui era sollecitata a sperare. Soltanto le lacrime mi erano dolci e presero il posto del mio amico tra i conforti del mio spirito .(4,9)
2. La morte e il mistero della vita
C’è da dire che ogni volta che ci sediamo in Chiesa siamo consapevoli anche della presenza dei nostri morti. Ricordiamo dove si mettevano, la mansione che avevano, Angelo suonava, cantava, scherzava. Certo un giorno anche il nostro posto sarà vuoto. Andare in Chiesa è uno dei modi in cui mettiamo da parte il passato per concentrarci sull’oltre. In fondo la fede è una risposta del Signore al caso dell’esistenza. E’ meglio accettare la realtà che negarla, anche la realtà dei nostri corpi e della loro inevitabile fine. Accettarsi per quello che si è, è come accettare la morte, anche se dovesse venire prima del tempo, non ci renderà felici, ma potrebbe salvarci dall’infelicità più grande che ci causiamo cercando di ignorare queste realtà di fatto. Sappiamo che quella dell’antinvecchiamento è una vera e propria industria. Quindi della morte non possiamo che farcene una ragione! C’è da dire che la vita ci mette di fronte a così tante anteprime della nostra morte: separazioni, partenze, sventure. Fin dalla nascita siamo in balia di una serie di eventi e circostanze che non sono mai in nostro controllo. La stessa impietosa corsa del tempo non ci deve stupire. Sono passati 5 anni dalla morte di Angelo, non sono tanti ma neanche pochi. La morte ci interpella sempre, abbiamo pregato e fatto pregare per Angelo. Il Signore non ci ha esauditi, teneva in serbo per Angelo, come direbbe il Manzoni, beni più certi e più grandi. Ma le nostre domande rimangono e ogni volta che muore una persona giovane e buona si ripropongono svegliando in noi i perché sopiti e le domande scomode. Certamente ogni morte induce la sua particolare misura di dolore e pone le sue domande.
Il lutto sa essere devastante ma possiamo sopravvivergli se ci concediamo il tempo di esperirlo. Dobbiamo elaborarlo, non aggirarlo, camuffarlo o sviarlo. E un passo importante in questo processo è l’anamnesi: ricordare, andare indietro nella vita perduta. Parlarne, il lutto deve trovare spazio per esprimersi perché la volontà di vivere che abita ogni creatura prenda il sopravvento. E la vita sconfigge la morte. Lentamente, senza che ci si renda conto, le nostre energie smettono di concentrarsi sul passato e ritornano sul presente, dalle cose come erano alle cose come sono. Che dire? Ogni anno nella festa di s. Agostino ad Arce proponiamo un testo particolare. Nel 2019 abbiamo scelto un brano della Città di Dio al cap XX, dal titolo “il giudizio di Dio e la vita umana” e ve lo propongo in un passaggio illuminante per la memoria che stiamo facendo stasera. Agostino dice fondamentalmente che non possiamo conoscere il giudizio di Dio: ve
lo propongo: In questa vita impariamo a tollerare con animo sereno i mali che subiscono anche i buoni e a non sopravvalutare i beni che conseguono anche i cattivi e perciò nelle circostanze, in cui non si manifesta la giustizia di Dio, è salutare il suo insegnamento. Noi non sappiamo in base a quale giudizio di Dio il buono sia povero e il malvagio sia ricco, perché questi goda, sebbene noi presumiamo che dovrebbe essere afflitto da tormenti per la sua depravata condotta e l’altro sia nel pianto, sebbene la vita lodevole suggerisce che dovrebbe essere nella gioia; non sappiamo come l’innocente esca dal tribunale, non solo invendicato ma anche condannato, o perché angariato dal sopruso del giudice o perché travolto da false testimonianze, e al contrario il suo avversario
criminale lo schernisca non solo perché impunito ma anche indennizzato; non sappiamo perché il miscredente goda ottima salute e il credente si strugga nella malattia; perché giovani sanissimi si diano al brigantaggio e bimbi, che neanche a parole hanno potuto offendere qualcuno, siano afflitti dalla violenza di varie infermità; perché un individuo utile agli interessi umani sia rapito da una morte immatura e un altro, che all’apparenza non sarebbe dovuto neanche nascere, viva per di più molto a lungo; perché uno zeppo di delitti sia elevato a cariche onorifiche e invece il buio di un’esistenza ignobile occulti un uomo senza macchia. E vi sono altri casi del genere che è impossibile elencare e calcolare (Città di Dio XX,2).
3. Tornando a noi
Cosa possiamo dire sul senso della vita di quest’uomo e della morte così straziante? Come trovare senso all’agonia di un uomo buono che ha fatto tanto del bene? Prima di tutto, anche se dovessimo rifiutare le consolazioni della religione e la sicumera con cui vengono dispensate, dobbiamo dire che in mezzo a tumulti, piaghe e crudeltà dell’esistenza, l’universo è stato anche capace di generare gioia e riso, entrambi incarnati nella vita dell’uomo che stiamo ricordando e celebrando oggi: Angelo era anche un creativo, musicista, storico. 2. Poi anche se siamo d’accordo con Leopardi che tempo verrà, che l’universo e la
natura si spegneranno… e questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza si dileguerà possiamo dire che la vita di Angelo si giustifica da sé, che sia stata in sé il suo significato, fosse stato anche un atto di sfida al vuoto che ci attende tutti. Anche se tutti saremo nulla, la vita di quest’uomo, questa vita sicura di sé stessa, creativa, compassionevole, cordiale, disponibile ha dato un senso all’abisso, e nel celebrarla oggi non permetteremmo che questo senso vada perduto.
E’ giusto piangere la morte di Angelo e versare lacrime per una persona tanto amata da tante persone. Dobbiamo lasciare che la sua gioia di vivere e il suo coraggio di morire sopravvivano; ci diano forza e coraggio nella lotta per condurre una vita buona. Concludo riportando la continuazione del passo sopra citato della Città di Dio a cui ho fatto riferimento che vuole essere una sorta di risposta a tutto il detto finora: Noi dunque ignoriamo con quale giudizio Dio, in cui si ha somma potenza, sapienza e giustizia e non si ha alcuna debolezza, insipienza e ingiustizia, operi tali fatti o permetta che avvengano. Impariamo tuttavia a nostro vantaggio a non sopravvalutare il bene e il male, che osserviamo comuni ai buoni e ai cattivi, a perseguire il bene che è proprio dei buoni ed evitare il
male che è proprio dei cattivi. Quando poi giungeremo al giudizio di Dio, il cui tempo fin d’ora si denomina propriamente giorno del giudizio e talora giorno del Signore, si manifesteranno sommamente giuste non solo le sentenze di giudizio allora emesse, ma tutte quelle emesse dal principio e tutte quelle che fino a quel tempo saranno emesse. Allora si manifesterà anche per quale giusto giudizio di Dio avviene che attualmente molti e quasi tutti i giusti giudizi di Dio siano un mistero per la conoscenza e il pensiero dei mortali, sebbene non è un mistero per la fede dei credenti che è giusto sia un mistero. (La città di Dio XX,2)
don Arcangelo D’Anastasio