I VERBI DELLA SINODALITÀ
Omelia Mercoledi delle Ceneri
Sora-Chiesa Cattedrale, 2 marzo 2022
Carissimi amici,
le ceneri sono metafora delle macerie lasciate dalla devastazione della malizia del cuore umano, capace di orchestrare le brutalità più orribili, come in questi drammatici giorni in terra Ucraina. Viviamo il prezioso tempo della Quaresima-Pasqua come tempo di speranza, di rinascita da ogni forma di distruzione. Il cammino che iniziamo con l’austero simbolo penitenziale approderà alla tomba vuota dell’Uomo nuovo-Dio risorto. Questo cammino liturgico è performato in modo speciale dallo “stato sinodale” in cui si è posta la Chiesa universale. Percorriamo insieme (syn) la strada (syn-odos) che attraversa il deserto delle prove e delle delusioni, delle tentazioni e delle promesse. Il Sinodo è tempo di grazia, riaccenda nel cuore di ognuno la vera speranza fondata sulla potenza del Signore risorto. L’inizio di questo speciale tempo liturgico è segnato immediatamente da alcuni verbi della sinodalità: camminare, digiunare, pregare, amare. Le opere di pietà dell’antico giudaismo legato alle prescrizioni mosaiche, possono diventare tre chiavi interpretative del nostro cammino sinodale.
Cammino come “estasi”
Non progredi, est regredi
Chi non cammina regredisce. Il cammino è estasi, ma estasi non nel senso di una condizione di ebbrezza, ma come esodo permanente. La metafora che paragona la vita ad un lungo percorso segnato da tappe, salite e discese, mete e traguardi, è una forma retorica diffusa per la sua efficacia nell’esprimere la comune sensazione di trovarsi sempre in cammino, in movimento: “Il camminare presuppone che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure che qualcosa cambi in noi” (Italo Calvino). Camminare è cambiare passo, a volte anche cambiare strada. Non potremmo agognare la “terra promessa” di una Chiesa più sinodale senza un serio processo di purificazione e di cambiamento. Ogni trasformazione è come morire, e ogni crescita si nutre di abbandoni: “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Cambiare è difficile: siamo abili a fare finta di morire, siamo esperti di morti apparenti: “Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima” è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo nel quale si legge testualmente: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Sarà così anche per il cammino sinodale? Se tutto cambia solo esteriormente, tutto rimane com’è. Ma finchè tutto rimane com’è, vuol dire che tutto deve cambiare interiormente. Laici, presbiteri, consacrati stiamo partecipando ai gruppi sinodali per favorire l’ascolto e il discernimento sul nostro modo di (non)-essere comunità cristiana. Vale la regola d’oro: “Ognuno sia pronto ad ascoltare, lento a parlare” (Gc 1,19). Accarezziamo insieme la bellezza di un sogno possibile: non quello di un’altra Chiesa, ma di una Chiesa altra, diversa, estroversa (Yves Congar). Il Sinodo offre una bella opportunità, una speciale “occasione” (chairòs in Gal 6,10). Non si tratta di un salto nel buio. E’ piuttosto un “ritorno al futuro”: quello di una terra di nuovo “promessa”, terra inesplorata, visione inedita, affidata alla creatività dello Spirito, e perciò al di fuori del controllo dei nostri calcoli e previsioni, reticolati geometrici e algoritmi pastorali: “L’incertezza è la condizione perfetta per incitare l’uomo a scoprire le proprie possibilità” (Erich Fromm).
Quando digiunate
Digiunare sì, da che cosa?
Digiunare è rinunciare, astenersi. Digiunare è disintossicarsi da abitudini ed etichette di una pastorale ormai ossidata, da una visione di Chiesa arroccata sulla difensiva di strutture e prassi pastorali inadeguate, nelle cui maglie ossidate non spira più il soffio dello Spirito. Per cambiare bisogna accettare la sfida del fare “diverso”, o forse del fare ben altro. Che ne sarà delle nostre abitudini consolidate, che sempre hanno gratificato le nostre parrocchie? Ne vale la pena cambiare? Per che cosa? Digiunare è prendere le distanze dalle nostre malinconiche ripetitività, disidratate e prosciugate da ogni diversa immaginazione, inaridite dallo scoramento e tristezza dell’animo che soffoca la speranza e l’avvento della novità del Regno. Ri– progettare il nostro pensiero ecclesiale e fidarci dell’opera di Dio, richiede di lasciare da parte il sicuro per l’incerto. E’ difficile resistere alla tentazione di non farcela, preferendo persino di tornare indietro. Siamo meglio disposti a restare “schiavi” che digiunare dalle cipolle e dalle carni del “faraone”, anche se dominatore (Es 16). Le sicurezze del passato sono irresistibili; mentre ci fa paura il pensiero di sopportare la fame di ciò che non c’è ancora, e l’insicurezza di promesse future. Il rimpianto e il senso di risentimento per ciò che non è più come prima emanano più il tanfo della nostalgia che la fragranza dello slancio missionario: “Cercare forme codificate, molto spesso ancorate al passato e che ci “garantiscono” una sorta di protezione dai rischi, rifugiandoci in un mondo o in una società che non esiste più (se mai una volta è esistita), come se questo determinato ordine fosse capace di porre fine ai conflitti che la storia ci presenta. È la crisi dell’andare indietro per rifugiarci” (Papa Francesco, 17 febbraio 2022). L’insidia della sfiducia tenterà prima o poi a spegnere la speranza. Il chairòs della sinodalità non si accorda con le tristezze delle nostre rassegnazioni e lamentele, nemmeno con la fatica e l’affanno delle molte resistenze al digiuno radicale del “si è sempre fatto così”. Non possiamo restare in attesa che le cose tornino come prima. Il tempo del cambiamento invita a quella creatività e immaginazione che tocca la concretezza di ogni prassi pastorale.
Quando pregate…
Pregare sì, con quali parole?
Il cammino sinodale non ha bisogno di parole, ma innanzitutto della Parola. Per fare strada insieme al Signore il cristiano impara a camminare con la Parola nel cuore. Si prega a partire dalla Parola e grazie alla Parola. Pregare la Parola: accogliere il Verbo fatto carne per affiancare il suo cammino tra gli “ultimi”. L’ascolto della Parola ci spinge con Gesù verso le periferie. Gesù è l’uomo della periferia, ha sempre preferito abitare tra le “case popolari”, nei quartieri popolari. L’ascolto delle periferie ci cambia il cuore e illumina la mente: “La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro. Compresa la realtà di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero; tu puoi avere un pensiero molto strutturato ma quando ti confronti con qualcuno che non la pensa come te, in qualche modo devi cercare ragioni per sostenere questo tuo pensiero; incomincia il dibattito, e la periferia del pensiero dell’altro ti arricchisce” (Papa Francesco). Le periferie aprono orizzonti inesplorati e dischiudono mondi sconosciuti dove Dio è già presente, noi no! Gesù incontrandosi con una donna cananea, pagana, inizialmente rifiuta di ascoltare la sua implorazione: “Si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola”. Alla fine del concitato dialogo Gesù le replicò: “Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri” (Mt 15,21-28). Gesù ha accettato di cambiare idea, lungo la strada dalle mille sorprese. Non ha cambiato strada, non ha evitato di misurarsi con una religiosità diversa e distante dal giudaismo tradizionale! La strada, dimensione essenziale della sua missione, non è sfondo ma contenuto del suo paesaggio esistenziale. Il Signore si lascia cambiare dal suo stesso cammino: “Incontra una donna che parla della sua bambina malata, e grazie a quella donna pagana con cui entra in dialogo Gesù scopre una nuova dimensione della sua missione: l’universalità. Cambia idea. L’insistenza di una donna gli fa cambiare idea. Se anche il Figlio dell’uomo ha cambiato idea dialogando con la sua gente, allora il dialogo deve far cambiare idea anche a noi, e il non cambiare mai idea non è buon segno cristiano” (L. Bruni).
Quando fai l’elemosina
Donare sì, ma come?
“Non stanchiamoci di fare il bene nella carità operosa verso il prossimo. Approfittiamo in modo particolare di questa Quaresima per prenderci cura di chi ci è vicino, per farci prossimi a quei fratelli e sorelle che sono feriti sulla strada della vita (cfr Lc 10,25-37). La Quaresima è tempo propizio per cercare, e non evitare chi è nel bisogno; per chiamare, e non ignorare chi desidera ascolto e una buona parola; per visitare, e non abbandonare, chi soffre la solitudine” (Papa Francesco). Si impara a “camminare secondo lo Spirito” con la fiducia del seminatore, senza stancarsi di fare il bene. Siamo esperti di debolezze, sopraffatti dal senso di colpa, schiacciati dal peso della vergogna e dei fallimenti. Diciamolo con franchezza: siamo capaci più di paure che di coraggio! La carità del vero bene è far rinascere il bene della speranza perché germogli la speranza del vero bene. L’elemosina del bene passa attraverso l’audacia della pro-vocazione, per vincere le rassegnazioni stagnanti e il disfattismo logorante. Intristisce l’eccesso di cultura della cautela e delle “prudenze carnali” (don Tonino Bello) che aleggia nel mondo ecclesiastico. Non sappiamo osare! L’elemosina del bene si fa anche carità della consolazione, della fiducia e della resilienza evangelica. “Chi di paura vive, di paura muore”: di speranza si può soltanto vivere. Fare del bene significa infine elargire l’elemosina della profezia ad una Chiesa che oggi sembra perdere l’audacia del Vangelo, quasi disamorata del suo Signore, mentre “è l’innamorarsi di Gesù la porta d’accesso e il punto di innesco di quell’umanesimo integrale, di cui oggi il mondo ha tanto bisogno. E di cui il cristianesimo è sempre in debito nei confronti del mondo, in obbedienza al mandato del suo Maestro. Oggi in un modo semplicemente differente da quello di ieri” (A. Matteo).
+ Gerardo Antonazzo
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