Cella sicut coelum
Omelia per la festa di s. Bernardo
Abbazia di Casamari, 20 agosto 2020
Nella letteratura biblica la “conoscenza” di Dio è l’espressione sublime dell’amore: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17,3). La vita eterna è comunione con Dio, cresce con la “conoscenza” di Dio e di Gesù Cristo: “Ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17, 26). Nel sottofondo biblico l’uso del verbo “conoscere” in autori dotati di una matrice ebraica indica un’attività complessa, simbolica, onnicomprensiva. Presuppone sia una dimensione intellettiva e razionale, sia un aspetto volitivo e persino affettivo; e giunge fino a designare una qualità operativa concreta. Conoscere è, perciò, amare: “Chi non ama non ha conosciuto Dio” (1Gv 4,8). Questa concezione è presente anche in san Paolo: “Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’ io sono conosciuto” (1Cor 13,12). Poco prima l’Apostolo aveva cantato il suo celebre inno sull’Amore. La meta finale del cristiano è, dunque, conoscere-amare, come preannunciava il libro della Sapienza: “Conoscere la tua potenza è radice di immortalità” (15,3).
Se sant’Agostino può essere considerato il padre fondatore della mistica latina, Bernardo di Clairvaux fu certamente il maggiore esponente della mistica cristiana medievale: non senza ragione Dante lo elesse nel Paradiso a guida suprema verso l’ineffabile visione di Dio. Bernardo entrò nel 1113 a Citeaux, monastero allora poverissimo, portando con sé una trentina di persone. Tre anni più tardi, fu scelto per dirigere una nuova fondazione nella Champagne, quella di Clairvaux, Anche grazie a ricche donazioni, Clairvaux divenne un importante centro di irradiazione monastica: in una quarantina d’anni le fondazioni che ne nacquero furono ben sessantotto, e diedero origine a loro volta a numerose altre comunità. Intorno al 1118 Bernardo incontrò Guglielmo di Saint-Thierry, con il quale mantenne stretti rapporti per tutta la vita. Negli anni della mia formazione ho letteralmente “divorato” i testi dell’Abate Guglielmo: De contemplando Deo, Meditativae orationes, La lettera d’oro, Lo specchio della fede, L’enigma della fede. Diverse opere di Guglielmo sono state a lungo attribuite a Bernardo di Chiaravalle. Di fatto, Guglielmo avrà un enorme influsso, in particolare sulla stesura più importante dell’opera mistica di Bernardo, rappresentata dai Sermones super Cantica Canticorum, ai quali continuò a lavorare fino alla morte. Se la chiave interpretativa della letteratura cistercense la ritroviamo in Guglielmo, la stessa sarà senza dubbio sviluppata e ancor più sistematizzata dalle opere di s. Bernardo.
Il prestigio e l’influenza di Bernardo nell’ambito della Chiesa divennero sempre maggiori. Non meno intensa fu la sua partecipazione agli affari politici contemporanei, in apparente contraddizione con la sua vocazione alla vita monastica, di cui comunque osservò sempre rigorosamente i princìpi. Bernardo in questo modo si presenta come figura e modello della ricerca di Dio senza estraniarsi dal mondo, un autentico contemplattivo, per usare un neologismo coniato dalla genialità letteraria e spirituale di don Tonino Bello.
L’anima della mistica medievale è ben rappresentata nel De consideratione di san Bernardo: “Ho in animo di scrivere alcune riflessioni che possano riuscirti di edificazione, oppure di diletto o di conforto…”. Con queste parole san Bernardo inizia un suo importante scritto intitolato De consideratione, ultima opera di s. Bernardo, redatta per il papa Eugenio III, ch’era stato suo allievo nel monastero di Clairvaux. Al suo antico discepolo Bernardo raccomandava: “Non dedicarti tutto e sempre all’azione, ma riserva qualcosa di te, del tuo cuore e del tuo tempo alla considerazione… Cosa si addice meglio al culto di Dio, di quel che egli stesso consiglia nel Salmo: “Fermatevi e riconoscete che io sono Dio”? È questo uno degli elementi essenziali della considerazione”. Il vacate et videte, citato da san Bernardo dal Salmo 46, 11 (secondo la Vulgata), è stato interpretato dalla tradizione spirituale della Chiesa come un invito alla preghiera e alla contemplazione: infatti il Vacare Deo, frui Deo della spiritualità monastica è il binomio che ci giunge dalla tradizione cisterciense mediante la voce di Guglielmo di Saint-Thierry (Lettera d’oro, 31). Per fare l’esperienza gaudiosa di Dio, occorre fargli spazio: cella sicut coelum. È in qualche modo simile alla scelta dell’habitare secum di san Benedetto. Deluso dalla comunità monastica che aveva cercato di avvelenarlo, “Benedetto se ne tornò al luogo solitario che tanto amava e abitò solo con se stesso sotto gli occhi di colui che dall’alto ci guarda». È il racconto che ne fa Gregorio Magno (Dialoghi III, 10).
Il tecum habita è l’invito a vivere sotto lo sguardo di Dio qualunque cosa si faccia. Non è necessario essere monaci per far questo. Lo spiega sufficientemente san Gregorio Magno, che pure avrebbe desiderato star nella quiete monastica, piuttosto che nelle ansietà pastorali. Lo fa commentando la notissima scena evangelica di Marta e Maria (Lc 10, 38-42). Per fare la sua lamentela Marta si fece avanti, osserva Gregorio e spiega: “Questo esempio è illuminante. Noi che prestiamo dei servizi ai fratelli, se non possiamo indugiare a star seduti ai piedi del Redentore, per qualche momento dobbiamo farci avanti al Redentore. Ma ci facciamo avanti bene a lui, se lo vediamo passando e servendo. Ma che significa scorgere il Signore passando, se non indirizzare a lui l’intenzione del cuore in ogni nostra opera buona? Passiamo, infatti, quando, andando qua e là, serviamo il Signore nelle sue membra. Ma passando scorgiamo il Signore se, attraverso tutto ciò che facciamo contempliamo lui, al quale desideriamo piacere, che è presente in noi”.
L’invito di s. Bernardo alla “considerazione” è, dunque, l’invito a riconoscere che Dio è Dio, il suo primato, la sua precedenza nella nostra vita. La contemplazione è la via d’oro per farne esperienza. La teologia mistica di Bernardo è una sapienza, cioè una conoscenza saporita di Dio (sapida notitia), quando per mezzo dell’amore la punta suprema della ragione si congiunge e si unisce a Lui. Tutti gli scritti di Guglielmo e di Bernardo sono attraversati dal desiderio appassionato di vedere Dio. Viene superata in modo eccellente la teologia negativa, cioè lo sprofondamento nell’impossibilità di vedere il volto di Dio, per affermare la possibilità dell’anima di amare fino ad essere trasformati da Lui. L’amore è nell’uomo propriamente l’impronta divina, e costituisce il suo affectus più alto, quello per il quale è simile al suo Creatore. Provare questo affectus, essere così assimilati, trasformati, vuol dire essere deificati. Infatti, afferma s. Bernardo: “Sic affici est deificari”.
Si tratta della nostra relazione con Dio: che non è una relazione astratta, ma coinvolgente al massimo. È secondo il tutto se stesso che ciascuno deve rapportarsi con Dio, e quando egli ci incontra ci coinvolge non parzialmente, ma in tutto e per tutto. Non si tratta, dunque, di psicologia, o altro, ma di riconoscersi come immagine di Dio: non dimenticare che sei immagine di Dio, predicherà san Bernardo, e non misconoscere la tua bellezza (cfr. Sermo XII de diversis, n. 2). E poiché l’amore in noi è l’immagine più pura di Dio, essa comporta pure una reale conoscenza di Lui: non una conoscenza razionale o intellettuale, ma una “conoscenza amorosa”, un intellectus amoris, secondo una formula di Guglielmo ripresa anche da Dante.
La teologia mistica di Bernardo non distrae da sé stessi, ma restituisce alla conoscenza di sé illuminati dall’incontro amoroso con Dio. Incontrare Dio è incontrare se stessi! È, dunque, qui la questione centrale della mistica medievale. Per sant’Agostino era il succo della preghiera: Deus semper idem, noverim me, noverim te (che io conosca me, che conosca te). Poi null’altro: Oratum est – “Ho finito di pregare” (Soliloquia, II, 1). H. De Lubac commenta: “L’uomo che prega trova in sé e sopra di sé la luce che invece non trova colui che cerca il proprio io” (Sulle vie di Dio).
+ Gerardo Antonazzo