Capite quello che ho fatto?
Omelia per la Messa In Coena Domini
Pontecorvo-Chiesa Concattedrale, 14 aprile 2022
L’evangelista Giovanni non racconta l’istituzione dell’Eucaristia ma regala pagine uniche e originali, con l’intento di accostare il lettore al cuore stesso di Gesù. Negli ultimi, intensi, momenti della sua vita, Gesù istruisce i suoi discepoli per aprirli alla comprensione del mistero della sua passione, morte e risurrezione (Gv 13-17). L’incipit di questi capitoli introduce nel clima spirituale di tutto il seguito: “Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: Capite quello che ho fatto per voi?” (Gv 13,12). Il gesto compiuto da Gesù è fin troppo chiaro perché era in uso nelle famiglie quando si accoglieva in casa l’ospite: il servo, il domestico, lavava i piedi a chi varcava la soglia per condividere l’amicizia della mensa comune. Gesù però spiazza tutti i presenti: lava i piedi non all’arrivo degli ospiti, ma durante la cena; inoltre, a compiere il gesto della lavanda non è un domestico, ma proprio Gesù, dichiarandosi così “servo” pronto a chinarsi e farsi carico della sporcizia dei suoi amici. Lavare i piedi ai discepoli li colloca in una relazione speciale di ospiti e amici “di famiglia”; è assicurare loro la nobile e sincera accoglienza incondizionata, pur sapendo già che la loro contropartita sarà la fuga, la dispersione, il tradimento, il rinnegamento. Solo il pentimento, il riconoscimento e la riconoscenza per le sue piaghe li potrà riammettere nell’amicizia divina.
Un gesto da gran Signore
La lavanda dei piedi è il gesto di Gesù “Signore e Maestro”, non “Maestro e Signore”, è il gesto del Kýrios, ancor prima che del Didàskalos. Gesù insegna da Signore; non è Signore perché insegna. Il Signore insegna a essere servi: ancora un paradosso del Cenacolo! Il Signore insegna ad assumere con libertà e con amore l’attitudine dello schiavo. Il passaggio cruciale, che anche oggi brucia nel cuore di ogni discepolo, è dettato dalla domanda a bruciapelo: “Capite quello che ho fatto per voi?”. La domanda lascia pensare che fra le intenzioni del “Signore e Maestro” e i pensieri dei presenti ci fosse un abisso, una distanza siderale. Pertanto, Gesù invita i suoi a considerare che la lavanda ha delle conseguenze concrete sulla loro vita. La lavanda è un gesto di rilevanza assoluta perché a farlo è stato proprio Gesù. Con questo gesto fonda la nuova comunità. Il suo è un gesto fondativo perché dà origine a un legame generativo: è l’amore di Gesù che opera nei discepoli e li rende suoi amici; d’ora in poi anche sono chiamati a compiere quel gesto di amore, per amare come ha fatto lui.
Giocarsi la vita
La lavanda dei piedi è un gesto che dice la disponibilità totale a servire senza riserve e senza volontà di potere. Si tratta dunque dello stesso dono che Gesù fa di sé nell’eucarestia. E’ il gesto-dono di sé, che spinge ogni cristiano a mettere in pratica l’insegnamento del Maestro e a vedere in questa azione il modo concreto di “giocarsi la vita” per gli altri: “Riprodurre le azioni compiute da Gesù nell’ultima cena e consacrare la propria vita a servizio dei fratelli sono i due fondamenti che costituiscono insieme la comunità dei discepoli e che allontanano la comunità dal rischio di diventare un gruppo di filantropi o di ipocriti. Chinandosi sui piedi dei suoi, Gesù si è fatto in tutto amico, ha deposto la veste e ha eliminato la distanza tra lui e loro” (L. Manicardi). L’eucarestia è stata data alla Chiesa perché l’amore fraterno sia intensificato: lavare i piedi non è un gesto facoltativo, ma è necessario per rendere manifesto il fatto che la vita cultuale da sola non basta; d’altro canto la Messa diventa un’illusione se tutto il senso che si condivide nella celebrazione eucaristica non passa nella pratica dell’amore effettivo e affettivo.
Stare dinanzi a Giuda e a Pietro
“Capite quello che ho fatto per voi?” non significa chiedere il consenso o accordare un cenno di conferma, ma raccogliere la sfida del “prendere o lasciare”. Era come chiedere: siete disposti anche voi a ad agire nello stile e nella logica del gesto da me compiuto? D’altra parte, la crisi nell’animo dei discepoli era già esplosa apertamente davanti al piatto di Giuda e dinanzi ai piedi di Pietro. Nel momento in cui Gesù porge il boccone prelibato “il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo”. Cosa poteva spettarsi ormai di buono da Giuda? Il diavolo aveva già separato la mente di Giuda dal pensiero di Gesù: era due modi di sognare il messianismo diametralmente opposti. Giuda incarnava lo zelo della violenza e la logica della forza come strategia dell’azione messianica, mentre Gesù contrappone la debolezza del servo. Anche davanti ai piedi di Pietro, reticente e ipocritamente scandalizzato di fronte al gesto del Maestro, emerge l’inquietudine: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Gesù lo redarguisce severamente: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Pietro aveva intuito bene che accogliere quel gesto avrebbe significato “prendere parte” allo stesso destino di Gesù, accettare e condividere la sua logica d’amore e di servizio “fino alla fine”. E questo gli metteva paura, consapevole delle sue precedenti e reiterate defaillence. Davanti al “prendere o lasciare” intimato da Gesù, Pietro appare sfiduciato; ma lo spavaldo può finalmente apprendere a proprie spese l’umiltà.
E’ compiuto
“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”: alla fine della sua vita terrena Gesù decide di amare fino all’inverosimile. Gesù tende un filo rosso nella sua vita, tesse una continuità e un senso univoco e incontrovertibile al significato e alla finalità della sua esistenza, ponendola tutta sotto il segno dell’amore. Avendo amato sempre, amò fino alla fine: la “fine” non indica la conclusione di una cronologia, ma il compimento, la pienezza, il vertice e la sommità dell’amore. Del resto, il termine greco télos (fine) indica il fine e il compimento, quindi una pienezza. Più che una fine dunque, quel télos è un compimento che rimanda all’ultima parola di Gesù sulla croce: “È compiuto” (tetélestai: Gv 19,30). Ecco il dinamismo della perseveranza: continuare ad amare, amare ad ogni costo, a qualunque prezzo, fosse anche quello della vita. Ed è quello che nel Cenacolo Gesù chiederà ai discepoli: permanere nel suo modo amare. “Rimanete nel mio amore”, cioè custodite il mio modo di amare, rimanete nella logica del dono, ancoràti al mio esempio. Non altro. Sino alla fine!
+ Gerardo Antonazzo
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