Vado a svegliarlo
Omelia per le esequie di don Gabbisrael Yoc
Cassino-Chiesa Concattedrale, 20 agosto 2020
Ultimo dei sette segni compiuti da Gesù, quest’ultimo miracolo è il più grande e il più massiccio allo stesso tempo (Gv 11,1-57). La risurrezione dell’amico Lazzaro, infatti, rinvia all’autorità di Gesù sulla vita e sulla morte, e compendia il significato della sua venuta e della sua rivelazione: recare la vita in pienezza.
Nel racconto si passa ben presto dalla notizia riferita: “Signore, ecco colui che tu ami è malato”, alla reazione di Gesù: Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo. Don Gabbi, che Gesù ha amato scegliendolo con affetto di predilezione (Prefazio Messa crismale) è stato anche il nostro amico, l’amico dei molti che lo hanno conosciuto. È stata l’amicizia di un uomo semplice, essenziale, discreto, garbato; è stata l’amicizia di un prete riservato e allo stesso semplice e rispettoso nei tratti, familiare negli affetti, buono nelle relazioni.
Don Gabbi era nato a Chimaltenaga (Guatemala) il 3 agosto 1976. Cresciuto in una comunità di Azione Cattolica, dove ci sono state anche diverse vocazioni sacerdotali e religiose, ha sempre partecipato alle attività di quella comunità insieme ai suoi genitori, zii e nonni. In quella comunità ha seguito il cammino con il gruppo Sagrado Corazón de Jesús e con il gruppo giovanile Ave María. Sempre da bambino ha partecipato ad un gruppo chiamato San Juan Bosco, verso gli 11 anni si è unito al gruppo dei ministranti della parrocchia di Santa Ana de Chimaltenaga in Guatemala. Quando era al liceo all’età di 14 anni, una zia lo invitò ad iscriversi al seminario minore della Fraternità Missionaria di Maria, in Guatemala, dove continuò i suoi studi fino all’ordinazione sacerdotale. È stato ordinato presbitero il 6 gennaio 2001, come membro della Società di vita apostolica “Fraternità Missionaria di Maria”. Come religioso ha svolto il suo servizio pastorale in diverse comunità in Italia. Nel settembre del 2014 ha ottenuto il permesso di inserirsi nel presbiterio diocesano, per poi risultare incardinato nella diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo.
Il nostro amico si è addormentato. La strategia narrativa del capitolo 11 di san Giovanni mira a risvegliare la fede dei discepoli. La questione posta è quella della sorte dei credenti alle prese con la malattia e la morte. Celebrando i misteri della Pasqua di Cristo, professiamo la nostra fede nel suo potere divino sulla malattia e sulla morte: don Gabbi si è semplicemente addormentato.
Le certezze della fede non ci immunizzano dal dolore e dal lutto, né dal lamento né dal pianto. La familiarità ordinaria che Lazzaro, Marta e Maria avevano tante volte condiviso con Gesù nella casa di Betania, non dispensa dalla tristezza e dallo smarrimento per la morte del fratello: Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Anche noi avremmo sperato ben altro per don Gabbi, e per questo in tanti abbiamo pregato. L’incontro di Gesù con Marta è seguito da quello con Maria. Le loro parole interpretano anche i nostri dubbi, le nostre tante domande irrisolte; i tanti perché lasciati a se stessi, gettano nella confusione e nello smarrimento. Gesù abbraccia il dolore delle due sorelle disperate, si mescola tra i Giudei presenti in pianto, e davanti all’amico già sepolto ha una reazione profondamente umana (vv. 33-35): si commuove, si turba, scoppia a piangere.
Gesù guarda la morte in faccia, la chiama per nome, sa stare di fronte all’amico nel dolore, non nasconde gli affetti umani che lo legano agli amici di Betania: “Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro … Dissero allora i Giudei: Guarda come lo amava!” (Gv 11,5.37). Anche oggi vogliamo immaginare il Signore davanti al feretro del caro don Gabbi: lui partecipa alla nostra sofferenza, condivide il nostro lutto, fa suo il nostro pianto. Spetta alla fede fare nostra la sua promessa. Lui prende un impegno molto serio con noi: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno.
Ricordaci solo queste tue parole, Signore, e ci basta! Signore, dì ancora queste parole e rigenera la nostra speranza.
Profondamente divina si rivela la decisione di Gesù di intervenire, di contestare e contrastare il potere della morte. La tomba, spazio abitato dalla morte, diventerà, grazie alla fede, il luogo della manifestazione della presenza e della potenza di Dio (v.40). Avendo la certezza dell’assoluta fedeltà di Dio, ogni credente affronta senza disperazione la prospettiva ineluttabile della sua morte naturale. Così l’ha affrontata don Gabbi, soprattutto dal momento in cui è diventato consapevole della condizione irreversibile del suo stato di malattia. Abbiamo pregato insieme poche sere fa, per poi impartirgli l’assoluzione sacramentale. Quando ci siamo salutati, sapevamo che si trattava ormai di un addio, ma ci consolava il suo sereno stato di abbandono al morire, la profonda fede dei familiari presenti, in particolare l’amore struggente della madre che sin dalla prima notizia della malattia del figlio sacerdote si è messa in stato penitenziale di digiuno, assumendo solo pane e acqua. Il rito eucaristico al quale stiamo partecipando è il sacramento del “grazie” più grande che possiamo elevare a Dio, celebrando il mistero pasquale del Signore risorto, vincitore sulla morte e datore di vita eterna.
Il nostro amico si è addormentato.
Signore, accoglilo con te, nel tuo Regno;
Signore, donagli la gioia di contemplare il tuo volto;
Signore, ammettilo alla gloria della tua lode;
Signore compi per lui la tua promessa:
donagli la risurrezione e la vita.
Signore, vieni a svegliarlo!
Maranatha! Amen.
+ Gerardo Antonazzo