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Riflessioni sul lavoro post Covid-19

 Riflessioni sulla tematica del lavoro in Italia dopo l’emergenza Covid-19

L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, recita l’art.1 comma 1 della nostra Costituzione. Dunque nelle intenzioni dei Padri Costituenti il lavoro occupa un ruolo fondativo e primario della nostra struttura democratica e repubblicana, potremmo dire utilizzando una espressione enfatica, ne costituisce il cuore pulsante. La Costituzione, frutto rigoglioso dell’incontro di culture politiche diverse ed in taluni casi distanti, che si sono abbracciate nell’interesse superiore del bene comune è il faro che deve illuminare ed orientare tutti quei provvedimenti che la Repubblica nelle sue diverse articolazioni istituzionali (Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni) adotta per dare attuazione operosa ai principi ivi contenuti, siano essi precettivi o programmatici. Dopo 72 anni dalla entrata in vigore della Carta Costituzionale è naturale chiedersi il peso che questo tema del lavoro, che è al tempo stesso un diritto e un dovere, ha nella nostra cultura, specialmente oggi, anche in considerazione degli effetti che ha prodotto e produrrà sulla vita civile ed economica la pandemia che stiamo vivendo.

Il lavoro è ancora il cardiopalmo del nostro corpo sociale o è destinato a rivestire una funzione bradicardica? Se guardiamo, in special modo agli ultimi anni, il quadro non è rassicurante. Cresce soprattutto tra i giovani, la preoccupazione per il lavoro del futuro, per la ricerca del lavoro, per la paura che il lavoro sarà sempre di meno, anche a causa della rivoluzione tecnologica e della struttura della nostra economia  – che non solo nelle fasi recessive, ma anche in quelle espansive è caratterizzata da una crescita del Pil cui non corrisponde una crescita dell’occupazione – in quanto incentrata sulla finanza più che sulla economia reale, più sulla forsennata ricerca del profitto, che sulla ricerca del benessere delle persone.

Al contempo si insinua una cultura del non-lavoro per effetto della quale ciò che è importante assicurare agli individui è un reddito a prescindere (in taluni casi a dispetto) del lavoro. Per uscire fuori da questo enigma, a mio avviso, serve  una trasformazione del paradigma che guida l’agire economico che deve sempre più mettere al centro la persona ed il lavoro e considerare il profitto solamente uno degli indicatori dello stato di salute dell’economia, ma non certamente l’unico. In questa opera di  trasformazione ci aiuta il pensiero che la Dottrina Sociale della Chiesa ha maturato e sviluppato in ordine alla relazione essere umano-lavoro.

Il lavoro umano ha  una duplice dimensione: oggettiva e soggettiva. In senso oggettivo è l’insieme di attività, risorse, strumenti e tecniche di cui l’uomo si serve per produrre. Il lavoro in senso soggettivo è l’agire dell’uomo in quanto essere dinamico, capace di compiere varie azioni che appartengono al processo del lavoro e che corrispondono alla sua vocazione personale. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Il lavoro in senso oggettivo costituisce  l’aspetto contingente dell’attività dell’uomo, che varia incessantemente nelle sue modalità con il mutare delle condizioni tecniche, culturali, sociali e politiche. In senso soggettivo si configura, invece, come la sua dimensione stabile, perché non dipende da quel che l’uomo realizza concretamente, né dal genere di attività che esercita, ma solo ed esclusivamente dalla sua dignità di essere personale. La distinzione è decisiva sia per comprendere qual è il fondamento ultimo del valore e della dignità del lavoro, sia in ordine al problema di una organizzazione dei sistemi economici e sociali rispettosa dei diritti dell’uomo. La soggettività conferisce al lavoro la sua peculiare dignità ,che impedisce di considerarlo come una semplice merce o un elemento impersonale dell’organizzazione produttiva. Il lavoro, indipendentemente dal suo minore o maggiore valore oggettivo, è espressione essenziale della persona, è “actus personae”. La persona è il metro della dignità del lavoro: non c’è infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona.

La dimensione soggettiva del lavoro, deve avere la preminenza su quella oggettiva, perché è quella dell’uomo stesso  che compie il lavoro, determinandone la qualità e il valore più alto. Il lavoro umano, non soltanto procede dalla persona, ma è anche essenzialmente ordinato e finalizzato ad essa. Anche se non può essere ignorata l’importanza  della componente oggettiva del lavoro sotto il profilo della sua qualità, tale componente, tuttavia, va subordinata alla realizzazione dell’uomo, e quindi alla dimensione soggettiva, grazie alla quale è possibile affermare  che il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e che lo scopo del lavoro ,di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il più monotono  e addirittura il più emarginante – rimane sempre l’uomo stesso. Il lavoro,per il suo carattere  soggettivo o personale, è superiore ad ogni altro fattore di produzione: questo principio vale, in particolare, rispetto al capitale nei confronti del quale sussiste tuttavia una necessaria complementarità, in quanto né il capitale può stare senza lavoro, né il lavoro senza capitale. Da ciò ne consegue l’urgenza di dare vita a sistemi economici nei quali l’antinomia tra capitale e lavoro venga superata.

Il lavoro è un bene di tutti che deve essere disponibile per tutti coloro che ne sono capaci. La piena occupazione  è, pertanto, un obiettivo doveroso per ogni ordinamento economico orientato alla giustizia e al bene comune. Un ruolo importante  e, dunque, una responsabilità specifica e grave appartengono in questo ambito, al “datore di lavoro indiretto”, ossia a quei soggetti – persone o istituzioni di vario tipo – che sono in grado di orientare, a livello nazionale o internazionale, la politica del lavoro e dell’economia. La capacità progettuale di una società orientata verso il bene comune e proiettata verso il futuro si misura anche e soprattutto sulla base delle prospettive di lavoro che essa è in grado di offrire. Chi è disoccupato o sottoccupato, infatti, subisce le conseguenze profondamente negative che tale condizione determina nella personalità e rischia di essere posto ai margini della società, di diventare una vittima dell’esclusione sociale.

Nella Caritas in Veritate, Benedetto XVI ricorda come i poveri sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione, precarietà, lavoro nero), sia perché vengono svalutati i “diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia“ . Per Giovanni Paolo II, il lavoro, nella Laborem Excercens: «…è non solo un bene “utile” o “da fruire”, ma un bene “degno”, cioè corrispondente alla dignità dell’uomo, un bene che esprime questa dignità e la accresce». Vi è infatti una «dignità specifica del lavoro umano» in quanto viene inserito «nel mistero stesso della redenzione»quale strumento di rinnovamento e creatività che risponde alla vocazione propria di ogni uomo.

Nella Gaudium et spes troviamo un principio fondamentale per il prosieguo della nostra riflessione: “Il lavoro umano, con cui si producono e si scambiano beni o si prestano servizi economici, è di valore superiore agli altri elementi della vita economica, poiché questi hanno solo valore di strumento. Tale lavoro, infatti, sia svolto in forma indipendente sia per contratto con un imprenditore, procede direttamente dalla persona, la quale imprime nella natura quasi il suo sigillo e la sottomette alla sua volontà”.  Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita, innanzitutto della sua vita domestica, particolarmente in relazione alle madri di famiglia, sempre tenendo conto del sesso e dell’età di ciascuno”.

La Conciliazione dei tempi di vita-lavoro è allora esigenza di tutela della dignità della persona che si esplica, secondo il dettato Costituzionale, nelle diverse formazioni sociali, prima fra tutte la famiglia. L’affermazione del lavoro dignitoso, allora, passa attraverso il riconoscimento del diritto ad un ambiente di lavoro sano e sicuro come diritto umano fondamentale, da perseguire anche in una fase di globalizzazione delle procedure produttive e delle dinamiche economiche  ed “educare al lavoro dignitoso” presuppone una visione dell’economia che non consideri il lavoro un mero elemento della produzione.

Alla luce ed in forza di quanto detto cerchiamo di individuare le circostanze che possono rivelarsi preziose per la creazione di nuove opportunità lavorative soprattutto per i giovani  e, dunque, per un poderoso rilancio dell’occupazione in Italia. Occorre innanzitutto urgentemente ripensare il rapporto tra lavoro, scuola, università ripristinando una frequentazione tra giovani e lavoro negli anni cruciali della formazione delle persone, eliminando gli aspetti burocratici, che soffocano gli slanci più alti ed autentici dell’istruzione e dell’educazione e creando, invece, una effettiva ed operativa convergenza tra scuola e lavoro, nonché, facendo in modo che gli anni di studio all’università non siano solamente di preparazione teorica al lavoro futuro, ma siano già, nell’attualità, lavoro vero, istituendo corsi di studio più flessibili, che affianchino il lavoro, in quanto la conoscenza e l’apprendimento, in una società complessa come la nostra si nutrono anche del lavoro.

Per quanto riguarda, poi, il sistema produttivo vi è da considerare che il fenomeno della globalizzazione ed il conseguente fenomeno della delocalizzazione produttiva dai paesi cosiddetti di sviluppo maturo ai paesi di sviluppo recente, a seguito dell’emergenza Covid-19, subirà una battuta di arresto e sicuramente assisteremo ad un fenomeno  che in termini sociali può essere definito di “cavallo di ritorno”, ovvero vi sarà una rilocalizzazione delle produzioni che sono state spostate all’estero per ragioni di sbocchi di mercato o di risparmio sui costi, che sarà un volano per  l’occupazione, in quanto il mercato non sarà più “globalizzato”, almeno come lo abbiamo conosciuto finora, ma sempre più “ localizzato” (per Paese di produzione) e tutto al più “regionalizzato” (per aree geografiche omogenee).

Inoltre la modernizzazione del sistema dei servizi in Italia può rappresentare la chiave di volta per la ripresa dell’occupazione. Sono gli ambiti delle attività dove si concentrano i differenziali negativi nel tasso di occupazione rispetto alla media dei Paesi Ue-15, pari a circa 3,8 milioni di occupati, e del lavoro sommerso. Per un insieme di prestazioni irregolari che l’Istituto di statistica nazionale stima equivalenti a circa 3 milioni di occupati a tempo pieno.  La mancata modernizzazione del sistema dei servizi spiega anche la scarsa partecipazione delle donne nel mercato del lavoro, penalizzate dalla carenza dei servizi di conciliazione con i carichi familiari e dalla mancata domanda di lavoro nelle attività economiche che, negli altri Paesi sviluppati, contribuiscono alla crescita dell’occupazione femminile. Questo processo può essere molto agevolato, da un lato, dalle potenzialità innovative delle nuove tecnologie digitali accompagnato da un cambiamento di approccio culturale nel senso indicato dal pensiero “forte” della Dottrina sociale della Chiesa, dall’altro ripensando le organizzazioni di erogazione dei servizi riposizionandole nella direzione della centralità della persona  e del loro coinvolgimento responsabile oltre che nella gestione e nella valutazione dei servizi, nella co-progettazione degli stessi.

In conclusione occorre valorizzare, così come già brillantemente intuito dalla scuola di economia civile, il talento civile e lo spirito del Paese e della sua classe dirigente, creando un orgoglio ed una speranza civile fondati sulle radici del passato, sui segni del presente e proiettati sulle ali del futuro per costruire un “non ancora” migliore del “già” e del “già stato”.

Se il lavoro costituirà effettivamente il cuore pulsante del corpo sociale, pertanto, dipenderà da tutti noi, dal nostro vigoroso sforzo personale e comunitario per ricercare la vera vocazione sociale del lavoro, la sua altissima dignità: il suo essere cemento della società, legame di reciprocità che unisce tra di loro i diversi (cifra della fraternità) e che ci avvicina gli uni agli altri in rapporti di mutuo vantaggio e di amicizia civile.

Io sono fiducioso e ci credo: le nuove generazioni guidate dall’esperienza di quella che li ha preceduti ci consegneranno un mondo migliore fondato su un nuovo modello di lavoro, più umano, fraterno e civile.

Francesco Rabotti

direttore diocesano Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro

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