Una forte testimonianza dalla prima linea nella lotta al Covid-19: la speranza nella fede e nella preghiera
In questi giorni in cui l’apertura del Governo ad una avanzata “fase 2” sembra aver donato una insperata libertà, nel muoversi, nel rivedere le persone care, nel tornare a celebrare in chiesa l’Eucaristia, abbiamo voluto raccontare ciò che hanno vissuto, dalla prima linea, coloro che stanno ancora combattendo contro questo invisibile ed insidioso mostro: gli eroi del personale sanitario. Per questo abbiamo chiesto ad uno di loro, Maria Luisa Marcelli, infermiera di Sora che lavora al reparto malattie infettive dell’ospedale Spaziani di Frosinone, oggi reparto Covid-19, di raccontare la sua esperienza.
«Nessuno poteva prevedere o immaginare quello che sarebbe successo. Come una tempesta improvvisa che si abbatte e distrugge.
“Sono giorni terribili. Sono in prima linea in un modo che non avrei mai immaginato nemmeno nei peggiori incubi. I turni di lavoro viaggi all’inferno. Non stiamo lavorando in sicurezza e stiamo dando fondo a tutto il nostro coraggio. Storie umane che coinvolgono e sconvolgono. E quando i pazienti mi dicono che sono un angelo, non mi fa piacere e non ne sono orgogliosa. Mi dà solo una infinita tristezza. Dio mio aiutaci!” In questa riflessione scritta ad un amico in quei giorni, i sentimenti….
È cominciato tutto con la sicurezza che non sarebbe successo niente di grave e quello che i giornalisti dicevano e quello che vedevamo in TV dalla Cina erano esagerazioni e fakenews. Invece ci siamo dovuti ben presto ricredere e in fretta abbiamo dovuto schierarci e affrontare un virus diabolico. Diabolico perché non scorderò mai quelle provette di sangue che prelevavo, sangue nero come non lo avevo mai visto e che faceva paura.
I pazienti arrivavano velocemente, nella confusione, tanti, giovani, anziani. Corse contro il tempo, già, perché quando non ci sono cure, in medicina, compriamo solo tempo, per arrivare al punto della scoperta che guarisca. Tentativi, e gli occhi dei pazienti spaventati, confusi, la paura della morte, la solitudine… La mancanza “di fiato” che riferivano, il mal di testa forte, la febbre alta… con le poche cose messe alla rinfusa in buste di plastica. Non erano più nessuno, solo positivi al Covid. Annullati anche nella loro identità. E noi “bardati” a riceverli. Colpiva la mancanza quasi di ogni lamento e la domanda di tutti era se avevamo anche noi i farmaci di cui si parlava… e poi il loro pensiero ai loro cari e la preoccupazione di averli contagiati. Non ho mai visto pazienti tanto collaboranti in mezzo al dolore delle continue monitorizzazioni.
Prelievi, emogasanalisi, controlli, esami, agocannule, cateteri, iniezioni di eparina, più volte al giorno e le loro braccia che diventano sempre più violacee. Le ore passate attaccati costantemente all’ossigeno, o con indosso le Cpap. Un calvario affrontare la malattia da Covid-19. Le nostre difficoltà a lavorare e farci capire attraverso maschere e visiere, camici e tute, per comunicare serenità e fiducia, anche se stavamo morendo dentro e con le lacrime che scendevano senza sosta. Uno sforzo grande di tutti, carichi di adrenalina che ci toglieva anche la fame, la sete, la stanchezza. E lo sconforto, l’incredulità, insieme ai medici quando vedevamo le immagini di quelle Tac polmonari che non lasciavano dubbi, la tenerezza delle persone anziane che nonostante tutti gli sforzi non riuscivano ad adattarsi a noi così vestiti.
Ci hanno chiamato eroi, io non mi sento eroe, sono solo una infermiera che ama il suo lavoro (penso che il mio lavoro sia il più bello del mondo). Ho avuto paura, rabbia, preoccupazioni, dubbi, vivendo sempre in una sorta di quarantena per proteggere anche i miei cari quando tornavo a casa. Eroi invece sono stati i pazienti e i loro cari, con la loro dignità rispettosa e la pazienza dell’attesa.Ci hanno donato un telefonino con cui facevamo fare videochiamate, all’inizio usavamo i nostri…
E in tutto questo la solitudine spirituale, la ricerca di Dio, quante volte solo la preghiera infondeva fiducia, quando entravo nelle stanze e parlavo del miracolo in cui credevo. Non ho mai pianto e pregato tanto! E quando una paziente mi disse che non aveva un Rosario, e che lo avrebbe desiderato, detto fatto, ho cercato di provvedere e insieme alla terapia abbiamo cominciato a “spacciare” Corone del Rosario, e abbiamo avuto come fornitori padre Gabriele Deac, il cappellano, e don Donato Piacentini, il mio parroco. Ne abbiamo dati tantissimi, accolti con sorpresa e poi con gratitudine e partecipazione sorprendente. La fede e la preghiera.
Dei malati che ho conosciuto tanti sono guariti, alcuni purtroppo sono morti e strazio finale, le salme preparate intrise di candeggina e avvolte in lenzuola e plastica, senza funerali e senza parenti a dare l’ultimo saluto.
Adesso le cose vanno meglio, la situazione è cambiata, tante incognite ancora ma una certezza, questo virus si può battere con l’intelligenza, purtroppo è sempre tra noi ma sappiamo come proteggerci. Quindi niente panico per una prudente normalità perché la vita va amata, protetta e salvata sempre! Dobbiamo scoprire e abituarci a nuove forme di convivenza».
(foto di copertina Avvenire.it)