Ravvivare per custodire
XXV di ordinazione di mons. Alessandro Recchia
Casalvieri, 6 ottobre 2019
La liturgia odierna illumina e corrobora la grazia della fede. La provocazione parte da una richiesta degli apostoli (Accresci in noi la fede!) e sprigiona un’istruzione sorprendente da parte del Maestro, incentrata sul paradosso granello di senape-gelso: Se aveste fede quanto…. La pochezza della fede, se autentica invocazione di salvezza, è sufficiente per sciogliere la potenza di Dio. Esiste un enorme contrasto tra la fede piccola come un granello di senape, considerato il più piccolo di tutti i semi (Mc 4,31), e il potere che gli si riconosce. La fede può sperare e realizzare l’impossibile: nulla è impossibile a Dio (Lc 1,37). Se questo è vero nell’esperienza di ogni discepolo, diventa ancora più evidente nella storia di un presbitero, la cui vita personale e il sacro ministero raccontano una storia di fede.
Sì, caro don Alessandro, anche la tua vita è un racconto che riporta tutto alla potenza della fede. La celebrazione del 25° della tua ordinazione presbiterale, pertanto, si trasfigura oggi in una sorta di testimonianza che attesta un privilegiato rapporto con il Signore, a partire da quella parola di chiamata che ti invitava alla sua sequela, e che ha irrevocabilmente orientato e dato forma alla tua esistenza umana e cristiana. Per fede ti sei fidato di Dio. Per quella fede, piccola quanto un granello di senape. ti sei sradicato dal terreno delle convenienze, progetti o calcoli puramente umani, per piantarti nel mare sconfinato del cuore e della volontà di Dio. E hai portato frutto, perché hai meritato la fiducia di Dio. Mi sembra giusto, a questo punto, fare mia la premura dell’Apostolo: ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mani (II Lettura, cf 2Tim 1). Il verbo ravvivare (on greco: anazopyrèo) significa riaccendere la fiamma. Mentre, il dono di Dio (in greco: chàrisma, v. 6) ha il significato paolino di “grazia” ricevuta in vista di un servizio nella Chiesa. I doni di Dio si ravvivano di continuo nella luce della fede. Nella lucentezza e lucidità della fede, nel passare degli anni si continua a conserva gelosamente il dono che abbiamo ricevuto, a ringraziare per la dignità e la grandezza del dono, a rinnovare la fedeltà che il dono ricevuto merita.
Tutto questo l’apostolo Paolo lo raccomanda a Timoteo utilizzando il verbo “custodire”: Custodisci il bene prezioso che ti è stato affidato. Custodire è conservare intatta la preziosa eredità ricevuta. Tale bene prezioso riguarda sia la chiamata sia l’esercizio del ministero del “vangelo della gloria” (1Tim 1,11). S. Paolo spiega che il “vangelo della gloria” di cui l’apostolo è portatore è il vangelo del Crocifisso. Pertanto bene prezioso sono anche le prove e le sofferenze, da saper custodire come via di santificazione nel ministero. Paolo non indietreggia di fronte alle serie difficoltà che lo minacciano, e indica due ragioni (v. 12). La prima ragione: so infatti in chi ho posto la mia fede. La parola fede, come primo significato indica la “fiducia”: ogni difficoltà è sopportabile se si ha fiducia nel Signore. La seconda ragione: san Paolo è convinto che il Cristo è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato. Quel giorno è il suo ritorno, la parusia. Si comprende così una correlazione dinamica e vitale: ogni presbitero può custodire ciò che gli è stato affidato solo perché è Cristo stesso a custodire il dono trasmesso.
La custodia di ogni dono ricevuto da Dio richiede una costante umiltà. Nel vangelo di oggi colpisce la richiesta del padrone di mangiare e bere prima del suo servo che ritorna dai campi. Ogni parabola si inserisce nella cultura sociale del tempo. Essa trasmette una lezione esemplare: la responsabilità di ogni apostolo non lo deve spingere a vantarsi davanti a Dio e davanti a chiunque per il lavoro svolto. Siamo servi inutili. Nessuna “riconoscenza” o favore particolare per chi non fa che il suo dovere. Pertanto, i servi possono senza dubbio rallegrarsi dei loro successi, del loro lavoro apostolico, ma non inorgoglirsi o, peggio ancora, attribuire a sé la riuscita del proprio ministero.
Caro don Alessandro, tu hai avuto anche la gioia spirituale di partecipare con i tuoi amici di ordinazione alla celebrazione presieduta da Papa Francesco a Santa Marta (19 settembre 2019). Per voi ha usato parole importanti, preziose, quando vi ha ricordato che il ministero ordinato è un dono del Signore, che ci ha guardati e ci ha detto “Seguimi”. Quando dimentichiamo questo ci appropriamo del dono e lo trasformiamo in funzione, si perde il cuore del ministero, si perde lo sguardo di Gesù che ha guardato tutti noi e ci ha detto: “Seguimi”, si perde la gratuità. Da questa mancanza di contemplazione del dono, del ministero come dono, scaturiscono tutte quelle deviazioni che noi conosciamo, dalle più brutte, che sono terribili, a quelle più quotidiane, che ci fanno centrare il nostro ministero in noi stessi e non nella gratitudine del dono e nell’amore verso Colui che ci ha dato il dono, il dono del ministero.
+ Gerardo Antonazzo