Mons. Domenico Sigalini. Il presbiterio non una casta, ma una comunione, che sostiene una rete di relazioni

Fuori da ogni casta e obbedienti al dono della comunione

La casta è un modello di descrizione di categorie di persone che fanno squadra e si distaccano dalla vita della gente. Noi presbiteri che facciamo squadra attorno al vescovo siamo una casta, una classe sacerdotale o una comunione? Prevale di più che ci definiscano come clero, o come presbiterio? E’ solo una questione formale o di sostanza? Dove sta la differenza?

Essere preti significa essere uomini che hanno voglia di vivere e di orientarsi a una visione del mondo che ha Dio come creatore, che impostano la vita da credenti e che si collocano nella comunità cristiana da pastori a nome di Gesù Cristo. Possiamo diventare una casta se prevale il nostro ruolo sul nostro essere.

Ci facciamo allora alcune domande, esprimiamo sensazioni, esigenze, desideri che caratterizzano la nostra vita di presbiteri

1. La vita del prete ancor prima del suo ruolo

Anche per noi vivere

  • è quell’insieme di sentimenti, di tensioni, di desideri, di gioie e di speranze, di delusioni e di certezze che noi siamo
  • è il nostro corpo col tempo passato nel silenzio dell’anima o stretto tra i molteplici impegni che non ci lasciano respiro, costretto sotto le domande petulanti di qualcuno, assillato da mille richieste
  • è il nostro diario interiore, quel sacrario intenso fatto di gusti, di cose da possedere e da amare, di musiche da ascoltare, di  sfizi da cavare, di libri da leggere
  • é l’insieme delle nostre rabbie, del mandare al diavolo tutti, gridato tra i denti, perché non ne possiamo più e tornare comprensivi a fare quel che dobbiamo,
  • è il cumulo di ore disseminate nei nostri giorni, passate senza trovare alcun senso alla vita, sentendone lo scandalo interiore
  • è l’affollamento dei battiti di cuore, delle emozioni per una persona che vorremmo amare, esserne corrisposti, ma che  abbiamo deciso solo di servire
  • è la schiavitù dei doppi pensieri di cui ci vergogniamo e che nessuno dovrà mai sapere
  • è l’insieme dei progetti e dei sogni, delle fanciullaggini che ancora ci troviamo in corpo, delle piccole soddisfazioni che ci prendiamo e che nessuno capisce
  • è sentirsi fatti per cose grandi, ma trovarsi sempre a piedi come polli
  • è star bene, essere su di giri un giorno, ottimisti per qualche risultato e l’altro invece annoiarsi a morire
  • è dialogo intenso e intimo con un Dio, amico, ineffabile e personalissimo e sentire il peso di una ripetitività che ci svuota
  • è celebrare l’Eucarestia qualche volta con un senso di timore e consapevolezza di mistero e altre volte sentirsi espropriati di un minimo di partecipazione interiore
  • è, vedere che la fede si ferma alla tua persona perché hai ceduto alla tentazione di concentrare l’attenzione su di te, mentre vorresti sempre che la gente si concentri su Dio
  • è volersi fare i fatti propri e sentirsi sempre su un piedistallo, stretto dentro una categoria
  • è volersi esprimere per quello che si è e sentirsi sempre valutato per il ruolo che si ha

Dove posso continuamente ritrovare le ragioni vere della vita, per me ancor prima che  per gli altri? E’ possibile disgiungere la mia vita da quella del mio popolo?

Non si tratta di separare, sarebbe una falsità, ma di vivere in profondità, di scavare nella propria dignità di persone e di cristiani con alcuni atteggiamenti di fondo che ci portano ad imitare Gesù, che non era un sacerdote del tempio, non era un uomo dell’organizzazione, ma aveva una sua vita interiore conquistata e difesa coi denti dagli impegni, dagli “orari”, dalla gente.

A Gesù, al tramonto del sole di quella prima giornata di Cafarnao, passata amichevolmente nella casa di Pietro, si presenta una massa di ammalati e di indemoniati. Si è diffuso un rapidissimo tam tam tra tutti i disperati; la notizia della sua presenza è passata di tugurio in tugurio, di disperazione in disperazione e ciascuno ha trovato, la forza di portare alla luce i suoi mali, i suoi malati, i reclusi del dolore. C’è Lui. Lui ha detto che il Regno sta scoppiando, Lui comanda ai demoni; Lui è capace di portare tutto il male del mondo e se ne sente quasi schiacciato.

Ha bisogno di fissare il suo sguardo gravato dalle scene del dolore negli occhi del Padre e di buon mattino si ritira in un luogo deserto a pregare. Non è una fuga, al “tutti ti cercano” che Pietro gli grida, non oppone rifiuto, ma allarga ancora più l’orizzonte a tutti i villaggi vicini.

Noi stiamo imitando soltanto Lui

È Lui l’agnello che si carica il male del mondo. Non siamo più soli a portarlo. Lui è la chiave di volta sotto cui il peso della vita non potrà mai schiacciarci. Non ci lascia soli. Il male del mondo è tanto, siamo tentati di dire che è troppo, ma bisogna cercare Lui per avere la certezza di vincerlo. Se la terra è spaesata, il cielo non è vuoto

2. Abbiamo domande alla nostra vita più grandi di noi

Diamo voce ad alcuni sentimenti e sensazioni che come preti stiamo vivendo in questo tempo: stanchezza, smarrimento, routine, debolezza, incomprensione, percezione di essere cultori di un sacro che consola alcuni, ma che alla fine nelle cose più importanti della vita non conta. Sì, serve ancora nei casi disperati, nella morte, qualche volta nelle malattie, nella vita privata, ma non è chiamato in causa per impostare una vita della famiglia e della società più giusta.  Le giovani generazioni sono altrove, facciamo fatica a dialogare con loro, a renderle sensibili alla voce dello Spirito. La gente ci vuole bene, ma non fa un salto di qualità nella fede. Oggi la fede ha bisogno di essere rigenerata per essere disponibile alle domande degli uomini, ma siamo sempre ai primi passi. Noi preti siamo mangiati dalla vita ordinaria, dal compito pure necessario di offrire i sacramenti, che spesso giungono su un popolo che non li accoglie con fede, ma per tradizione, l’evangelizzazione sembra dover prendere altre strade, che non sono le nostre.

Noi stessi siamo un po’ smarriti per le nostre debolezze nei sentimenti e negli affetti, forse ci preoccupiamo del nostro futuro come tutti e ci pesa la solitudine, l’avanzare degli anni. La speranza anche per noi rischia di diventare un modo di dire, è confusa con l’ottimismo o il pessimismo.

Sentiamo di far parte di una comunione, ma ne vediamo solo i frammenti, ad essi ci attacchiamo, non siamo capaci di lavorare assieme

La domanda che ci facciamo è sempre: come attraversare i giorni difficili senza lasciarci vincere dal peso che sentiamo gravare su di noi?

La risposta ce la dobbiamo cercare con umiltà e pazienza nella storia della nostra salvezza. Dice il canone IV:

 «Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza e per mezzo dei profeti hai insegnato a sperare nella salvezza». La storia che ci precede è storia di speranza donata, di forza regalata. Gesù Cristo è il nome nel quale si racchiude tutto questo cammino e vi trova la sua pienezza: «Padre santo, hai tanto amato il mondo da mandare a noi, nella pienezza dei tempi, il tuo unico figlio come salvatore». Nessuno, più di Cristo, ci insegna la speranza. Egli, in realtà, nella sua stessa persona, è la «speranza» (cf. 1 Tm 1,1).

Ogni giorno, anche se un po’ assonnati, sia giorno di festa o di lutto, di fatica o di riposo, noi possiamo sempre dire, quando recitiamo le lodi: Tu Signore sei benedetto, sei grande, perché anche oggi ci hai visitato, non ci abbandoni, ci sveli la bontà misericordiosa del nostro Dio.

Del resto non poche volte siamo aiutati da S. Paolo a renderci conto dell’evidenza: C’è forse qualcosa che ci  può separare, privare, togliere l’amore di Cristo? C’è qualche tribolazione, qualche persecuzione, qualche molestia, qualche insuccesso, qualche nostro stesso peccato che ci può privare dell’amore di Cristo? “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 8,35-39).

Gesù è sempre il centro della nostra vita, il sole di ogni giornata, l’amore per la cui attesa non riusciamo a stare fermi, colui su cui scarichiamo le nostre paure e le nostre rabbie, i nostri pensieri di lode e le nostre domande che restano anche tanti giorni senza risposta, i nostri bisogni di essere capiti e forse anche coccolati. Abbiamo bisogno di un contatto fisico con Lui che ci conferma che gli stiamo a cuore

 “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor 4,7-11).

Che tipo di scelta radicale dobbiamo fare per essere sempre preti dedicati e contenti? Già avere domande di questo genere che trovano la risposta personale, interiore, fuori di noi ci espropria del ritenerci una casta; inoltre dare alla nostra vita la caratteristica di una vocazione e non di un ruolo offre uno spazio al costituirsi di una comunione.

3. La vita di comunione.

La comunione è un dono, da accogliere e da servire, più grande di ogni nostro sforzo per raggiungerla, non è un affannarsi degli uomini a qualche tavolo di concertazione, è la vita donata da Gesù alla sua sposa che è la Chiesa, supera le nostre continue divisioni; è una luce alta che attira, è dono dello Spirito alla sua Chiesa. È stata implorata da Gesù nella sua accorata preghiera prima di salire la croce e giudica ogni nostro aggregarci, sta davanti a ogni nostro sforzo per realizzarla nel tessuto delle nostre vite. Se la comunione è dono di Dio sta sempre più avanti delle nostre realizzazioni, anzi spesso è oscurata dalle nostre infedeltà, dalle nostre maschere, da rapporti ecclesiali più legati all’apparenza che alla sostanza, da dichiarazioni di comunione soggettive o comode fuori della verità e della sequela di Gesù. Occorre allora vivere percorsi che ci aiutano e aiutano la Chiesa a ricostruire sempre la fedeltà al dono di Dio della comunione per trasformare il modo di relazionarsi, di collaborare, di convivere, di celebrare, di orientarsi al vangelo secondo uno stile di relazioni nuove, che vanno oltre la spontaneità, l’impressione, l’emotività, verso una relazione d’amore.

E’ Gesù prima di tutto che prega per l’unità dei suoi, proprio perchè questa unità può essere intesa solo come una comunione e come un dono dall’alto e dunque anteriore e precedente a quella che i discepoli devono edificare tra loro. La preghiera fatta da Gesù indica che questo dono dall’alto può essere solo invocato, e invocato solo dal Padre perché è riflesso della vita di comunione che abita Dio stesso. Non è una conquista o una pretesa. Il pregare di Gesù è segno visibile della necessità di invocare perché la comunione è parte della vita divina, cioè l’abitare nella comunione fra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e insieme fare in modo che questa comunione prenda dimora nella vita di tutti i giorni. Ma siamo ancora più fortunati perché non solo dobbiamo invocarla noi, ma è Gesù stesso che la chiede per noi, la invoca affinché essa sia in noi, che pure cerchiamo con fatica e sempre con fragilità e incompiutezza di praticarla. E molto semplicemente quel “rimanete in me” che Gesù ci chiede è fatto di preghiera, di adorazione, di supplica, di breviario, di pratiche semplici di pietà personali, di via crucis, di rosari, di meditazioni e letture di vite di santi… Non disprezziamo niente della nostra tradizione spirituale imparata nei seminari. la dobbiamo rendere ancora più viva e più condivisa, vissuta assieme.

Se la gente vuol trovare un senso alla vita, non ha bisogno di un prete detective, come le fiction ci mostrano, o di un prete che supplisce alle carenze di una struttura sociale, ma di un prete che offre comunione. Il prete però ha una strada privilegiata e obbligatoria per offrire comunione: i sacramenti. La comunione è un dono che viviamo tra di noi mentre la proponiamo al popolo di Dio. Qui trovi la vita, la forza e la luce di Cristo, nei gesti semplici del pane e del vino, nell’acqua che ti immerge in una storia di salvezza e ti salva, nell’olio che lenisce la sofferenza della malattia, nel crisma che ti suggella con lo Spirito. Qui puoi portare il tuo dolore che si cambia in perdono e il tuo amore che si fa segno di quello di Dio e continuità della sua creazione. E questo non è rifugio nel liturgismo, ma punto di partenza e di arrivo di ogni immersione necessaria, generosa e spesso eroica, anche se nascosta, di molti preti nella vita concreta degli uomini. Qualcuno fa della liturgia una scorciatoia per fuggire dalla vita, una immersione nei fumi delle candele e dei turiboli, ma non ne ha proprio capito niente.

La comunione è opera dello Spirito Santo, perché è la vita stessa in Dio.

Le due epiclesi presenti nella preghiera del canone – sul pane e sul vino che diventano presenza reale di Cristo e sulla assemblea affinché diventi il corpo del Signore – esprimono in modo emblematico e significativo l’opera dello Spirito Santo nella chiesa ai fini del creare la comunione. Colui che è l’unità in Dio è lo stesso che opera l’unità fra i discepoli del Vangelo; non può non essere così, solo in questa condizione l’unità divina può essere fonte della unità fra i credenti. Anche a questo proposito, quando si parla di unità e di dono, si comprende come sia necessario l’opera dello Spirito Santo per poter salvaguardare il carattere di dono di tale unità, diversamente essa potrebbe essere assimilata a una qualsiasi impresa umana dove ciò che conta sono i risultati che si raggiungono e si verificano. Se è opera dello Spirito è soprattutto accoglienza e disponibilità.

4. Casta o comunione?

Allora possiamo mettere in sinossi la scelta che dobbiamo fare: accettare la comunione o arroccarsi in una casta? Sperare in un dono non disponibile a manipolazioni o costruirsi una riserva protettiva?

Le caratteristiche della comunione

si sente costruita da un dono cui deve rispondere

è orientata non da interessi ma da una vocazione

si misura sul servizio e non sulla difesa di sè

si fa giudicare da un principio interiore

è orientata totalmente al servizio della comunità cristiana

dipende totalmente dalla Parola di Dio

 

Le caratteristiche della casta

fondata su privilegi

chiusa nei propri interessi

custode di un potere da rendere inaccessibile ad altri

è caratterizzata da superiorità nei confronti degli altri

sfrutta la posizione per il proprio tornaconto

ha vocabolario e pensiero autonomo

si costruisce a tavoli di concertazione, se non a tavoli di amministrazione

seleziona i migliori e espelle gli incerti

si affida all’organizzazione

ha comportamenti dettati esclusivamente dalla legge

La casta crea il clericalismo, la comunione crea un servizio e la comunione tra preti in unione con il vescovo si struttura in presbiterio

5. Le caratteristiche del primo presbiterio

vario e impossibile

La compagnia che Gesù si era scelta non era il meglio che poteva trovare. Nessun allenatore si creerebbe una squadra così diversa, così disomogenea fatta di gente semplice, non colta, nemmeno fedele. Giuda lo tradirà alla grande, Pietro non sarà una roccia di fedeltà, Giovanni è troppo giovane… ma Gesù sa di poter contare sulla vita di tutti: in ciascuno è impressa l’immagine di Dio e Gesù da fiducia perché ognuno di loro sappia stanare la grandezza che ha dentro e soprattutto sappia rispettare l’altro per quello che è, accettarne la differenza e assieme, con l’apporto originale di ciascuno, costruire il Regno di Dio. La vita di ogni presbiterio sarà sempre così. Dovrà mettere assieme diversità e doni particolari, culture e idee disparate, abitudini e stili di vita diversi, ritmi e coinvolgimenti di varia intensità. Già in quel gruppo di apostoli si cominciava a delineare la cattolicità della chiesa, la sua grande capacità di scrivere il vangelo in ogni popolo e cultura, accogliendo, purificando, trasformando, soprattutto annunciando il vangelo cui essa deve obbedire in fedeltà assoluta. Nei tempi immediatamente successivi, quella sorta di uniformità si sfalderà; basta pensare all’ingresso di Paolo di Tarso per vedere scricchiolare l’uniformismo e trionfare la difficile comunione, dono di Dio. Sarà la presenza viva e operante dello Spirito Santo che in tutti cesellerà i lineamenti della figura di Gesù, il suo volto, il suo amore per tutti, la sua fedeltà al Padre. La comunione è dono dello Spirito soprattutto, ma è anche effettiva visibile convergenza di mete e sforzi, di iniziative pastorali, di tensioni spirituali, di attuazione di progetti.

Ogni discepolo pur diverso è imitatore del maestro. Tutti imiteranno Gesù nel donare la vita fino al sangue, in regioni diverse, in contesti diversi, ma tutti per quel Gesù che aveva riempito la loro vita di pescatori e peccatori.

con vari livelli di responsabilità e di coinvolgimento

nel gruppo di Gesù non tutti hanno lo stesso peso e la stessa partecipazione al progetto di Gesù: c’è una indubbia collocazione a un vertice di responsabilità di Pietro. Gesù ha una consuetudine con la sua casa a Cafarnao, tanto che all’inizio è la sua casa la piccola nuova chiesa dove avvengono miracoli o partenze e arrivi dalla predicazione. Pietro è il perno di tanti insegnamenti, di provocazioni, di decisioni, di chiamate alla responsabilità, di domande stringenti e di compiti decisivi. Chi dite che io sia? Chi sono io per voi? Volete una buona volta uscire dai vostri comodi paraventi? La prendete una posizione per me? Lo fate il salto di qualità di guardarmi con la luce dello Spirito o state ancora ad aspettare come andrà a finire?

Signore tu sei il Cristo. Dove vuoi che andiamo? Avevamo mestiere e famiglia, ti siamo corsi dietro, stiamo cambiando il nostro passo sul tuo, ma quel che dici ci spaventa. Non ce la facciamo a capire quell’infamia che sempre più spesso ci metti davanti. La croce no!

Pietro stammi dietro. T’ho chiamato a seguirmi, non a precedermi. Fidati come hai sempre fatto, segui il tuo istinto di generosità anche di fronte al buio della vita e della incomprensione.

Ma mi ami davvero? Sei proprio sicuro che mi vuoi bene? Stai facendo calcoli o atti d’amore? Solo in questo troverai la forza di reggere i tuoi fratelli.

Assieme a Pietro ci sono altri due che vengono continuamente chiamati in causa: Giacomo e Giovanni. Un terzetto continuamente provocato, ma non sempre all’altezza della proposta di Gesù. Bello il Tabor, ma inutile per il Getsemani; belle le intimità nel compiere miracoli, ma del tutto assenti nell’ora della prova. Gesù a ciascuno offre una sua possibilità di amore e ciascuno la gioca come gliene dà la forza della propria vita e interiorità.

Altri due vogliono sopraffare, avere qualche gradino di collocazione più dignitoso, un posto di rilievo in questo famoso regno. Il posto di rilievo lo deciderà solo la croce, la dedicazione di sé fino alla morte.

Tra loro si creano anche profonde amicizie, grandi convergenze spirituali. Penso al rapporto tra Pietro e Giovanni: il vecchio e il giovane quel mattino di Pasqua.

Accogliente e rispettoso

Quando appare Gesù la sera di Pasqua, trova tutti stupiti, dubbiosi e nello stesso tempo desiderosi di uscire assieme da quella che era ritenuta disavventura, ma che doveva essere la normalità della vita di un discepolo, di un apostolo: l’esperienza della croce. La vista di Gesù, mentre da una parte mette a nudo la loro povertà e il loro tradimento dall’altra li unisce nella ripresa. Mancava però Tomaso e saranno loro a dirgli con gioia e entusiasmo di aver visto il Risorto. Lui invece ha tenuto alla sua indipendenza. Siete tutti esaltati, vi date forza per non essere disperati; ci sono già cascato tante volte con voi, ma ora non più. La vostra solidarietà non mi basta; voglio metterci io le mani in quei fori, voglio tappare io quei buchi di disperazione che mi hanno lacerato la vita. La domenica successiva, ancora assieme a vivere la lenta riappropriazione del dono della fede, Tomaso ricompone nella fede nel Signore  l’unità del collegio apostolico, come noi ricomponiamo quella del presbiterio; torna a vivere piena comunione. Lo hanno aspettato e lo hanno accolto.

con la stessa passione anche nella diversità di età

I giovani corrono, i giovani sono scattanti, i giovani si entusiasmano subito, bruciano le tappe, i giovani vogliono spremere il massimo dalla vita, i giovani sono impazienti di sapere e di vedere, di provare e di scoprire.

Gli adulti invece sono calmi, sono riflessivi, le hanno già provate tutte e procedono con cautela, non abboccano al primo che parla. Gli adulti sono lenti, spesso smorzano tutto, soppesano tutto, ma sanno dare ancora consigli saggi. Siamo così anche nel presbiterio.

Erano un giovane e un adulto la mattina di quel famoso primo giorno dopo il sabato. Si somo incamminati correndo verso un posto che Giovanni aveva già visto; era il Golgota nei pressi del quale c’era il sepolcro nuovo in cui era stato ricomposto in fretta il cadavere di Gesù. Avevano udito notizie sorprendenti, vociare di donne, correre di informazioni, meraviglie, domande, esclamazioni, dubbi. Nella tomba non c’è più. Erano andate di buon mattino perché volevamo imbalsamarlo, ma là il corpo non c’è più. Giovanni là aveva assistito fino all’ultimo momento, all’ultimo spasimo, Gesù che moriva, per sostenere sua madre; con Giovanni c’era Pietro, quello che aveva dato il colpo di grazia del tradimento a Gesù, quello che, mentre Gesù veniva sbeffeggiato e insultato da tutti, non aveva avuto il coraggio di stare dalla sua parte. Due vite  che erano rimaste incantate da Gesù, due storie di sequela che si rimettevano in corsa col cuore in gola per poter sperare ancora, per potersi dire che non era vero che tutto era finito, per farsi sorprendere dalla potenza di Dio. Giovanni era giovane,  innamorato perso e correva di più; Pietro era adulto, si portava dentro anche il peso del tradimento e arrancava. Giovanni lo precedeva, arrivò prima, ma si fermò davanti al sepolcro, aspettò Pietro. Lui era giovane entusiasta e veloce, ma  aveva bisogno della saggezza di Pietro. È sempre così anche nella vita: giovani e adulti stanno bene insieme, hanno bisogno gli uni degli altri.

La scoperta che assieme hanno fatto è stata sorprendente. Anche loro  hanno constatato che Gesù non c’era più, il suo corpo da cui Giovanni aveva visto esalare l’ultimo respiro non c’era più. Gli sono rimasti negli occhi quel lenzuolo, la sindone, le bende che avevano avvolto Gesù afflosciate su di sé, come se da sotto ne fosse sparito il corpo. Hanno visto e hanno creduto.

Immaginiamo di sentirci narrare da Giovanni questo rapporto vivo tra un giovane e un vecchio nel collegio degli apostoli.

Dopo questi fatti eravamo tornati a pescare. Era finito il tempo della avventura con Gesù. Storditi dalla morte e dal dileggio dei benpensanti, sembravamo agli occhi della gente dei poveri illusi. Avevamo ripreso la vecchia amicizia e il vecchio sodalizio del lavoro. Occorreva tornare a vivere; avevamo dentro la certezza della risurrezione, ma ancora non riuscivamo a capire che toccava a noi fare quel che aveva fatto il maestro, che non potevano starcene più a casa nostra a ridirci la bella esperienza e a sentirci gratificati di una bella avventura che avevamo vissuto.

Cominciavamo forse troppo presto ad aspettare il suo ritorno, come aveva sempre promesso e ce lo immaginavamo imminente, quasi a riempire il nostro futuro. Ma Gesù non ci ha lasciati soli, è ritornato a definire mete grandi e a condurre la nostra vita al largo. Gettate le reti dall’altra parte. Come? abbiamo lavorato tutta notte da professionisti, abbiamo raschiato inutilmente il fondo di questo lago e non abbiamo ricavato niente. Adesso viene lui questo turista sconosciuto a darci consigli. La forza del comando di quell’uomo però ci ha stregati. Le abbiamo tentate tutte possiamo tentare anche questa. Non si eravamo accorti che era Gesù. Il primo ad accorgersene sono stato io, sempre innamoratissimo; l’amore pulisce la vista sempre, ti fa guardare col cuore, trapassa tutte le nebbie e le oscurità. Quel che occhio non vede, cuore sente.

Eravamo ancora noi due, ancora il vecchio e il giovane. Stavolta io ho intuito e visto e gridato E’ il Signore. Pietro si è tuffato in mare e a nuoto ha raggiunto Gesù; chi nuota concentra tutte le sue energie verso la meta, i suoi muscoli, la sua intelligenza, la sua forza, il suo sguardo, tutto il suo corpo sono tesi verso il punto di arrivo. Quella nuotata l’ho vista come una immagine della nostra vita che tende a Gesù. I miei amici apostoli avevano impegnato tutte le energie per fuggirne, ma ora tutti tornavamo.

consapevole della fragilità

é fragile Pietro che arriva fino a vivere il tradimento; è devastante la figura di Giuda che Gesù mantiene nel numero dei dodici nonostante ne colga la grande difficoltà a seguirlo; sono fragili i figli di Zebedeo che non riescono ancora a capire che si lavora assieme, si ha tutti un’unica meta, che non ci sono raccomandazioni di sorta, ma comunione solo con Gesù.

capace di lunghi momenti di intimità

Quello che però ha dato il tono a tutto il collegio e che è determinante anche per il presbiterio è l’intimità con Gesù, lo stare con Lui, ascoltare la sua parola, contemplarlo in preghiera, gustare il suo dono, sentirsi dire sempre: io ho scelto voi, non voi me. Vi ho chiamato amici e lo sarete sempre se farete ciò che vi comando. Se non vi lavate i piedi a vicenda non avete capito niente di come dovete essere. Se non vivete la comunione, scordatevi di avere un minimo di efficacia nell’annuncio.

Noi siamo stati, e lo siamo sempre, oggetto della preghiera di Gesù al Padre. Essere una cosa sola nell’intimità della vita trinitaria, nella comunione definitiva con Dio, nella ricerca quotidiana della sua presenza nel mondo, nell’affidarsi alla intima opera dello Spirito Santo, della sua forza e consolazione.

6. Una nuova vita di relazioni radicate nell’interiorità.

Se alla parrocchia arrivano sempre più i resti di un naufragio, come dice F. Parazzoli[1], al prete è richiesta una grande missione che è quella dell’ascolto. L’ascolto è relazione, è far nascere domande e non dare sempre e solo risposte, è scommettere e non fabbricare botole per tombini. E’ sempre stata un dimensione del lavoro pastorale di un prete, oggi lo diventa ancor più non solo nel confessionale, cui la gente arriva di rado e solo dopo faticoso cammino, ma anche dentro le strade della vita, dentro i meandri della nausea e della perdita di valori, dentro il sussurro del mondo. E’ un modo nuovo di pensare i compiti istituzionali di sempre. Gli serve la molta dottrina imparata in seminario, ma la “parola” da dire è fatta di immersione amorosa nelle pieghe della vita, di intuizione che viene solo dal duplice ascolto continuo della vita e della Parola, dallo sguardo amoroso dei volti e dall’intuizione dei drammi e delle domande inespresse. Solo questa relazione riesce a trapassare la noia che ha chiuso non solo le orecchie di tanti uomini e donne, ma anche il cuore.

La nuova capacità di relazioni si deve instaurare anche con confratelli presbiteri. Nessuna parrocchia oggi è autosufficiente e nessuna pastorale può essere isolata, sia perché la vita cristiana è soprattutto una comunione, e questo è sempre stato vero, ma oggi se ne coglie meglio l’importanza, sia perché il presbiterio con il suo vescovo è il soggetto della pastorale. Essere preti, come essere cristiani, non è mai una avventura da single, ma un tessuto di relazioni di salvezza. Spesso il problema sta nella moltiplicazione di riunioni pastorali che sanno troppo di organizzativo e poco di ascolto e approfondimento di motivazioni, troppo di improvvisato e poco di progettuale, troppo di personalismi e poco di servizio gli uni agli altri.

Un’altra relazione che sta diventando sempre più determinante è quella col vescovo o col superiore

E’ una relazione che occorre costruire assieme. Abbiate pietà degli errori che il vescovo può fare, è un prete che desidera tanto farsi misurare da una comunità concreta fatta di volti, di persone, di storie come quella di ciascuno. Negli incontri tra il vescovo e i preti  si devono poter incontrare soprattutto la fede, la ricerca di Dio, la familiarità con Gesù. Ogni prete è in diocesi da una vita più o meno lunga, e il presbiterio fa parte del tessuto fondamentale dell’esperienza credente. Il vescovo viene, condivide e passa. Alla successione apostolica, i presbiteri offrono la continuità ecclesiale.

I preti hanno bisogno di sentirsi di qualcuno, di un’altra famiglia. La famiglia da cui si proviene, presto, si esaurisce; più si va avanti nella vita, più tende a scomparire. Il padre della nostra vita presbiterale è il vescovo, che non può essere ridotto a distributore di incarichi o di provviste, come si diceva una volta. E’ l’anello che unisce anche i presbiteri a Cristo nella successione apostolica. Di lui siamo collaboratori per il ministero presbiterale.

La nostra umanità poi è ricchezza e miseria. Tra di noi c’è l’entusiasta, il tapino, il traditore, il carrierista, il buono, l’ignavo. C’è tutta la nostra umanità che ci fa sempre dire con grande sincerità durante la messa: Non guardare i nostri peccati, ma la fede della tua chiesa.

Una relazione nuova, ma vera e profonda è quella con le famiglie

Si dice spesso che il rapporto fra preti e laici è sempre difficile. Se invece di dire genericamente laici diciamo e pensiamo alla collaborazione con le famiglie, molte cose si appianano e si fa maggior chiarezza. I due sacramenti che costruiscono e guidano la comunità cristiana sono l’ordine e il matrimonio: il prete e la famiglia. Non è solo e soprattutto il prete, ma sono ambedue assieme e non solo perché prestano servizi gli uni e materiale umano l’altro, ma per vocazione, per disposizione di Dio, per statuto ecclesiale e spirituale. La famiglia non è solo e soprattutto target di incontri formativi, ma soggetto costitutivo della comunità cristiana, attore di formazione, di corresponsabilità, oltre che di collaborazione. I genitori e la famiglia non possono essere chiamati e mollati a seconda dei bisogni o dei sacramenti dei figli. Questa osservazione ha molto importanza nel costruire le famose unità pastorali che diversamente diventerebbero solo concentrazione di servizi e non una nuova comunità missionaria.

Mons. Domenico Sigalini

 

[1] Cfr.  Per queste strade familiari e feroci: (risorgerò)  – Mondadori, 2004.

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