“Fides ex Audio” – Incontro di formazione per Diaconi permanenti, lettori, accoliti, ministri straordinari della comunione e operatori della liturgia

“FIDES EX AUDITO”

ASCOLTATE E VOI VIVRETE. IL DINAMISMO DELLA  PROCLAMAZIONE DELLA PAROLA

 

Iniziamo il nostro incontro, inserendoci nel cammino pastorale della nostra Diocesi, leggendo dalla Lettera pastorale, Chiamati a rispondere a pag. 35, per una rinnovata pastorale vocazionale,

quanto segue:

Quali sono i tratti decisivi per il rilancio della  pastorale vocazionale?

Scrivo a voi educatori: la pastorale vocazionale riparte dalla centralità della Parola di Dio, dall’incontro vivo con la Scrittura, sia a livello personale che comunitario. Perché non promuovere l’approccio alla Scrittura in chiave vocazionale? Si tratta di valorizzare la funzione “appellativa” della Parola! Essa, infatti, ci testimonia una storia di chiamati. Ci testimonia l’iniziativa di Dio che raggiunge l’uomo, perforando la ricerca di Dio da parte dell’uomo. L’accompagnamento educativo della comunità cristiana si attua nella Catechesi. Nell’ambito della sua missione evangelizzatrice, la comunità cristiana accompagna la crescita, dall’infanzia all’età adulta, e ha come sua specifica finalità non solo di trasmettere i contenuti della fede, ma di educare ad una “mentalità di fede”, di iniziare alla vita ecclesiale, di integrare fede e vita, per educare a rispondere alla chiamata di Dio.  La Liturgia è il luogo per eccellenza dell’educazione al rapporto con l’Invisibile, al senso del mistero, dello stupore e della rivelazione. Nella Liturgia della Parola siamo chiamati ad entrare nel mistero della Parola, per impulso della grazia e per mozione dello Spirito, più che per le vie della ricerca scientifica, che ne sono supposte. E’ la Liturgia che restituisce la Parola viva, colta quasi sulla bocca dell’interlocutore presente, lì si percepisce quasi il suono della voce. E’ lui infatti che parla quando nella Chiesa si leggono le scritture (cfr. SC 7). La presenza di Cristo raggiunge il suo vertice: la Parola è davvero un ascoltare Qualcuno. La celebrazione del giorno del Signore senza questo tipo di ascolto risulterebbe vuota, e un ascolto al di fuori del contesto ideale della Parola del Signore rischierebbe di mancare di quel contatto con Cristo Risorto e con lo Spirito che rende la Parola viva. Per questo la Chiesa, proclamando la Parola, vi legge le pagine che fissano i grandi momenti della salvezza, chiamando l’uomo a rispondere e a ravvivare la sua fede. Come le nostre comunità proclamano la Parola di Dio? Che attenzione e quale ministerialità si esprime intorno alla Parola proclamata? Il luogo della proclamazione e i Lezionari sono dignitosi? I lettori della Parola sono ben disposti spiritualmente e preparati per questo alto ministero? E’ necessario un impegno particolare perché le nostre chiese e le nostre liturgie favoriscano forti esperienze di spiritualità. Dalle riflessioni delle Zone pastorali emerge che le nostre liturgie sono ancora improvvisate, la partecipazione distratta, anonima, chiassosa nella proposta dei canti; soprattutto in occasione della celebrazione dei Matrimoni e delle Prime Comunioni, il rito liturgico rischia di essere ridotto a spettacolo e cerimonia. Quale dimensione vocazionale emerge dal nostro agire liturgico?

In  questo contesto si inserisce  la nostra riflessione.

Quale è il giusto significato del rapporto della Parola di Dio nel contesto liturgico?

            SCRIPTURA CRESCIT CUM LEGENTE l’espressione usata più volte dall’ultimo dei Padri della Chiesa in Occidentale, Gregorio Magno, il quale se ne serviva per riassumere un atteggiamento interpretativo e già antico al suo tempo.

            Tale espressione suppone ovviamente la convinzione che il momento celebrativo liturgico sia o uno dei modi con i quali crescit scriptura o addirittura il modo per eccellenza, o per lo meno il culmine della crescita stessa.

            Ma se modifichiamo la stupenda espressione di San Gregorio Magno, valorizzandola maggiormente nella direzione indicata dal grande maestro di preghiera: SCRIPTURA CRESCIT CUM ORANTE. La preghiera liturgica non potrebbe neppure aver luogo e saremmo costretti all’afasia se non avessimo la possibilità di “dire” attraverso la Parola e la Parola non avrebbe la forza attualizzante che le pertiene se non fosse ritradotta nei testi liturgici.

Ecco allora due movimenti: dalla Parola alla liturgia, ma anche: dalla liturgia alla Parola-, dalla Parola nasce la liturgia, ma anche: dalla liturgia è generata la Parola.

All’origine di Israele non stanno le Scritture, ma sta l’evento fondante, un’esperienza radicale vissuta da uomini e donne attraverso la quale Dio ha parlato, ha fatto conoscere se stesso. L’evento dell’esodo è paradigmatico, ma è soprattut­to fondante, è insieme l’evento della creazione del popolo di Dio e l’evento salvifico della sua liberazione dalla schiavitù dell’Egitto.

Innanzitutto c’è un evento storico vissuto da uomini e donne che è l’uscita dall’Egitto, lotta contro gli egiziani e fuga dal paese di schiavitù, di cui il testo dà testimonianza: «I figli di Israele partirono da Ramses verso Succot in numero di sei­centomila uomini capaci di camminare senza contare i bambi­ni e con loro una grande massa di gente promiscua partì con greggi e armenti in grande numero» (Es 12,37-38).

Ma subito dopo noi abbiamo l’interpretazione dell’evento storico e la sua collocazione nella storia di salvezza: «In quel giorno il Signore fece uscire i figli di Israele dal paese di Egitto, ordinati secondo le loro schiere» (Es 12,51).

Nell’evento dell’uscita dall’Egitto il popolo dei salvati, sotto la guida del profeta Mosè, giunge a riconoscere l’azione di Dio che lo libera e lo salva, giunge cioè all’ascolto di una Parola che origina la sua fede in Jhwh. L’interpretazione dell’evento genera perciò una Parola, un annuncio che è il fon­damento della fede-adesione al Signore che ha tratto fuori il popolo dall’Egitto e questa Parola obbliga Israele ad una cele­brazione dell’evento, celebrazione obbediente e derivante dalla Parola, ma anche rigenerante la Parola stessa per cui questa sa­rà detta e ripetuta, cantata e trasmessa di generazione in gene­razione attraverso la liturgia del popolo del Signore. In tal modo si apre un’accessibilità del passato al presente e l’evento fondante è riattivato come realtà del presente per il popolo santo. In Es 15,21 si testimonia subito la celebrazione dovuta a Maria e alle donne: «Cantate al Signore perché ha mirabilmen­te trionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare»; ma anche Mosè e gli israeliti cantarono un canto al Signore facendo esplodere la lode, la confessione di fede, il ringraziamento (Es 15,lss) e l’antica confessione di fede collocata nel rito della presentazione delle offerte (Dt 26,5-9) ridirà nuovamente la salvezza trasmessa come memoriale nella celebrazione. Dall’e­sperienza radicale (evento storico pubblico) all’interpretazione dell’evento (la Parola), alla celebrazione dell’evento (la litur­gia). Il Dio della storia parla nella storia, è riconosciuto nella storia e la sua celebrazione sta nella storia, determinando la storia. Le espressioni della fede nella vita e nella celebrazione sono non solo strettamente con­nesse e complementari, ma si giustificano l’una nell’altra. Lo stesso paradigma evento, interpretazione dell’evento, celebra­zione dell’evento si ritrova in molti altri testi dell’Antico Testa­mento, ma anche nel Nuovo: propongo qui soltanto l’evento fondante la fede cristiana nell’incarnazione del Verbo e nella sua Pasqua.

 In Lc 2 è narrato l’evento storico della nascita di un bambino: «Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia» (Lc 2,7), ma l’interpretazione dell’evento data dall’angelo diventa Parola per i pastori: «Oggi vi è nato nella città di David un salvatore, che è il Cristo Signore!» (Lc 2,11). Alla rivelazione risponde poi la celebrazione delle schiere celesti e dei pastori: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 3,14) proclamano le schiere celesti «lodando Dio» (ainoùnton tòn theón, Lc 2,13), mentre dei pastori si dice che «se ne tornarono glorificando e lodando Dio (ainoùntes tòn theón) per quel che avevano udito e visto» (Lc 2,20). La stessa dinamica evento-interpretazione-celebrazione si ritrova in Lc 24 nella presentazione dell’evento centrale della nuova Alleanza: la Pasqua. In Lc 24,2 c’è l’evento costituito dal ritrovamento della tomba vuota: «(Le donne) trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Si­gnore Gesù»; segue l’interpretazione dell’evento che è data dai due uomini: «Non è qui, è risorto» (Lc 24,6) e infine troviamo la celebrazione embrionale dell’evento che sarà espressa dalla comunità radunata: «Veramente il Signore è risorto ed è ap­parso a Simone» (Lc 24,34).

E’ significativo che questo paradigma si ritrovi in molti cantici dell’AT e del NT: non mi dilungo, ma mi pare chiaris­simo che la Parola si fa celebrazione, eucologia, per necessità intrinseca, a motivo della comune fonte da cui sono generate e la Parola e la liturgia. La parola di Dio tende di per se stessa verso l’azione liturgica e la liturgia procedente dalla Parola è l’atto in cui si rivela la presenza divina ma questa presenza ef­ficace suggerisce la Parola. Non che la liturgia sia il fine della Parola ma è il luogo di questo misterioso passaggio di Dio, il luogo in cui Dio si manifesta al suo popolo.

            Qualche elemento per fondare la proclamazione della Parola di Dio.

Nell’Assemblea Liturgica la Chiesa trova, il segno rituale espressivo del suo Mistero.

Nel radunarsi insieme c’è qualcosa di più che una esigenza di ordine pratico.

C’è l’epifania della Chiesa, ma soprattutto la Chiesa trova lì la sua attuazione più piena, perché in quella Assemblea locale c’è la Chiesa universale.

Questa presenza di Cristo nella Parola è sottolineata nel Rito dagli onori resi all’Evangelario: il libro è preso sull’Altare, (su cui viene collocato il corpo e sangue del Signore), c’è la processione all’Ambone con il libro, si benedice l’Assemblea, si bacia il libro, lo si accompagna con i ceri, mentre si canta l’Alleluia. E’ come una apparizione del Signore in mezzo all’Assemblea. Bisogna recuperare l’esperienza di questa presenza del Risorto, senza la quale non si raggiungerà il senso della Parola Viva.

La comunità cristiana si stringeva intorno a Cristo invisibilmente presente: da questa presenza sgorgava la gioia che si sente ad esempio vibrare nelle preghiere eucaristiche della Didachè. Ma è solo in questo clima che hanno valore la parla di SC 7. “E’ ben lui che parla quando nella Chiesa si leggono le scritture”.

Allora attraverso la lettura si ascolta qualcuno.

Così nell’atto liturgico, rivive tutta l’opera biblica: vi si condensano le dimensioni dell’Economia divina, dalla Creazione alla parusia. La celebrazione è insieme memoriale e profezia, storia di ciò che si è compiuto e di quella che deve compiersi in noi ora e di ciò che si compirà alla fine dei tempi.

Ma il segno sacramentale che non cambia non è in grado di esprimere completamente tutta la ricchezza del Mistero che rende presente. Per questo la Chiesa vi legge le pagine che fissano i grandi momenti della salvezza.

La chiesa non “rilegge”, celebra una Parola di cui vive, perché una commissione con il Rito, essa si incarna e continua a compiersi nel suo seno.

L’azione storica di Cristo è resa misteriosamente presente in me, oggi, perché io presbitero sia toccato dalla sua forza salvifica. La lettura inserita nella celebrazione viene così a partecipare del carattere di proclamazione che è proprio del Prefazio.

E’ il genere biblico della confessione, nel senso che la Scrittura dà a questo termine: proclamazione nella lode dei mirabilia Dei, accettazione gioiosa e riconoscente del disegno divino, dei suoi interventi nella storia della salvezza, di cui ogni lettera rivela un episodio o un aspetto.

Con il testo Sacro ci vengono incontro sillabe pre­ziose, segno che Qualcuno ci ha cercato, ci ha trovato. Sillabe che ripetute notte e giorno fanno ritrovare il cammino dell’amore, cammino che con la fretta non s’accorda. Sillabe che chiedono la sosta dell’ascolto, del silenzio, della preghiera: concretamente quel sosta­re che è la celebrazione.

Le sillabe del Lezionario sono davvero preziose perché trasformano la vita di chi, rinnegando l’idolo della fretta, culto moderno ma incompatibile con l’amore, nello scorrere del tempo sempre uguale, inve­ste la voce, la mente, il cuore in questo dialogo con l’Eterno.

 Cosa rappresenta, allora,  il nostro Lezionario?

Certamente la Rivelazione è più ampia della Scrit­tura e ne è il fondamento. Ma c’è anche un preciso senso e valore della Scrittura come libro. Si potrebbe quasi affermare che il libro è un evento nella storia della Rivelazione. Il testo scritto infatti è sempre chia­mato testo “sacro”, traccia di Dio nella storia, ancor prima che se ne conoscano i contenuti.

In che senso? Il testo è certamente una fissazione, ma proprio in quanto tale esprime e realizza una dupli­ce trascendenza: trascende l’io dell’autore e trascende il suo tempo.

Quando il testo è scritto l’autore se ne stacca per consegnarlo, per metterlo nelle mani di altri; il lettore di ogni tempo può incontrarlo. La fissazione scritta è un’offerta, una consegna ad altri. Non solo. Anche il destinatario, il lettore del libro fa un’esperienza di tra­scendenza: percepisce-che il libro è stato prodotto pri­ma di lui e si sente rimandato a un’anteriorità.

La fissazione scritta opera una seconda trascenden­za: sottrae il testo alla prigionia del presente; in quanto permette di accedervi in ogni tempo. Si potrebbe dire che contemporaneamente afferma e abolisce il tempo. Il testo scritto narra di avvenimenti passati, ma a dif­ferenza di ciò che narra dura nel tempo. La storia che il libro racconta si è conclusa prima di esso o al suo apparire; la storia del libro, invece, comincia con lui. Nella oralità la parola è legata al presente, nella Scrit­tura sfida il tempo: la Scrittura impone la propria per­manenza contro il divenire della storia. In tal modo è posto a disposizione di tutti e di tutte le epoche quello che è stato di qualcuno e di un tempo circoscritto. Ac­cade una “disseminazione”: il testo scritto continua a produrre effetti anche imprevisti, può incarnarsi in di­verse situazioni. Ecco l’effetto del libro scritto: tutto può aver luogo oggi, ma ciò può accadere solo nel­l’uso, quindi nell’oggi del lettore e dell’uditore.

Il Lezionario: un testo per l’azione rituale

II Lezionario, scrittura ritagliata in sillabe preziose, invita all’incontro con l’origine eloquente, perché gra­ziosa e generosa, cioè invita alla relazione con Dio, autore della rivelazione. Tale incontro si realizza nel­l’atto liturgico della proclamazione della parola, in quanto atto corrispondente alla natura della rivelazione stessa. Il processo infatti che ha portato alla fissazione scritta ha avuto il suo inizio nella grazia dell’Evento, ma è stato reso possibile dal riconoscimento di fede e dalla narrazione testimoniale. La celebrazione della parola, mediante l’atto della proclamazione e l’accoglienza riconoscente, decristal­lizza la fissità della Scrittura e in tal modo rende possi­bile la relazione con l’Evento originario. Quando nella liturgia la parola è proclamata essa risuona e così per­mette a chi l’ascolta di custodire l’emozione dell’even­to e di aprirsi, mediante la risposta riconoscente, al­l’ esercizio della gratitudine. Il testo scritto custodisce l’inizio, l’atto liturgico della proclamazione ne libera il lato promettente, impedisce che la generosità e la gra­ziosita dell’origine siano trattenute.

            La proclamazione è il momento in cui il narratore scompare, mentre la sua voce lascia risuonare qualcosa che proviene dall’origine; gli uditori, raccolti nel silen­zio, dimenticano se stessi nell’ascolto nudo. Una paro­la appare finalmente come non prodotta da nessuno, ma destinata a tutti e per tutti abbraccio di vita. Qual­cosa del nostro radicamento originario traspare, e l’im­maginazione si apre. Si capisce perciò la necessità e l’urgenza di supera­re la tentazione diffusa e ricorrente di ritenere insigni­ficanti i passaggi attraverso le forme della scrittura e della proclamazione, con l’illusione di vivere in modo immediato il rapporto con l’Evento originario.

            La forma rituale, nel nostro caso la Scrittura pro­clamata, non è uno strumento da attraversare per giun­gere al mondo di cui si parla, non è uno strato estrinse­co sovraimposto, ma concorre in modo insostituibile all’istituzione dell’evidenza stessa della fede. I passag­gi dalla parola viva alla Scrittura e di nuovo alla parola proclamata operano una “trasgressione” che in quanto tale ha funzione rivelante. In ogni passaggio accade in­fatti come un’esplosione del livello precedente, così che un mondo nuovo si dispiega. Da qui la insensatez­za di tralasciare il testo dopo che si è colto il mondo nuovo da esso dischiuso. Occorre sempre passare attra-verso il testo. La dimensione originaria infatti non è dietro-oltre il testo, ma dischiusa davanti ad esso, an­che se non è risolta in esso È possibile dunque accedere all’evento originario non nonostante il testo, ma attraverso il testo.

Come celebrare la Parola?

La parola nella liturgia è un evento di grazia: non è il preludio al sacramento, ma è sacramento essa stessa, ma non può essere avvenimento di salvezza se non è celebrata. La celebrazione infatti restituisce alla paro­la-scrittura la sua natura originaria di parola-evento. È il contesto celebrativo che permette alla scrittura di di­venire ancora, qui e ora, parola di Dio viva ed efficace. Ma, quando la parola nella liturgia è realmente ce­lebrata? Quali sono gli elementi che fanno di essa una autentica celebrazione?

La proclamazione ministeriale

            La parola nella liturgia non deve essere letta, ma “proclamata”. Affermava già Romano Guardini:

            La Liturgia non vuole che la Parola sia ridotta alla lettura: basterebbe distribuire libretti-foglietti e la li­turgia sarebbe come un club del libro. Non deve esse­re assolutamente così. La Parola deve salire alle lab­bra dal Libro Santo, deve risuonare nello spazio ed essere ascoltata da orecchie attente e cuore aperto. La Parola solo letta è una parola che manca di qualcosa, è priva del suo carattere concreto e vivente: si trascu­ra un carattere essenziale dell’avvenimento liturgico.

È l’atto della proclamazione che suscita l’avveni­mento, che crea le condizioni per l’incontro, per la re­lazione fra il credente e il suo Signore.

            La Parola proclamata infatti penetra nell’orecchio del credente-convocato che, perciò, istintivamente cer­ca Colui che parla, cerca la relazione, l’incontro, prima ancora dei singoli contenuti. L’atto di proclamazione stabilisce un io che si indirizza a un tu, a un voi, e crea un noi. È in se stesso chiamata, appello, provocazione. Impedisce di fermarsi al livello della informazione.

Ma è necessario accedere a un livello ancora più radicale: l’avvenimento deve essere riconosciuto come opera di Dio. La Parola deve essere riconosciuta come Parola di un Altro proveniente dall’Alto. Anche questo può essere realizzato mediante l’attenzione alla dimen­sione “celebrativa”. Cioè: proclamazione sì, ma pro­clamazione ministeriale. Il lettore deve proclamare in modo “distaccato”, come uno che dice quello che è impossibile dire, come uno che offre quello che è im­possibile dare. Il lettore vive così un duplice servizio: a Dio, autore della Parola; alla Assemblea, destinataria della stessa Parola. Come ci si dispone a questo tipo di proclamazione? Con il ricreare un “ambiente di teofania”. Quando ci si avvicina alla proclamazione della Scrittura, ci si trova in presenza di un evento che si può paragonare alla esperienza del roveto ardente: il fuoco della Parola ar­de nei testi degli evangelisti, di Paolo, dei profeti; e lettori e ascoltatori, anziché girargli intorno per vedere come funziona, sono chiamati a togliersi i sandali. Concretamente, questo avviene anzitutto con una pre­ghiera di invocazione allo Spirito affinchè la “teofania avvenga”, affinchè Dio nella sua libertà faccia risuona­re la sua Parola nella parola dei suoi testimoni.

            Noi cattolici possiamo, in questo, imparare da una buona tradizione della Chiesa riformata che, prima della proclamazione, invita a pregare così: Chiedo a Dio la grazia del suo santo Spirito, perché la sua Parola sia fedelmente proclamata ad onore del suo Nome e a edificazione della Chiesa, e sia accolta in umiltà e obbedienza.

            Se si pongono in atto queste condizioni rituali, quando si proclama la Parola succede davvero qualco­sa di fondamentale: una specie di risurrezione della Scrittura, che si alza per prendere la Parola. Questo evento è possibile per l’intervento dello Spirito Santo invocato da colui che proclama.

Il silenzio raccolto e accogliente

            La Parola, proprio perché di Dio, è sempre parola che va al di là delle previsioni, delle attese, spesso contesta e contrasta le nostre deduzioni e impostazioni. È Parola che interseca la vita e la contraddice, perché portatrice di una luce più ampia.

Di fronte ai diversi e misteriosi modi con cui Dio si presenta, noi rimaniamo senza “voce”, senza “nomi”. Come Elia, che conosceva la voce del vento, del fuo­co, dell’uragano, ma non la voce del silenzio. Il silenzio custodisce la novità, la dismisura della Parola. Come sospensione della Parola, infatti, il silen­zio non è “assenza della parola”, ma parola che prende le distanze dall’uso ordinario. Proprio per questo crea le condizioni per poter accogliere la Parola originaria. Con il silenzio si confessa di non sapere dire il Nome, si deve ancora imparare a parlare e perciò ci si mette in ascolto di chi sa già parlare, cioè della Parola originata.

            Così, il silenzio diviene casa capace di ospitare una Parola nuova perché crea nel soggetto quell’apertura che lo rende disponibile ad accogliere una Parola che non è già tra le parole, ma è una Parola Creatrice. Co­sì, quando non solo una parte della comunità tace per lasciare parlare l’altro, ma l’intera comunità tace, può avvenire l’ascolto-riconoscimento di un Altro rispetto alla comunità tutta. Davvero nel silenzio « ciò di cui non si può parlare comincia a dirci qualcosa ».

            Infine, il silenzio libera dalla tentazione di annac­quare la Parola, di appiattirla sui nostri schemi e sui nostri bisogni. Impedisce anche risposte o commenti falsamente edificanti, percorsi troppo brevi che non si lasciano attraversare dalla scandalosa contraddizione che è intrinseca ad una Parola che viene dalla Sapienza della Croce e non dalla sapienza dei discorsi umani.

La risposta orante

            La Parola di Dio, prima di essere spiegazione o de­nominazione, è vocazione, è appello. È invito ad aprire il proprio essere ad una possibilità diversa.

Al Dio che interpella, il popolo risponde, ma nella liturgia il rispondere autentico è un “corrispondere”. La liturgia sa che la Parola chiama a vivere una esi­stenza impossibile, perciò la liturgia non invita subito al fare, ma a partecipare ad un’opera già in corso. È per questo che, oltre al silenzio, la Parola celebrata fa appello ad un’altra singolare modalità dell’accogliere-raccogliere: il dialogo responsoriale. Per rispondere alla chiamata di Dio siamo in primo luogo chiamati a tra­sformare il nostro parlare nella lingua che Dio ci ha ri­volto. È questa la vera natura della preghiera: parola umana plasmata dalla Parola proclamata. Ed è questa la prima risposta alla Parola. Si tratta di una risposta singolare perché corrispondente alla natura della Parola: ma è la condizione perché la successiva e conseguente risposta esistenziale sia rispettosa della differenza della proposta di Dio.

Salmi, acclamazioni, canti, intercessioni che ac­compagnano o seguono la proclamazione della Parola sono la espressione-attuazione rituale di una verità fondamentale: la Parola si ascolta veramente e soltanto nella risposta, non si da infatti rivelazione senza rela­zione. La corsa della Parola si conclude nella risposta. Ma perché il rispondere non si trasformi in un mortifi­care la Parola, la risposta più vera, quella corrispon­dente alla Parola, è la preghiera che nasce dalla Parola stessa.

            Qui si da l’evento di una relazione che, però, non interrompe il fluire sempre nuovo della rivelazione. Come non si da rivelazione senza relazione, così non si da vera relazione senza lasciare aperto lo spazio a sempre nuove rivelazioni. E ciò si attua nella Parola pregata, cantata, acclamata, venerata. Quando il po­polo si raduna, Dio parla. Anche il popolo parla, ma in risposta a ciò che Dio gli ha detto. Grazie a questa Parola che precede, la risposta può essere una Parola vera.

Esiste uno strettissimo rapporto, un rapporto di re­ciprocità-connaturalità fra rito e Parola: la celebrazio­ne permette alla Parola di divenire Avvenimento; la Parola permette alla celebrazione di non essere né una ricerca a tentoni, né una cupidigia, né una pia illusio­ne. Il rito senza la Parola diventa vago, incomprensibi­le, e può scadere nel ritualismo; la Parola senza rito di­viene falso moralismo, vuoto didatticismo.

Per concludere: non soffocare la Parola!

            La tendenza oggi più diffusa è di soffocare il rito con molte parole. Le parole appaiono prepotenti, arro­ganti e invadenti. Siamo alla ricerca di parole chiare, spiegate. Il rito viene respinto indietro a favore della parola facile, delle istruzioni, del commento didascali­co, dell’esortazione.

            Ma, in tal modo, non si mortifica per via di soffo­camento ciò che si vorrebbe salvare, ossia la celebra­zione della Parola?

            E’ altamente dannoso “scaricare” sulla liturgia le nostre carenze formative (etiche e catechistiche) e per­ciò voler “caricare” la liturgia di compiti che non le competono e rischiano di snaturarla.

            La liturgia della Parola deve prima di tutto rimane­re “liturgia” per poter essere fonte di vita nuova. Quando viene vissuta come “occasione” per fare tutt’altro, si perdono tutte le occasioni.

            E poi esiste la necessità di “lasciare spazio” agli angeli e lasciare che essi volino ancora nel nostro cielo, con il loro canto e con le loro parole che hanno conservato il sapore e la musica dell’Unica Parola.

In sintesi:

  • La Parola celebrata ci inserisca tra quei servitori e profeti che compresero il mistero di Dio e l’ hanno annunciato con coraggio.
  • La Parola proclamata ci assimili a Cristo nel pensare e nell’agire; ci renda “lettera di Cristo…scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (2 Cor 3,3)
  • La Parola ascoltata meditata e pregata che non può essere “incatenata”, (2 Tm 2,9) è la vera protagonista del cammino della Chiesa: le dia energia vitale e slancio al suo cammino missionario.
  • La Parola amata e custodita porti in noi frutto, si rompa il guscio del caldo seno materno, e si permetta agli altri di poter attingere a quella stessa Parola che ci ha trasformato finalmente il cuore.

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