In Gesù Cristo il nuovo umanesimo – Sintesi diocesana dei 5 verbi

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CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE
FIRENZE 2015
“IN GESÙ CRISTO IL NUOVO UMANESIMO”
SINTESI DIOCESANA DELLE RELAZIONI
DELLE OTTO ZONE PASTORALI

INTRODUZIONE

Un invito, quello del Convegno di Firenze, «a prendere in consegna l’idea matrice del Convegno sintetizzata nel suo titolo: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Il tema vorrebbe sottolineare il nesso tra Cristo Gesù e “il nuovo umanesimo”: è Lui il tema centrale e in Lui si rintraccia non semplicemente tutto ciò che è cristiano, ma tutto ciò che è autenticamente umano. Il nuovo umanesimo, in tal senso, è l’orizzonte in cui ogni vera concezione e ogni buona esperienza dell’esser uomini viene sintetizzata e armonizzata. “L’appello all’umano […] chiama in causa valori grazie ai quali e per i quali l’uomo formula le sue rivendicazioni, affronta le sue preoccupazioni, vive le sue speranze: l’uomo inteso, però, non solo nella sua essenza, bensì nella sua storicità, e più esattamente nella sua storia reale. ‘Non c’è niente che sia umano che è estraneo al cristianesimo’ diceva il Beato Paolo VI; e San Giovanni Paolo II ricordava spesso che ‘l’uomo è la prima via che la Chiesa percorre nel compimento della sua missione’ (Invito).

Se l’Umanesimo quattrocentesco aveva posto al centro del mondo l’uomo senza Dio, l’Umanesimo del nuovo millennio porrà al centro dell’universo l’Uomo in cui Dio si è incarnato, insieme all’uomo immagine di Dio, all’uomo soffio di Dio, all’uomo che si lascia toccare da Dio e che si lascia plasmare da Lui.

Il nuovo Umanesimo, attraverso la bellezza del Vangelo e la testimonianza totale e convinta di laici e consacrati, educherà le donne e gli uomini di oggi a costruire dove non c’è nulla come dove c’è qualcosa, a realizzare relazioni nuove e significative fondate sulla gioia, la gratuità e l’accoglienza, a vivere quella pace che non è solo assenza di conflitti, ma tessitura di relazioni vere, profonde e libere, sulle note del nostro tempo, con le quali comporre la musica senza tempo del Signore risorto.

Si tratta di fare un discernimento comunitario che richiede una Chiesa “in uscita” e gioiosa, che abita il quotidiano delle persone e che, grazie allo stile povero e solidale, rinnova la storia di ciascuno, ridona speranza e riapre la nostra vita alla festa della risurrezione. In questo modo gli ambienti abitualmente abitati, come la famiglia, la scuola, la fabbrica o l’ufficio, la strada, la città, il creato, l’universo digitale e la rete, diventano quelle periferie esistenziali significative verso cui indirizzare la missione della comunità cristiana.

La nostra Chiesa diocesana di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo ha accolto l’invito della Chiesa italiana a coinvolgersi nel cammino verso il Convegno di Firenze 2015, secondo uno stile sinodale, seguendo le indicazioni della Traccia che propone cinque azioni. Sono verbi che esprimono il desiderio della Chiesa di contribuire al dischiudersi di un’ umanità nuova, e indicano la direzione da intraprendere: uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare.

L’intrecciarsi delle cinque piste farà emergere la costitutiva dimensione missionaria della Chiesa di oggi.

USCIRE

La fede in Cristo è salvezza ed è un dono da vivere per comunicare anche agli altri la nostra stessa felicità. Per questo la Chiesa, necessariamente, non può non essere missionaria, non può non annunciare il Vangelo per promuovere un nuovo umanesimo e “dimostrare che in Cristo l’uomo raggiunge il compimento della sua vocazione e felicità”. Lo Spirito Santo, scendendo sui discepoli rinchiusi nel Cenacolo dissipò in loro la paura, infondendo in loro la forza di “uscire”, per annunciare Gesù risorto. Oggi i cristiani sembrano chiusi in loro stessi, paurosi o timorosi nel manifestare la loro fede.

L’azione ecclesiale nella sua peculiarità segue, necessariamente, la sua natura pastorale, volta ad aiutare e formare il popolo di Dio nella sua totalità. Molti fedeli laici prestano la loro azione per animare le funzioni liturgiche, per curare canti, per seguire ed educare i giovani nell’oratorio, per preparare i ragazzi alla Prima Comunione e alla Cresima e per formare sposi cristiani mediante itinerari di preparazione al matrimonio cristiano.

Vengono riconosciuti importanti e formativi i Consigli parrocchiali pastorali e degli affari economici, perché si ritengono spazi reali per la partecipazione dei laici nella consultazione, nell’organizzazione e nella pianificazione pastorale.

Straordinario, già oggi, nelle nostre realtà ecclesiali il coinvolgimento dei fedeli laici, che, oltre ad essere stimolati ad un sempre maggiore impegno nella missione che il Signore affida loro, vengono seguiti, accompagnati e interpellati dal “pastore” nella ricerca del bene della Chiesa.

«Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15; Mt 18, 20). È Gesù stesso che ci esorta ad aprici all’altro, ad “uscire” dalle nostre case, dalle nostre comodità per dare vita, pieni di entusiasmo, ad un’autentica missione evangelizzatrice. L’incontro con Lui è festa vera solo se vissuto alla luce della condivisione e della fraternità, ma niente di questo si può vivere se rimaniamo chiusi in noi stessi. “Uscire e raggiungere le periferie per diffondere il Vangelo” dice Papa Francesco, rivolgendosi soprattutto ai giovani. Il disfacimento dei valori e lo sgretolamento delle istituzioni, in particolare della famiglia, lasciano un vuoto che, purtroppo, sta favorendo il rafforzamento di un pericoloso pessimismo. L’unico modo per vincere questa cupa situazione dominata dall’imperante relativismo è abbandonare gli schemi comunicativi tradizionali, nell’intento di dare fondamento al nostro essere credenti, nel segno della più autentica opera evangelizzatrice.

È ora di “uscire” dalle certezze di sempre, sull’esempio di Abramo (Genesi 12,1), e seguire l’esortazione dello stesso Papa Francesco: «Uscite dal vostro nido verso le periferie dell’uomo e della donna di oggi! Perché questo sia possibile, lasciatevi incontrare da Cristo. L’incontro con Lui vi spingerà all’incontro con gli altri e vi porterà verso i più bisognosi, i più poveri».

Ma chi sono oggi i poveri? Non sono solo coloro ai quali la vita ha riservato, purtroppo, un destino segnato da dolori e sofferenze, causati dall’impossibilità di avere beni anche di prima necessità. La povertà connota anche quelle persone che vivono in una condizione di miseria spirituale, dovuta magari ad un distacco dalle regole etiche, religiose e morali.

Papa Francesco, continuando la sua opera, spinge i laici a uscire, a seminare tra la gente; i semi vanno sparsi ovunque, a mani piene, con la gioia e soprattutto con coraggio e tanto amore. Spargere sulle strade larghe e asfaltate, sulle piazze ampie e rumorose, sui veicoli bui e silenziosi, senza precludere a nessun seme la possibilità di germogliare e inebriare con il profumo della carità e della misericordia quegli spazi inospitali, dove dominano individualismo e prevaricazione. In un società in continua evoluzione, tanti sono i problemi che la Chiesa è chiamata ad affrontare. Leggere i segni dei tempi diventa sempre più difficile quando imperano incertezza e confusione. Una riflessione attenta mette in luce il nostro essere cristiani tiepidi, affaticati, stanchi. Se solo riuscissimo ad ascoltare il silenzio, a sceglierlo come nostro compagno di viaggio, la nostra vita potrebbe cambiare: è nel silenzio che si apre la dimensione divina e si entra in contatto con l’Eterno. Oltre le nostre mura domestiche c’è chi brancola nel buio del proprio egoismo, nell’ombra della schiavitù. Chi ha scoperto la bellezza di appartenere a Cristo lo sa: non è la ricerca affannosa dei beni e la conquista di essi a riempire i cuori, ma la certezza dell’amore di Dio, che continua ad amarci, a volerci bene, nonostante le nostre posizioni e la nostra intransigenza.

Chi gode della vocazione sacerdotale deve aver imparato, e deve imparare ogni giorno, a “stare” con Gesù e ad essere un discepolo al servizio dei fratelli, secondo l’esempio del Maestro. E’ vero che tante volte il prete è messo nella situazione di occuparsi delle cose che, normalmente, spetta ad altri di risolverli. Per non essere messo in tale situazioni, per quanto possibile, deve scegliere dei collaboratori con cui dividere i compiti ed il peso della gestione comunitaria. Condividendo le responsabilità con i suoi collaboratori, il prete, alterna i tempi di preghiera, di meditazione, di lettura personale, di celebrazioni, con i tempi di dialogo e d’ incontro con le varie fasce della sua comunità.

Deve essere uomo accogliente, che sa venire incontro alle persone con la sua dolcezza, con la sua affabilità e disponibilità. Lontano da lui la mentalità burocratica. Tutti i preti devono “uscire” da una mentalità del genere. Deve essere uomo di ascolto, specialmente con le persone che soffrono di solitudine, con gli anziani, con i malati. Deve saper curare con amore le ferite. Deve avere il coraggio di sporcarsi le mani. C’è bisogno di preti che siano appassionati dei servizi più umili e che non si vergognino di sporcarsi le mani. Deve essere appassionato di Gesù. Prima di essere al servizio degli altri, il prete deve essere educato, amato, plasmato da Cristo. I fedeli si accorgono quando il prete non prega, non si prepara, non sta bene. Quando il suo vivere è distaccato dal suo predicare e sono stanchi di apparenze e di tante cose di facciata. Le nostre comunità sono chiamate ad uscire da schemi precostituiti a cui si è abituati, ad abbandonare quel “si è sempre fatto così’ che ci lega ad abitudini, tradizioni devozionistiche che non comunicano più nulla ai giovani, alle famiglie, ma soprattutto ai lontani. Gli incontri di catechesi che vengono proposti spesso sono ancora ancorati a schemi scolastici e finalizzati al sacramento. E’ necessario articolare dei percorsi di accompagnamento dei ragazzi per una crescita e maturità di fede che possano stimolare la ricerca personale e spirituale. Anche l’ubicazione delle parrocchie arroccate nei centri storici di paesi quasi disabitati e la mancanza di locali in cui i ragazzi si possano ritrovare, non facilitano la partecipazione e lo spirito di aggregazione. Si ribadisce la necessità di puntare, quindi, ad una pastorale integrata che tenda a mettere insieme le risorse umane e spirituali e progettare linee pastorali comuni alzando lo sguardo dal proprio orticello in un confronto con parrocchie e comunità vicine per aiutarsi e stimolarsi a vicenda in modo che pur nelle varietà e sfaccettature delle diverse comunità ci si possa sentire parte di un’unica grande famiglia che è la Chiesa.

ANNUNCIARE

Nelle Comunità cristiane, in questo momento di disagi sociali, di crisi, non solo economica ma anche spirituale, diventa urgente riflettere sui modi e sui tempi di annunciare il Vangelo. C’è bisogno di ridare espressione visibile alle parole che annunciamo, dando senso alla fede. Chi vive e testimonia la fede in prima persona deve sapersi donare agli altri attraverso un vita autentica per entrare in empatia con quanti incontra sulla sua strada. Un’esperienza significativa nelle Parrocchie è quella dei centri di ascolto della Parola, soprattutto quando i laici insieme con il sacerdote si impegnano ad animarli. L’annuncio richiede relazioni umane autentiche e dirette per accompagnare ad un incontro personale con il Signore. Il fine è di risvegliare le domande insopprimibili del cuore sul senso dell’esistenza, e indicare la via che porta a Colui che è la risposta, la Misericordia divina fatta carne, il Signore Gesù.

Da questo impellente bisogno di una evangelizzazione sempre rinnovata, scaturisce l’esigenza di reinventare il linguaggio cristiano. E’ solo questo il principio che anima il progetto diocesano della “Pastorale Digitale”. Significa mettere le proprie competenze di comunicatori a servizio di un fine comune: raggiungere non solo chi è lontano fisicamente e geograficamente ma, soprattutto, chi è lontano di cuore. La comunicazione digitale può aiutarci ad “uscire” dall’isolamento. In tale prospettiva il mezzo virtuale diventa un costante riferimento, incarnando lo strumento più attuale per “uscire” allo scoperto e dare testimonianza, con immagini, articoli, rubriche di ciò che Dio fa quotidianamente nella vita di ognuno.

Accrescendo il desiderio della condivisione (come già avviene con i social network) e l’incremento dell’informazione, si sviluppa quel senso di “prossimità”. La “Pastorale Digitale” è segno moderno e concreto della necessità di “uscire” dai metodi tradizionali di trasmissione della fede, cercando di ampliare gli orizzonti grazie a una comunicazione costruita su misura per ogni soggetto che si vuole raggiungere. Canali e modalità comunicative trovano nella rete il loro punto di partenza per raggiungere efficacemente il cuore delle persone, trasmettendo e diffondendo la parola di Dio. E’ la sfida avvincente di incontrare Cristo e fare la stessa cosa che fa lui: incontrare gli altri. L’ambiente digitale rappresenta “un dono di Dio”, è il mezzo che ci aiuta a raggiungere l’umanità, fatta di uomini e donne che cercano salvezza e speranza. Nell’ambiente digitale, il Vangelo può varcare le soglie del tempio e “uscire” incontro a tutti. Comunicare oggi non significa più semplicemente trasmettere un messaggio, ma “condividerlo”, renderlo parte di ciascuno di noi. La rete ci consente di condividere il messaggio del Vangelo, all’insegna di un dono rivolto al prossimo che è sempre più vicino. La vicinanza, infatti, viene stabilita proprio dalla mediazione tecnologica: il prossimo è chi è “connesso” con me.
Nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium, Papa Francesco parla della “sfida di scoprire e trasmettere la mistica di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio”. Lo spazio digitale diviene, così, il luogo in cui questa “carovana solidale” può incontrarsi e mescolarsi, può vivere insieme nella prossimità e nella bellezza della parola di Dio.
Si deve annunciare il Regno di Dio allo scopo di far capire l’importanza di guardare il suo volto nelle persone che amiamo e che ci amano, nei sorrisi anche degli sconosciuti, nei bambini che giocano, nella natura come il dono di Dio, per aver chiaro che siamo tutti, “chiamati alla vita e alla speranza”. Annunciare per evitare che il mondo prenda sempre più la deriva della paura, dell’indifferenza, dell’egoismo. La predicazione del Vangelo non è la trasmissione di un codice di dottrine, ma di una persona, Gesù Cristo, Salvatore di ogni uomo. La missione dell’annuncio va poi vissuta con una gioia che genera contagio, come accadeva per i primi cristiani che erano in grado di affrontare ogni prova, trasmettendo la loro felicità, provocata dall’incontro con Cristo, come il tesoro più prezioso da poter offrire.
Annunciare è far capire, in questo cammino di rinnovamento, ai più lontani in maniera pragmatica che Gesù non limita la nostra libertà ma anzi la rende piena, chiedendo a ciascuno di amarsi.

È urgente un rinnovato impegno di tutti e di ciascuno all’interno della comunità cristiana. Finché scarichiamo sugli altri ogni colpa, non facciamo altro che aumentare l’incomunicabilità. Siamo consapevoli che per annunciare il Vangelo dobbiamo avere il coraggio di abbandonare le mentalità invecchiate, le consuetudini senza più senso, il chiuso delle nostre riunioni, rompere gli schemi, superare i ruoli codificati per essere liberi e camminare nella solidarietà con tutti. È urgente dire sì alla sfida di una spiritualità missionaria, sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo, sì al vivere insieme, al partecipare. Abbiamo riconosciuto, in sintesi, grazie al discernimento comunitario che siamo caduti nelle tentazioni degli operatori pastorali descritte nell’Evangelii Gaudium nn. 76-109, ma al tempo stesso abbiamo capito che non possiamo lasciarci rubare la gioia dell’annuncio; consapevoli della nostra fragilità e pochezza ma sicuri che il Signore non ci abbandona, vogliamo ripartire dalla conversione. Desideriamo lasciarci evangelizzare per diventare poi con coraggio e audacia, con fede e perseveranza evangelizzatori credibili.

ABITARE

Nell’ A.T. Dio esprime il desiderio di abitare presso gli uomini, di sistemare la sua tenda. Dio desidera abitare sulla terra così come abita in cielo. Questo desiderio di dimorare è illustrato nell’A.T. in diversi modi: troviamo riferimenti nei racconti dei Patriarchi, nel libro della Genesi, nel libro dell’Esodo, nei Salmi e anche negli scritti poetici. La shekhinah di Dio (presenza-dimora) nell’A.T. si china per incontrare l’uomo, si fa carico delle sofferenze di tutto il popolo e di ogni singolo uomo. La presenza di Dio s’incarna trovando la sua massima espressione nel Prologo di Giovanni. La shekhinah si è incarnata ed è venuta ad abitare in mezzo a noi, attraverso il figlio di Dio: Gesù Cristo, il logos. Vivere, quindi, secondo la Parola fa sì che chi segue Gesù diventi “tempio vivo”, nel quale Dio stesso “abita”. Allora, come possiamo continuare, nella società odierna, a testimoniare la presenza di Dio che continua ad accompagnare il suo popolo lungo il cammino, tra deserti e promesse? Una risposta è rappresentata sicuramente dal Vangelo, dono di Dio agli uomini, il quale abita nelle nostre comunità. Questo è il cammino delle nostre comunità che allargano i propri confini e vanno ad “abitare” il quotidiano della gente assumendo e manifestando solidarietà verso il prossimo. La shekhinah di Dio tiene unite le nostre tende abitando in mezzo a noi. Il nostro territorio deve essere una casa comune, una sola tenda, nella quale il ponte tra la vita della strada e quella della Chiesa è costituito proprio da noi uomini e donne di buona volontà. “Maestro dove abiti… venite e vedrete”(Gv 1, 35-40). Dobbiamo recuperare il principio dell’incarnazione, il modo di “abitare” di Gesù: la sua condivisione delle gioie e dei dolori delle persone che incontrava sul suo cammino; del suo andare a trovare e accogliere i “lontani” del suo tempo. Siamo chiamati a farci carico delle gioie e dei dolori degli uomini del nostro territorio. Siamo chiamati a leggere con occhi nuovi la realtà che ci circonda e le persone che sono intorno a noi. Il cristiano deve abitare anche la politica, ma lo deve fare in modo onesto. Deve entrare e rimanere in politica da “cristiano”, perché porta in sé delle risorse e dei valori che gli vengono dal Vangelo e che vanno testimoniati proprio in quel mondo. Dobbiamo farci carico dei problemi concreti che toccano le persone del nostro territorio: povertà, lavoro, salute.
Occorre riscoprire il nostro territorio nella sue caratteristiche, nella sua storia, nella sua cultura, nel suo straordinario percorso di fede, per aiutare chi vi abita a ritrovare le proprie radici cristiane. Il territorio è uno spazio, cioè una realtà geometrica o geografica: di una città si possono dire i metri quadri, l’altitudine sopra il livello del mare, la latitudine e la longitudine, le volumetrie di un piano regolatore generale… Il territorio è un luogo, cioè un riferimento per la vita delle persone, un punto di identificazione e di appartenenza, perché è somma di tradizioni, di culture. Il territorio è una dimora. Dimorare è molto più dell’abitare: non vuol dire solo vivere in un territorio o farsi vivere da un territorio, ma “vivere il territorio” e “far vivere il territorio”: le relazioni, i bisogni, le risorse reali e potenziali, i valori, le credenze, le tradizioni, la religione, il sistema socio-politico-culturale. Occorre intessere un vero dialogo con le istituzioni presenti sul territorio e portarvi l’originalità del messaggio evangelico. Occorre saper dialogare soprattutto con le nuove generazioni (da considerare come i nuovi poveri o i nuovi lontani), assumendo i loro linguaggi espressivi e le moderne tecniche di comunicazione; occorre essere presenti nei loro luoghi abituali di vita per aiutarli a scoprire la bellezza ed il valore della vita come dono. Abitare il territorio e prendersi cura dei suoi abitanti esige che ne conosciamo le risorse, soprattutto umane. Ci sono tante persone che, nel volontariato o nelle istituzioni pubbliche e private, offrono servizi tradizionalmente offerti dalla Chiesa. Di qui, la necessità di creare attorno a noi un clima di simpatia, di stima e di fiducia per arrivare, attraverso la via dell’amicizia e una fitta rete di buone relazioni, a un dialogo costruttivo con gli altri soggetti sociali e, più in generale, con le diverse componenti del territorio, prendendo le distanze da ogni forma di pregiudizio nei confronti di chi ci sta dinanzi, chiunque sia e qualunque sia la sua appartenenza religiosa, sociale, politica.

I luoghi di aggregazione e gli stessi aggregati stanno cambiando. Nei nostri territori ci troviamo a dover convivere con situazioni a noi prima sconosciute. La presenza, sempre più numerosa, di persone che provengono da culture, tradizioni, religioni diverse dalla nostra ci impongono un dovere di integrazione, di condivisione, di accettazione, per taluni versi, non facilmente condivisibili da tutti.

Bisogna saper abitare anche la parrocchia. La Christifideles Laici di Giovanni Paolo II dice che la parrocchia “non è principalmente una struttura, un territorio, un edificio, è piuttosto la famiglia di Dio, come una fraternità animata dallo spirito d’unità”, è “una casa, una famiglia, fraterna ed accogliente” (n.26). E il nuovo Codice di Diritto canonico, pur affermando che “come regola generale è territoriale” (can. 518), ricorda che la parrocchia è “una comunità di fedeli” (can. 515, § 1). Se la parrocchia non si identifica con il territorio, il rapporto con il territorio è, però, per la parrocchia, una dimensione originaria, costitutiva, di identità. E se in Italia la sua diffusione e la sua capillarità sono particolari, nella nostra diocesi il suo carattere di popolarità e la sua capacità di radicamento nel territorio sono del tutto unici per il fatto che esiste un numero davvero rilevante di chiese e di attività liturgico-pastorali che hanno consentito negli anni di conoscere e di abitare il territorio in maniera sistematica. Attualmente la situazione sta diventando complessa, perché da una parte occorre potenziare questo rapporto con il territorio, dall’altra la scarsità dei presbiteri lo rende sempre più difficoltoso. Per non far venire meno questa potenzialità del rapporto col territorio, è necessario sviluppare la formazione e la responsabilità degli operatori pastorali laici.

EDUCARE

Come possono le comunità radicarsi in uno stile che esprima il nuovo umanesimo?

In una società che papa Francesco definisce paradossalmente ferita dall’anonimato e ossessionata dai dettagli per la vita dell’altro, in cui si sfrutta il creato, si cerca il profitto e si creano forme di emarginazione, si vive l’incertezza dovuta non solo alla crisi economica ma anche e soprattutto a quella spirituale e morale. E’ quindi fondamentale leggere i segni del tempo per contribuire a un nuovo umanesimo centrato su Gesù Cristo con la sua umanità che salva e redime.

Come essere capaci, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali ed esposte al veloce consumo, di costruire spazi in cui tali relazioni scoprano la gioia della gratuità, solida e duratura, cementate dall’accoglienza e dal perdono reciproco? La testimonianza concreta del cristiano disposto a vivere i principi evangelici nella società contemporanea può suscitare la fede, può trasformare il mondo, può animare contesti, situazioni, ambienti in cui dominano mondanità, consumismo, solitudini ed egoismi.

L’educazione deve contenere una spinta missionaria, cioè deve indicare valori che spingono ad andare verso l’altro. Troppa ripetitività non diviene autoreferenzialità? I cambiamenti socio-culturali in atto impongono una rivisitazione delle modalità comunicazionali e relazionali all’interno e all’esterno di ciascuna realtà associativa. Al centro di qualsiasi progetto educativo deve essere posta la persona con la sua identità, cercando di scoprire, anche con un po’ di creatività’, su quali basi e con quelli mezzi impostare un percorso di formazione che abbia come obiettivo principale quello di istaurare una buona relazione con la comunità.

Per proporre un nuovo umanesimo c’è bisogno di un’educazione volta a rafforzare il pensiero cristiano e la capacità della ragione di fronte alla molteplicità dei messaggi e delle offerte provenienti da una società in continua evoluzione.

Qual è lo stile permanente della Chiesa? Dove, come essa deve agire per educare? A tal proposito, è interessante notare che, nella visione veterotestamentaria, la dinamica familiare educativa si esprima con i termini ben e banah, dove il sostantivo “ben”, figlio, ha la stessa radice del verbo “banah”, costruire, ad indicare proprio che la persona viene “costruita” dai suoi educatori. L’educatore è colui che si mette al fianco dell’educando con un «ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sana, libera e incoraggia a maturare nella vita cristiana» (Evangelii Gaudium, III, 169).

L’educatore è colui che si mette al fianco dell’educando per accompagnarlo fino alla conquista della propria maturità, al raggiungimento della capacità di prendere decisioni veramente libere e responsabili per la costruzione di sé. Compito fondamentale, infatti, è far realizzare pienamente l’altro in un progetto a lungo termine che richiede capacità di attesa, fiducia ed uno sguardo attento sul prossimo, ma, in primo luogo, su se stessi. È necessario, dunque, educare a scelte ragionate che sappiano recuperare il ruolo precipuo della coscienza e dell’interiorità, per una costruzione compiuta dell’identità della persona umana.

Dal punto di vista cristiano sicuramente l’azione di educare si traduce nel tentativo di formare una intelligenza ed una volontà per poter fare delle scelte fondamentali nel proprio percorso di vita, ovvero scoprire la propria vocazione. Si può dire che il processo educativo si compie nel momento in cui le persone riescono a fare scelte definitive su cui fondare con coerenza la propria vita ed essere pienamente realizzate. Evidentemente la proposta educativa cristiana ha come fondamento la persona di Gesù Cristo, il suo vivere, i suoi insegnamenti, una proposta di amore.

Oggi la formazione dell’identità personale avviene in un contesto plurale, caratterizzato da diversi soggetti di riferimento: non solo la famiglia, la scuola, il lavoro, la comunità ecclesiale, ma anche ambienti meno definiti e comunque influenti, quali la comunicazione multimediale e le occasioni nel tempo libero. La Chiesa ha il compito primario di comprendere, oggi più che mai, “i segni dei tempi, per illuminare il buio dello smarrimento antropologico contemporaneo con una luce, che è il di più dello sguardo cristiano… mettendosi in movimento per indicare all’uomo di oggi una direzione da intraprendere, in un’epoca segnata dalla carenza di bussola” ( traccia di preparazione al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze- novembre 2015). Se è vero che famiglia e scuola, tradizionali agenzie educative, si sentono più deboli e profondamente trasformate, è anche vero che esse sono più che un problema una risorsa, potenzialmente capaci di realizzare nuove alleanze educative.

La prospettiva del Convegno ecclesiale ci invita a comprendere meglio in senso ecclesiale la nozione di vita umana, di famiglia, il rapporto tra le generazioni e il senso della tradizione, il rapporto con l’ambiente e l’utilizzo delle risorse, il bene comune, l’economia, il lavoro, la politica e la legislazione.

TRASFIGURARE

La necessità più urgente è quella di conoscere più sistematicamente la realtà che ci circonda. C’è il bisogno di crescere nella partecipazione alla vita pubblica della città per far conoscere anche alle autorità civili competenti le necessità di chi non ha voce. Ma ci sono anche tanti segni di vita buona. Come non vedere all’opera la grazia di Dio in tante famiglie che, pur nelle difficoltà, fanno fronte con dignità alle malattie, alle disabilità, e ai problemi di lavoro, con la forza della fede senza mai rassegnarsi ma sperando nel Signore che dona loro tanta voglia di vivere una vita buona.

L’esperienza del trasfigurare tocca tre aspetti: fede – celebrazione – vita. La Parola ascoltata e meditata, l’Eucarestia celebrata e adorata, la carità che riconosce nell’altro il volto di Cristo, fa di ogni gruppo una comunità cristiana. Questa è la missione della Chiesa, da sempre, per sempre!

Spesso la nostra fede non tocca la nostra esistenza, siamo bravi cristiani nella chiesa ma, fuori da essa, non riusciamo a compiere quel passaggio che porta alla testimonianza. Viviamo la fede in modo individualistico, quasi privato, e spesso non riusciamo a motivarla in quanto non è una “fede vissuta” perchè guarda a Gesù ma non guarda con gli occhi di Gesù. Occorrono momenti di “contemplazione”, di contatto, personale e comunitario, che non scadano però nel devozionismo, nella ripetizione di formule e preghiere cantilenanti. In questo caso, tali forme sembrano piuttosto un dovere da compiere, con la bocca più che con il cuore, senza nulla togliere al fatto che mantengono intatto il valore della fede autentica. Quello che più serve è fare esperienza profonda di Dio e del suo Amore, perché si possa poi “scendere dal monte”, cosa assolutamente necessaria, “uscire” dal confortevole rifugio dell’edificio sacro e della rassicurante comunità di appartenenza, agire nella società da cristiani, con amore, con coerenza di vita ed anche con preparazione specifica nei vari settori per ridiventare punti di riferimento in un tessuto sociale sempre più sfilacciato; solo così si può “trasfigurare” la vita: “In questo giorno, sul Tabor, il Cristo trasformò la natura oscurata di Adamo. Avendola illuminata, la divinizzò” (Esperinòs).

L’umano è il luogo della trasfigurazione e della resurrezione perché Dio è in ognuno di noi e dobbiamo servirlo nell’umiltà dei piccoli gesti, nel conforto e nell’assistenza degli “ultimi”, nell’abbandono dei beni materiali, nell’esempio di una vita luminosa, non offuscata dalle tenebre del maligno.

Per il cristiano trasfigurare è trasformare, anzi lasciarsi trasformare in un Uomo nuovo. Trasfigurare è dare alle nostre parole e alle nostre opere un valore nuovo, perché siano capaci di testimoniare la gioia della nostra appartenenza a Cristo. Nessuno può chiamarsi fuori da questa missione, tutti abbiamo bisogno di convertirci e ri-convertirci ogni giorno, soprattutto oggi, in cui l’identità cristiana rischia l’insignificanza nella società e deve invece riprendere ad essere lievito e sale.

La celebrazione domenicale è il dono del Signore che alimenta il nostro cammino nella vita e nella sequela. L’Eucarestia è il cuore della fede di ogni giorno; il cuore della comunità. Questa è la consapevolezza che ogni cristiano deve acquisire. La via del trasfigurare porta con sé la questione del senso della festa e della domenica, quali spazi di vera umanità, nei quali la persona ritrova se stessa e scopre anche rapporti familiari e sociali nuovi. Dobbiamo rendere le nostre liturgie capaci di esprimersi e di parlare dentro la cultura di oggi, renderle capaci di un vero progetto di rinnovamento attraverso uomini e donne trasfigurati realmente da Cristo e capaci di mettere in atto il progetto d’amore di Dio.

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