La parola ti renda voce
Omelia per l’inizio del ministero di parroco di don Alessandro Rea
Fontechiari, 6 dicembre 2015 – II domenica d’Avvento
Il tempo dell’Avvento è il tempo del cammino verso Colui che viene. La preghiera iniziale della Colletta incoraggia a chiedere al Signore che “il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio”. Questo movimento del credente deve esprimere il desiderio ardente del cuore, l’apertura sapiente dell’intelligenza e l’operosità del nostro stile di vita sobrio e vigilante.
Nella gioia dell’attesa del Signore, questa comunità accoglie oggi don Alessandro in qualità di parroco. Solo in apparenza sembra non cambiare nulla, dal momento che già da qualche anno don Alessandro svolge il suo ministero in mezzo a voi in qualità di Amministratore parrocchiale. Di fatto, il rito che seguirà alla celebrazione della Parola esprime in modo chiaro la responsabilità pastorale del parroco, soprattutto nella prospettiva peculiare e specifica della stabilità, della fedeltà nel servizio della Chiesa e nella totalità della dedizione alla comunità di cui è costituito pastore ad immagine di Cristo (Gv 10).
La vocazione profetica
L’entrata in scena del Battista nel racconto di s. Luca coincide con la venuta della Parola di Dio su di lui. La missione di Giovanni è caratterizzata prima di tutto dall’incontro con la Parola di cui diventerà “voce” profetica con il suo stile di vita e con il fuoco delle sue parole. Il “venire” della Parola corrisponde ad una vera investitura profetica. L’Antico Testamento presenta la missione profetica come l’incontro con la Parola: ad essa è sottoposta l’esistenza del chiamato. Ciò richiede ascolto obbediente dal quale dipende la fedeltà di colui che dovrà annunciare non la propria volontà ma le intenzioni di Dio per il bene e la salvezza del suo popolo. Di fronte a questa Parola il profeta non può tacere per paura, per vergogna o per vigliaccheria. Il destino di salvezza o di perdizione del popolo potrà dipendere anche dalla coerenza del profeta nell’ annunciare la parola per la conversione. Il Battista è consapevole della sua missione, e a quanti dopo averlo ascoltato con interessa e stupore gli chiederanno: “Che cosa dici di te stesso?”, dichiarerà: “Io sono voce di uno che grida nel deserto” (Gv 1,23). Commenta s. Agostino: “Giovanni la voce, il Signore, invece, in principio era il Verbo. Togli la parola, che cos’è la voce? Non ha nulla di intellegibile, è strepito a vuoto. La voce, senza la parola, colpisce l’orecchio, non apporta nulla alla mente… E poiché è certo difficile distinguere la parola dalla voce, anche lo stesso Giovanni fu ritenuto il Cristo. La voce fu creduta la Parola: ma la voce riconobbe se stessa per non recare danno alla Parola” (Discorso 293,3).
La Parola nel deserto
Nel vangelo di Luca per ben due volte si parla oggi del deserto, rivelandone due volti diversi. Innanzitutto Giovanni vive nel deserto: quindi la parola di Dio lo coglie nel luogo della solitudine e dell’essenzialità. Nel deserto nessuno ti ascolta. Non puoi parlare con nessuno e nessuno ti parla. Nel deserto vai, se vuoi, per ascoltare Dio, per parlare con lui. È il luogo dove Dio è l’unica persona presente alla tua vita, alle tue parole, ai tuoi occhi, alle tue orecchie, al tuo cuore. Senza di lui il deserto è la morte.La solitudine sviluppa la gioia del silenzio, mentre l’essenzialità del deserto insegna a riporre la propria fiducia e sicurezza solo in Dio. Il deserto ti priva di oggi appoggio umano, materiale e psicologico. Per questo nella ricca ed esemplare tradizione biblica il deserto rappresenta la condizione migliore per cogliere e accogliere l’evento della Parola. Il deserto educa alla capacità di ascoltare, perché solo il silenzio è grembo che dà vita alla Parola.
In secondo luogo, il Battista, costituito “voce” della Parola, grida “nel deserto”. La sua voce porta un grido di speranza nella desolazione delle prove e delle fatiche che logorano il cammino dell’uomo. Se nel primo significato il “deserto” fa riferimento ad una condizione felice e ottimale di incontro con la Parola, nella seconda ricorrenza il “deserto” rivela anche il suo volto negativo, perché richiama un cammino impervio, con le difficoltà dei burroni, dei colli e dei monti, delle vie tortuose e accidentate. Ognuno di noi attraversa il deserto del peccato che ci rende prigionieri delle nostre debolezze. Nel deserto del peccato si perde la gioia, perché nella profondità del cuore manca la vera soddisfazione. Tanti attraversano il deserto della malattia. Quando si gode ottima salute si pensa alla malattia come qualcosa che colpisce sempre gli altri, ma può accadere che, ad un tratto, si venga catapultati in questo deserto inospitale di cui, alle volte, non se ne scorge la fine. Altre persone attraversano il deserto dei problemi familiari. Anche questo è un deserto terribile che porta desolazione, afflizione, tormento, angoscia, dolore, preoccupazioni. Altri ancora devono misurarsi con il deserto difficile dei tradimenti, delle scaltrezze, della malizia, dell’orgoglio, dell’incomprensione.
La parola del profeta incoraggia e consola, annunciando che alla fine del sofferto cammino “ogni uomo vedrà la salvezza di Dio” (Lc 3,6). Tutta l’opera di s. Luca (Vangelo e Atti) è il racconto di una salvezza estesa a tutti. Le immagini apocalittiche, soprattutto il livellamento delle strade, indicano una grande speranza. Giovanni, infatti, prepara la venuta del Messia salvatore, così come si spianava la strada per accogliere un sovrano che preannuncia un’era di pace e di benessere.
Dio porta a compimento
Carissimo don Alessandro, il prete è innanzitutto l’uomo della Parola. Il rito di ordinazione diaconale si conclude con la consegna del libro dei vangeli, accompagnata dalle parole del Vescovo: “Ricevi il Vangelo di Cristo del quale sei divenuto l’annunziatore”. Le promesse che siamo invitati a fare nell’ordinazione diaconale e presbiterale sono concluse da questo augurio: “Dio che ha iniziato in te la sua opera, la porti a compimento”. Anche nel testo paolino di questa liturgia abbiamo ascoltato le parole dell’apostolo rivolte ai filippesi impegnati nella cooperazione per il Vangelo: “Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento” (Fil 1,6). La diffusione del Vangelo è per l’apostolo Paolo motivo di gioia e di tenerezza. E’ affezionato ai filippesi in maniera particolare; è raro che egli si abbandoni così nei suoi scritti. Se il suo cuore è nella gioia, è perché i cristiani di Filippi sono attaccati al Vangelo, non solo perché hanno ascoltato la predicazione dell’apostolo, ma anche per aver preso parte alla sua opera missionaria di annuncio.
Anche per noi questo costituisce la prima e fondamentale gioia: l’annuncio della Parola, la conversione dei nostri stili di vita per aver creduto alla predicazione, la partecipazione alla diffusione della Parola.
Il presbitero deve imparare ad amare sempre di più la Parola, per insegnare ad amarla. Dovrà rispettare la sua forza e dolcezza, sarà parola di consolazione e parola di correzione, parola che ferisce e risana, come una spada a doppio taglio (cfr. Ebr 4,12). Bisogna davvero amare la Parola più di se stessi, più dei propri timori e remore, più di ogni compromesso e vigliaccheria: “Amo la mia vecchia Bibbia, quella che ha accompagnato metà della mia vita. Ha visto la mia gioia, è stata bagnata dalle mie lacrime: è il mio inestimabile tesoro. Vivo di lei e per niente al mondo la darei via… Che cosa tenete in mano?”. Un capolavoro letterario? Una raccolta di antiche e belle storie? Tra le mani avete “qualcosa di divino”, “un libro come fuoco, un libro nel quale Dio parla” (Papa Francesco, Prefazione alla bibbia per ragazzi).
La gioia di s. Paolo nella seconda lettura di oggi è la gioia del Vangelo e per il Vangelo (‘evangelii gaudium’), l’unico motivo dal quale può dipendere ogni altra ragione di vita del presbitero, e senza del quale nulla può renderci pienamente felici di fronte a Dio.
+ Gerardo Antonazzo