Meditazione per il Venerdì Santo

Stemma Finis Terrae Mons. Gerardo Antonazzo

IL FINE-VITA DI OGNI CROCE

Meditazione per il Venerdì Santo

Sora, 14 aprile 2017

Sulla croce di Cristo, il morire di Dio abbraccia il dolore di ogni uomo, in un connubio di intensa oscurità (Mt 27,45: “Si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio”), drammatizzata dallo squarcio della terra e delle rocce (cfr. v. 51). La scena così descritta intende catturare l’attenzione del lettore sul pesante evento della morte segnata da sofferenza fisica e morale. E’ il fine-vita dell’uomo-Dio sul legno dell’ingiusta condanna, per un “inciucio” del Sinedrio. Gesù non è sottoposto a un cieco destino, ma consapevole di una missione d’amore alla quale non solo non si sottrae, ma deliberatamente si “consegna”: “Chi cercate? Gli risposero: Gesù, il Nazareno. Disse loro Gesù: Sono io!” (Gv 18,4-5).

Un oscuro rimprovero

 

Sulla croce Gesù grida: non per la paura di morire, né per il dolore fisico procurato dalla cattiveria umana. La ragione che lo strazia è la sospetta lontananza del Padre. Gesù sembra perdere ogni speranza; invece dell’invocazione filiale, Egli “rimprovera”: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Durante la sua vita terrena Gesù aveva insegnato a invocare Dio come “Padre”. Così ai discepoli: “Quando pregate, dite. Padre nostro…” (Mt 6,9). Sulla croce assistiamo ad un momento difficile, faticoso, nel quale Gesù sembra regredire nel suo affetto filiale. Non più Padre, ma un Dio drammaticamente silenzioso e “assente”. Gesù quasi prende le distanze, gli sembra di non riconosce più il volto del Padre. Lui, il Figlio si trova nella bufera della confusione, ed esprime la sua disperazione nel cuore del dubbio più lancinante. Il suo lamento riprende le parole del Salmo 22,  grido di desolazione. Gesù si sente abbandonato da tutti, soprattutto dal Padre.  La scena conserva tutta la sua intensità drammatica. Quale solitudine più amara e velenosa di quella di un Figlio in altri momenti dichiarato come “amato” dal Padre; ma ora  da Lui abbandonato!

Ogni dolore merita le giuste domande. Il cristiano guarda in faccia la sofferenza, e  sa chiamarla per nome. Il dolore dell’uomo e il dolore di Dio si incontrano sulla Croce, in un conturbante reciproco intreccio. Il grido di Gesù è anche il nostro. E’ l’ora dell’abbandono e della solitudine assordante. E’ il momento in cui ci sentiamo traditi. Perché proprio a me? Perché un così duro accanimento del male nella mia vita? Perché il dolore di tanti innocenti, mentre i perversi prosperano? Nell’abisso dell’impotenza umana sperimentiamo una distanza incolmabile dall’Amore di Dio. Resta il grido dell’imprecazione, del perché esistenziale di chi si trova di fronte all’assurdo. Dolore e solitudine degli affetti sono una combinazione al vetriolo. La ragione umana non può evitare l’assurdo, il quale conserva il potere di essere un ‘perché’ inesauribile,  e l’onore di restare pur sempre una domanda. Quale ragione può giustificare il dolore? Sottomessi alla sua atrocità, non resta che contestare, fino alla disperazione, fino al rifiuto della vita. Nei racconti della passione secondo il vangelo di s. Marco e di s. Matteo l’ultima parola di Gesù è l’ultimo grido del “perché?”.

 

Una lezione di fiducia

 

Nel vangelo di Luca, invece,  nell’ora della sua prova il Dio Crocifisso raccoglie la preghiera del ladrone. Pentito, invoca in extremis il ”paradiso” della misericordia e della salvezza. Da questi, Gesù sembra raccogliere una lezione di  fiducia . Forse. Certo è che, subito dopo,  Gesù si consegna al Padre,  recuperando l’ affetto filiale. E gridando a gran voce, celebra l’atto sublime del suo abbandono: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo spirò” (Lc 23, 46). Muore da “figlio”, non da disperato, non da condannato, non da maledetto! Il suo abbandono fra le braccia del Padre rende “salvifica” l’offerta della sua vita divina. E’, questa, l’eutanasia degli affetti: è’ il dolce morire fra le braccia della tenerezza paterna; è il fine-vita accerchiato dalla tenerezza di chi ci ama. Il fine-vita di Gesù è il morire da Figlio amato. E’ di questo fine-vita che abbiamo ansiosamente bisogno, per recuperare la speranza nella dura stagione del dolore. Di solitudine, invece, si può solo morire disperati.

 

Stabant

Il dolore di Gesù è illuminato dall’amore del Padre, ma anche dall’affetto della Madre. Nella pietà popolare si canta il dolore di Maria, ai piedi della croce, con le strofe dello  Stabat Mater. Il verbo stabat al singolare non viene dal vangelo. Sotto la croce del Signore c’è una presenza plurale: Stabant. “Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Cleope e Maria di Magdala (Gv 19,25). Gesù è accerchiato  dagli affetti più cari. Il “morire bene” non sempre significa morire senza dolore. La dignità del fine-vita non dipende da come si muore, ma con chi si muore. Gesù non muore senza nessuno, come se non morisse per nessuno. La Madre,  altre donne, e il “discepolo che Gesù amava”, sono accanto al suo morire lancinante,  per trasmettere il potere lenitivo degli affetti. E’ l’amore della Madre, di familiari e amici, ad aiutare il Figlio a morire “dolcemente” con la cura palliativa degli affetti delle persone più care. Maria ama Gesù, e resta con Lui nel momento più difficile e imbarazzante per non fargli mancare la sua materna dolcezza. Ella continua a credere e ad amare quel Figlio. Le parole profetiche dell’anziano Simeone non può dimenticarle: Maria aveva offerto a Dio il suo Bambino nel Tempio, ora lo offre al Padre,  morente sulla croce.

“Come ogni persona ferita dalla sofferenza e dal rifiuto, colpita dal disonore, Gesù ha avuto bisogno di consolazione, di forza, e dell’energia vitale che scaturisce dalla comunione con una persona amata” (J. Vanier). Nell’ora della morte si può “guarire” dal dolore con la terapia degli affetti. Purtroppo, sono molte le storie di disabili, di anziani, di malati terminali, di minori, il cui stato di sofferenza è aggravato terribilmente dal sentirsi abbandonati, rifiutati, esclusi e ignorati. Lo ‘stabant’  del quarto vangelo ha aiutato Gesù a morire fra le braccia accoglienti di qualcuno. Non è il dolore ad uccidere, ma l’indifferenza.

 

+ Gerardo Antonazzo

 

Categorie: Diocesi,Documenti e Omelie,Sora,Tutte Le Notizie

Tags: