IDEM VELLE, IDEM NOLLE
Omelia per la solennità di s. Restituta
Sora, 27 maggio 2021
Il martirio di santa Restituta racconta una storia d’amore finita nel sangue. Il giorno del martirio se da una parte ricorda l’esecuzione della sentenza capitale, molto più celebra l’esecuzione della decisione con la quale la giovane Restituta resta fedele all’amore di Gesù Cristo, sommo bene della fede, memore delle parole dell’apostolo: “Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi” (Rm 8,18). Il martirio non è definito dalla soppressione della vita fisica di una donna, ma dall’offerta libera e consapevole, senza condizioni e compromessi, della propria vita verginale a Dio. Sentiamo dire di troppe storie ordinarie di passione e di follia. Sentiamo dire di troppe storie che travolgono la mente e il cuore e scuotono l’essere nell’assillo impetuoso della passione che brucia le vene. L’amore umano può essere vissuto in tante sue sfumature: tra luci ed ombre, tra estasi, delirio e follia, molte storie d’amore feriscono il cuore, anche gravemente narrando il sentimento amoroso e il suo riflesso opaco. Nel fuoco di un cuore appassionato, nella foschia di una mente impazzita, nei silenzi inquieti di un amante, nelle lacrime velate di una moglie, l’amore è protagonista, tormento e sogno nel cammino rosso delle vene e delle palpitanti storie (cfr E. Dente, L’amore nel buio).
L’amore che si rivela nel martirio di santa Restituta è ben rappresentato nella tradizione sorana della rosa ritrovata presso la tomba della martire. La rosa espande la fragranza del profumo ma è anche armata di spine: ammaliante e pericolosa insieme. È interessante comprendere la molteplicità di significati e valori che il delicato fiore ha assunto anche nelle differenti culture dove esso è passato. Si parte dagli albori della civiltà umana e già nell’Iliade di Omero si trova l’accenno alla rosa e al suo olio, usato da Venere per ungere il corpo senza vita di Ettore. Dagli scritti dell’antica Grecia, dove la rosa veniva usata anche per decorare gli altari delle divinità (Venere), si passa all’epoca dei Romani, quando il fiore era il simbolo della passione, della vita e del trionfo militare. Nel primo cristianesimo la rosa assunse il significato del dolore e del martirio, non a caso più che i petali prevalsero le sue spine, e sarà solo col passare del tempo che ci si rese conto di come il cristianesimo non era solo dolore, ma anche amore per la vita e speranza. Non a caso il colore rosso dei petali veniva spesso equiparato a quello del sangue versato da Gesù nel momento della Passione in croce. La rosa per i cristiani prende un significato singolare nel quarto secolo, in un periodo di terribili persecuzioni: con un miracolo compiuto dalla martire Dorotea, che fa avere ad uno dei suoi aguzzini, in un arido febbraio, rose appena fiorite provenienti dal “giardino del suo Sposo”. E qui è degna di nota la trasformazione della rosa da tradizionale attributo della dea dell’amore, Afrodite, a simbolo di compassione e perdono. Seguendo questa scia, i cristiani egiziani fra il quinto e il sesto secolo rappresentano con altrettante rose sul legno della croce le piaghe di Gesù, nell’affresco di una chiesa di Deirel-Abiad, nell’alto Egitto.
Quella del martirio di santa Restituta è una storia d’amore ben riuscita, non fallita: parla di un amore lucido, non opaco; responsabile, non sconvolto; desiderato, non subito. Il martirio di santa Restituta non parla di una storia finita male ma del successo che giunge fino a noi oggi e ci contagia, di un amore impensabile posto a sigillo della fedeltà del cuore. È la rivelazione di un’amicizia profonda, la tragedia di un’amicizia esigente sigillata nello spargimento del sangue. Cos’è veramente l’amicizia? Cicerone riconosce il fondamento dell’amicizia nel principio idem velle idem nolle, cioè “volere le stesse cose e non volere le stesse cose”. L’amicizia è, quindi, come una strada, un metodo, un percorso in cui si fanno scelte comuni di approvazione o di dissenso per alcuni aspetti o fatti di vita. Gesù spiega l’amicizia del discepolo come reciproca conoscenza, che tende a divenire comunione del volere. Secondo Cicerone, l’amicizia esprime la crescita della propria volontà verso il “sì” dell’adesione sempre più piena a quella dell’altro. La sua volontà, infatti, non è per me una volontà esterna ed estranea, alla quale mi piego più o meno volentieri oppure non mi piego. No, nell’amicizia la mia volontà crescendo si unisce alla sua, la sua volontà diventa la mia, proprio così divento pienamente me stesso. Il Vangelo menziona un terzo, nuovo elemento dell’amicizia: dare la vita (cfr Gv 15,13; 10,15). Così Restituta, nella perfezione della sua amicizia con Cristo, arriva a dare la propria vita per Lui nella forma dell’amore più estremo.
Il martirio di santa Restituta parla dell’estremismo dell’amore che si spiega solo con la massima libertà del cuore; è testimonianza dell’esercizio incondizionato e puro del proprio pensiero interiore. Il martirio è la testimonianza di una libertà perfettamente riuscita, purificata da ogni legame o elemento che possa contaminarla. Nel caso del martirio cristiano, la libertà del discepolo comincia con un grande no, per non vivere da servi. “Si abdica alla propria e innata sovranità per paura, convenienza, interesse o forse perché, nella propria vita, non si è conosciuto altro che la servitù, trasformatasi poi in ‘abitudine’ (habitus). Si vive da servi, si pensa da servi, si agisce da servi, si sogna da servi e ci si accontenta di quanto la servitù offre. Il pensiero addomesticato, il politicamente corretto, la strategia della bandiera che cambia direzione col vento, nascono da un pensiero e una vita gregaria. Servi del sistema, del potere, della moda di contraffare la storia quotidiana, l’attitudine a ‘strisciare’ per evitare di prendere posizione, la codardia di mettersi dal lato dei vincitori … La libertà comincia con un no.” (Mauro Armanino, 11 maggio 2021). “Il rifiuto ha sempre costituito un gesto essenziale. I santi, gli eremiti ma anche gli intellettuali, il piccolo numero di persone che hanno fatto la Storia, sono coloro che hanno detto no … Per essere efficace, il rifiuto dev’essere grande e non piccolo, totale e non su questo o un altro punto” (Pier Paolo Pasolini).
Appena dopo il rifiuto arriva però il sì nuziale alla vita intesa come straordinaria avventura dell’impossibile. È il grande sì del martirio. Un sì alla follia delle sconfitte che trasformano il pianto in risurrezione, il dolore di un momento in una sconfinata gioia dell’indicibile, lo spegnimento provvisorio della luce degli occhi al rapimento interminabile dell’invisibile. Un sì al silenzio che accarezza la morte, per lasciare spazio al vento che porta con sé la brezza dolcissima di una vita che rinasce. Come ogni rosa, a primavera.
+ Gerardo Antonazzo