Intervento di Mons. Domenico Sigalini nel Convegno Pastorale Diocesano

LA VITA: DONO, STUPORE, GRATITUDINE

Mons. Domenico Sigalini

18 giugno 2014

Facendo riferimento al piano decennale della CEI,  “Educare alla vita buona del Vangelo”, e al tema del Convegno ecclesiale di Firenze “In Cristo il nuovo umanesimo”,  si tratta di riportare in primo piano il compito di  “educare alla vita”, al senso della vita, alla sua dignità e bellezza, alla responsabilità di rispondere a Dio e a se stessi.

 

La gioia della vita e dell’amore

Siamo entusiasti della vita, siamo grati a Dio di questo grande dono che fa all’umanità, siamo contenti del creato in cui ci ha collocato come essere unici e irripetibili, responsabili della sua conservazione e del suo sviluppo, intelligenti per capirne i segreti e entusiasti di collaborare con Lui. Non loderemo mai abbastanza Dio del dono della vita, della terra, dei fiori, delle piante, degli animali, del cielo e degli oceani. Siamo contenti di essere stati immersi in un sogno grandioso e di aver gioito con Dio della creazione e di essere stati aperti alla vita nel culmine della bellezza dell’universo.

Ci sentiamo ancora oggi quell’Adamo che guarda con stupore la natura, le cose, le stelle, il mondo creato e avvertiamo dentro di noi che un passo decisivo verso la nostra felicità è solo possibile in una assoluta novità: la relazione con una persona all’altezza della attesa dell’uomo. Maschio e femmina li creò e Adamo disse:  questa è carne della mia carne e ossa delle mie ossa.

Nel grande progetto di Dio immediatamente sta una relazione, sta un mettersi l’uno nelle mani dell’altro, nel guardarsi e uscire dall’isolamento e dalla autosufficienza, dal calcolo e dallo sfruttamento, dall’egoismo e dalla solitudine. Dio ci ha dedicati l’uno all’altra nell’amore. Lui ne è la sorgente. L’amore decide per tutti la qualità della vita, porta dentro i nostri passi, i progetti di Dio; l’amore ci rende simili a Lui, l’amore è una luce che nei nostri occhi fa brillare il sorriso di Dio. Il creato per l’amore che Dio ha messo nell’umanità assume il suo volto.

Abbiamo davanti agli occhi la storia d’amore di due ragazzi che si vogliono bene, che scoprono nella vita che c’è una potenza, una energia indistruttibile, una forza che costringe alla mobilitazione di corporeità, sentimenti, atteggiamenti, dialoghi, emozioni. Non si tratta solo di ragazzini curiosi e innamorati persi, ma anche di adulti, di uomini maturi che riscoprono ogni giorno come nel proprio esistere è scritto uno slancio incoercibile che è quello dell’amore. Nel nostro mondo tecnologico, spesso troppo materiale, sempre motivato da interessi e utilitarismi, da commercio e guadagno, da programmazione e risultati ci sono ancora ragazzi ingenui che sfidano la gravità, le leggi, le solitudini, gli utilitarismi e scrivono sui muri, sugli asfalti delle nostre strade: ti amo, sei la mia vita, ogni giorno ti penso, non posso vivere senza di te….

Non ringrazieremo mai a sufficienza Dio di aver scritto nelle nostre vite questi slanci, questi sogni, questo fuoco che fa esplodere le nostre esistenze e semina in noi la forza della vita.

Educare è una azione bella e entusiasmante; educare è apprezzare la vita e sbilanciarsi dalla parte della sua pienezza. Quando ti relazioni con le persone  e le aiuti ad aprirsi a valori grandi, a ideali belli, cogli la gioia negli occhi perché si allarga loro la vita,  si aprono per loro orizzonti nuovi, prende vera forza la libertà e il desiderio di vivere.

Educare non è correre ai ripari, ma dare risposta a una esigenza profonda che c’è nello statuto dell’umanità. Siamo nati desiderosi di  crescere verso mete belle; quando i genitori ci hanno fatto nascere ci hanno regalato il massimo dei valori umani: la vita. E da quel momento per tutti da dono è diventata un grande compito: la sua crescita e la sua educazione. E’ nello statuto antropologico dell’umanità il compito dell’educazione. L’uomo non è autosufficiente, autonomo.

Tale distorsione è stata affrontata magistralmente da papa Benedetto nel suo discorso ai vescovi italiani e riportato nel documento: Educare alla vita buona del vangelo.

«Una radice essenziale consiste – mi sembra – in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’‘io’ diventa se stesso solo dal ‘tu’ e dal ‘voi’, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il ‘tu’ e con il ‘noi’ apre l’‘io’ a se stesso. Perciò la cosiddetta educazione “antiautoritaria” non è educazione, ma rinuncia all’educazione: così non viene dato quanto noi siamo debitori di dare agli altri, cioè questo ‘tu’ e ‘noi’ nel quale si apre l’‘io’ a se stesso»[1].

Dentro questo amore alla vita piena si inscrive la scelta della chiesa italiana di dedicarsi con passione all’opera educativa.

Aprirsi a un orizzonte infinito

La costituzione relazionale della persona umana, accessibile alla ragione e dentro l’esperienza umana, si coglie e regge ultimamente se l’essere umano non si chiude a un orizzonte infinito e a un fondamento ultimo. Contrariamente a larga parte del pensiero, che ha preteso in vari modi di asserire che solo espellendo Dio l’uomo può affermare se stesso, proprio l’affermazione di Dio si ripropone come la condizione per la vera affermazione dell’uomo, della sua autonomia e della sua libertà, in sintesi, della sua dignità. Leggere con una ragione aperta alla luce della fede la situazione educativa permette di cogliere i termini dell’emergenza, ma anche di intravedere le tracce di un percorso di reazione e di risposta. Oggi c’è bisogno di credenti che sappiano compiere questa lettura della situazione per un autentico discernimento ecclesiale.

Il nostro guardare a Cristo e il nostro renderci disponibili e docili allo Spirito nella Chiesa, sta al cuore della nostra intera esperienza umana e dell’esercizio di ogni tipo di responsabilità educativa. Non c’è per noi un modo diverso di guardare alla persona umana fuori del modello che per noi rappresenta Cristo e della luce con cui la sua presenza permette di comprenderla. Per questo la tradizione cristiana non ha mai cessato di difendere la genuina umanità di Cristo, per salvaguardare non solo la realtà dell’incarnazione del Verbo, ma non meno la vera umanità dell’uomo. Gesù Cristo non viene dunque a coronare una umanità già completa per se stessa, ma a mostrare il modello e la radice del suo essere e della sua realizzazione. Noi credenti siamo chiamati a diventare sempre più convinti conoscitori, sostenitori e propugnatori dell’umanesimo integrale e trascendente che trova in Cristo l’origine e il compimento. Mettere al centro Gesù Cristo significa iniziare dalla pedagogia di Dio lungo tutta la storia della salvezza (cfr. n 19), continuare con la vita della chiesa, dove si esprime la forza della presenza di Cristo nella luce dello Spirito Santo e evidenziare le dimensioni dell’azione educativa, che sono missionaria, ecumenica e dialogica, caritativa e sociale, escatologica (cfr 24).

La vita è un dono non è un bene di consumo o in vendita.

E’ un dato tipicamente antropologico, umanissimo, non confessionale quello di pensare e vivere la propria vita come un dono, è l’unica strada della realizzazione della propria umanità, è il motore di una vita piena, la certezza di dare all’esistenza il suo unico sapore umano. E’ un principio non negoziabile, un coefficiente assolutamente necessario di ogni progetto di vita. Non sta dalla parte della costrizione, della tortura di una esistenza, ma dalla parte della genialità, perché farsi dono è lo scatenamento di tutta la fantasia di cui la vita è dotata. Viene espresso in tutti i mille modi di pensare, di essere, di offrirsi e di sottrarsi, di  rapportarsi e di stare nella propria solitudine. Nell’episodio evangelico dell’incontro tra Gesù e il giovane ricco, “quando il giovane chiede intorno al «di più»: «Che cosa mi manca ancora?», Gesù lo fissa con amore, e questo amore trova qui un nuovo significato. L’uomo viene portato interiormente, per mano dello Spirito Santo, da una vita secondo i comandamenti ad una vita nella consapevolezza del dono, e lo sguardo pieno di amore di Cristo esprime questo «passaggio» interiore. E Gesù dice: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). Sì, miei amati giovani amici! L’uomo, il cristiano è capace di vivere nella dimensione del dono.” Questo è sempre stato il tema fondamentale attorno a cui il santo papa GPII ha orientato  tutto il suo annuncio ai giovani.

La vita è risposta a una vocazione, non è una casualità.

La vita non è fatta di congetture, di casualità, di contorsioni intellettuali, è una chiamata sempre. Nel nostro DNA qualcuno scrive una proposta, semina un germe di felicità da sviluppare, Non siamo lanciati nel mondo a caso, ma siamo scelti e mandati, chiamati e sostenuti nella risposta, progettati e incarnati in una libertà decisiva. Alla sorgente della vita di ogni giovane c’è un imperativo: seguimi. Spesso non lo si sente, qualcuno come Giona lo fugge, ma tutti lo hanno nel loro hardware. Il software che ciascuno poi usa è diverso: è la sua vita contorta che non gli permette mai di capire verso dove, per quale futuro, con quale compagnia…

Il «seguimi» di Cristo si fa sentire su diverse strade, lungo le quali camminano i discepoli ed i confessori del divin Redentore, In diversi modi si può diventare imitatori di Cristo, cioè non solamente dando una testimonianza del Regno escatologico di verità e di amore, ma anche adoperandosi per la trasformazione secondo lo spirito del Vangelo di tutta la realtà temporale (cfr. Gaudium et Spes, 43-44). E’ a questo punto che prende anche inizio l’apostolato dei laici, che è inseparabile dall’essenza stessa della vocazione cristiana. Quando Cristo dice «seguimi», la sua chiamata può significare: «Ti chiamo ad un altro amore ancora»; però, molto spesso significa: «Seguimi», segui me che sono lo sposo della Chiesa, della mia sposa …; vieni, diventa anche tu lo sposo della tua sposa …, diventa anche tu la sposa del tuo sposo. Diventate ambedue i partecipanti a quel mistero, a quel sacramento, del quale nella Lettera agli Efesini si dice che è grande: grande «in riferimento a Cristo e alla Chiesa» (cfr. Ef 5,32).

 La crisi antropologica che ci avvelena la vita (Invito al convegno di Firenze)

La modernità – con i suoi proclami sulla morte di Dio, le sue antropologie pervase da volontà di potenza, le sue conquiste e le sue sfide – ci consegna un mondo provato da un individualismo che produce solitudine e abbandono, nuove povertà e disuguaglianze, uno sfruttamento cieco del creato che mette a repentaglio i suoi equilibri.

Proprio per questo tutto lo sforzo educativo della nostra chiesa italiana ha deciso come necessario affrontare tale crisi antropologica con la proposta di un umanesimo profondamente radicato nell’orizzonte di una visione cristiana dell’uomo – della sua origine creaturale e della sua destinazione finale – ricavata dal messaggio biblico e dalla tradizione ecclesiale, e per questo capace di dialogare col mondo. Tale relazione non può prescindere dai linguaggi dell’oggi, compreso quello della tecnica e della comunicazione sociale, ma li integra con quelli dell’arte, della bellezza e della liturgia. Perché questo dialogo col mondo sia possibile dobbiamo affrontare insieme quella che gli Orientamenti pastorali definiscono una vera e propria «emergenza educativa», «il cui punto cruciale sta nel superamento di quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e con il “noi”» (Educare alla vita buona del Vangelo 9).

Il tu e il noi – gli altri – nell’epoca in cui viviamo sono spesso avvertiti come una minaccia per l’integrità dell’io. La difficoltà di vivere l’alterità emerge dalla frammentazione della persona, dalla perdita di tanti riferimenti comuni e da una crescente incomunicabilità.

I fraintendimenti più gravi sono, però, di carattere teologico: per un verso, non si riconosce la trascendenza di Dio e lo si confonde col mondo stesso; per altro verso, si giunge a considerare esclusivamente che “Dio essendo di un altro mondo è irrilevante per la nostra terra e per l’uomo o a interpretarlo secondo un lacerante aut-aut, che implica l’alternativa tra Dio e l’uomo. Non è proprio così e ci dobbiamo applicare a superare questa esclusione di Dio dalla vita e dalla storia umana.

Come superare l’interruzione della relazione con l’Altro, così nociva per la giusta comprensione dell’uomo? Di questo interrogativo il Convegno ecclesiale di Firenze intende farsi carico per ripensare, guardando a Cristo Gesù, il rapporto tra Dio e l’uomo e degli uomini tra di loro. A tale riflessione vogliamo prepararci.

Si tratta innanzitutto di riguadagnare la consapevolezza del nostro provenire da Dio: non siamo Dio, ma siamo da Dio e, conseguentemente, per Dio. Non possiamo più pensare: “O io, o Tu”, ma siamo spinti a riconoscere: “Io grazie a Te”. Alla fine del II secolo, l’autore dello Scritto a Diogneto è testimone lucidissimo di questa consapevolezza credente quando scrive che «Dio plasmò gli uomini dalla sua propria Immagine» (X,2): non semplicemente a partire dalla polvere terrestre – come pur leggiamo in Gn 2,7 – bensì a partire dall’Immagine increata che da sempre Dio ospita dentro di Sé, il suo stesso Logos. L’uomo proviene dall’Intimo di Dio; anzi, è impastato di Dio. È Lui che ci permette di diventare consapevoli delle nostre migliori e più nobili possibilità, della nostra dignità, della nostra altissima vocazione. Non siamo archetipo di noi stessi, ma immagine di Dio, riflessi di un’Icona che sta nell’Intimo di Dio. Egli non è l’Altro estraneo e irraggiungibile; è Padre, che – grazie all’inedita prossimità con l’uomo in Gesù Cristo – ci consente di riconoscerci figli, e dunque fratelli. Ogni volta che lo dimentichiamo, soprattutto nell’esperienza amara del peccato, impoveriamo noi stessi: rifiutando Dio, gli uomini «divennero disuniti in se stessi e smarrirono il sapere circa se stessi. Il loro essere dimenticò il proprio nome. Da allora in poi il nome e l’essere si cercarono a vicenda senza mai trovarsi» (R. Guardini). Riguadagnare la fiducia nel Nome di Dio, come Nome che appartiene a Lui ma che non risuona contro di noi, è condizione per diventare pienamente uomini.

La proposta della persona di Gesù

Oggi l’umanesimo cristiano sembra essere soltanto una variante minoritaria tra i numerosi e differenti umanesimi che preferiscono non richiamarsi ad alcuna ispirazione evangelica: “umanisti secolari” si sono autodefiniti alcuni dei loro rappresentanti nell’incontro del “Cortile dei Gentili” tenutosi a Stoccolma nel settembre 2012.

Il processo di secolarizzazione, iniziato con la messa in discussione del cristianesimo quale principio sintetico dell’umanesimo, dopo vari tentativi di cercarvi alternative sembra ormai giunto al suo esaurimento. Oggi non esiste più un principio sintetico che possa costituireil fulcro di un nuovo umanesimo.

Per questo, pur nella consapevolezza della natura plurale dell’odierna società, uno degli scopi del Convegno è quello di proporre alla libertà dell’uomo contemporaneo la persona di Gesù Cristo e l’esperienza cristiana quali fattori decisivi di un nuovo umanesimo. Crediamo, infatti, che l’annuncio dell’evento di Cristo sia capace di interagire conChiese e confessioni cristiane, con le religioni e con le diverse visioni del mondo, valorizzando tutti gli elementi positivi che la modernità può offrire in abbondanza. I cristiani, in quanto cittadini, desiderano abitare con questo stile la società plurale, protesi al confronto con tutti, in vista di un riconoscimento reciproco.

Non possiamo non pensare a quante figure di uomini e donne in maniera pluralistica si sono ispirati all’umanesimo cristiano senza per questo azzerare le differenze di pensiero e la libertà di adesione a una scelta religiosa. stato di vita: dai grandi santi ai tanti testimoni impegnati nel servizio della carità, nell’opera educativa, negli spazi dell’impegno culturale, sociale e politico.

Papa Francesco desidera caratterizzare la nostra vita, elevare il suo valore, e il desiderio di essa con la gioia del vangelo.

La parola gioia da tempi non sospetti, dal 2005, fa parte anche del mio programma di vescovo. Infatti nello stemma ho scritto “collaboratori della vostra gioia”. Il contesto da cui è tolto faceva precedere la frase: “non siamo padroni della vostra fede, ma”.. Con l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, la parola gioia ritorna a caratterizzare un documento papale nella Chiesa del dopo concilio. A questa sonorità ci aveva già abituati Benedetto XVI. Francesco, nel raccogliere l’eredità dei pontefici del Vaticano II[2] e del sinodo sulla Nuova evangelizzazione,[3] con questo documento si fa servitore della gioia dei cristiani: fonda questa gioia sul vangelo, propone testi su cui meditare e con cui confrontarsi, e invita la Chiesa ad una nuova missione.

Papa Francesco scrive: «La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. […] Desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia» (n. 1). In questo incipit della Evangelii gaudium, la parola gioia compare due volte in poche righe: il papa, da subito, la pone in relazione con le parolevangelo ed evangelizzazione costituendo, così, un trinomio inscindibile, basilare per l’intero documento.

Per comprendere la gioia di cui si parla nella Evangelii gaudium – essa va ben oltre il sentimento; si tratta, infatti, di condizione, di dono–, occorre spendere qualche parola sul trinomio gioia – vangelo – evangelizzazione. Solo dopo, si potrà evidenziare – utilizzando frasi graffiate dalla stessa esortazione apostolica – ciò che è essenziale perché l’esperienza della gioia prenda forma nella Chiesa, nelle comunità e da queste si irradi nel mondo e nell’uomo.

Gioia, vangelo ed evangelizzazione.

Sappiamo che la parola vangelo, vuol dire buona notizia. Nella Evangelii gaudium, Francesco specifica: «La buona notizia è la gioia di un Padre che non vuole che si perda nessuno dei suoi piccoli» (n.237). E per evocare la Pasqua – esperienza sorgivadella gioia cristiana – scrive: «Il vangelo, dove risplende gloriosa la croce di Cristo, invita con insistenza alla gioia» (n.5). Chi incontra il vangelo, quindi, incontra il Risorto e fa esperienza del suo amore: «con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia (n.1)». Francesco ci interroga: «Se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può contenere il desiderio di comunicarlo agli altri?» (n.8). Da qui, la riflessione sulla dolce e confortante gioia dell’evangelizzare (cf. n.2), che è gioia per una notizia degna di essere accolta e capace di trasformare la vita delle persone e della Chiesa.[4]

La gioia nella Chiesa. Il papa, scrive: «Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il vangelo a tutti, in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno» (n.23). La Evangelii gaudium, che si pone in continuità con l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI (8 dicembre 1975), approfondisce di questa, in modo particolare, la dolce è confortante gioia d’evangelizzare (n.80).  La gioia, quindi, è tratto essenziale del volto della Chiesa in missione permanente. Una gioia «che brilla sempre sullo sfondo di una memoria grata: è una grazia cha abbiamo bisogno di chiedere» (n.13). Una gioia che la Chiesa può comunicare anzitutto con atteggiamenti di prossimità, accoglienza e tenerezza adempiendo, così, al suo essere Madre.

La gioia nelle comunità cristiane. La parrocchia, Chiesa che vive tra le case degli uomini, è «santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costanteinvio missionario. […] Attraverso tutte le sue attività, […] incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti di evangelizzazione» (n.28). In essa e da essa, quindi, si contagia la gioia. Francesco,(cf. n.1) evidenzia ed approfondisce vie per irradiare gioia: celebrazione, parola di Dio (cf. n.153), predicazione (inculturata) (cf. nn.142-143-144), adorazione (cf. n.264), pietà popolare (n. 124), carità generosa, dialogo, memoria (cf. nn.13-142-233), bellezza (cf. n.167), cultura locale, impegno sociale e politico.

La gioia nella società. Ai cristiani, Francesco ricorda: «La proposta è il regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui egli riuscirà a regnare tra noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti» (n.180). Aggiunge: «Non si può affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime al cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siamo chiamati alla pienezza eterna […]. Egli ha creato tutte le cose perché possiamo goderne (1Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune» (cf. n. 182). «Da una apertura alla trascendenza potrebbe formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale» (n. 205). Tutti siamo chiamati ad impegnarci nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri. Ma non come obbligo, […] bensì come scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità (cf. n.269).

La gioia nel cristiano, in ogni uomo.È stato già detto che Dio desidera la gioia dell’uomo e la desidera per tutti. Francesco scrive: Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui, perché nessuno è esclusodalla gioia portata dal Signore» (n.3). Circa il rapporto gioia – vita, il papa incoraggia i cristiani e li esorta ad irradiare gioia anche nei momenti di difficoltà. Annota: «Riconosco che la gioia non si vive allo stesso modo in tutte le tappe e circostanze della vita, a volte molto dure. Si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto» (n.6). Chi ha incontrato il Risorto non può che sentirsi, in ogni istante della vita, persona-anfora (cf. n.86) e missione su questa terra (cf. n.273): consapevole che ogni uomo «è immensamente sacro e merita affetto e dedizione» (n.274), «svilupperà anche il gusto spirituale di rimanere vicino alla vita della gente, fino al punto di scoprire che ciò diventa fonte di una gioia superiore» (cf. n.268).

Per comunicare la gioia sono necessari i gesti prima ancora delle parole. Il filosofo Friedrich Nietzsche. rivolgendosi ai cristiani, scrisse: «Le vostre facce sono state per la vostra fede più dannose delle vostre ragioni. Se il lieto messaggio della Bibbia vi stesse scritto in viso, non avreste bisogno di esigere così costantemente fede nell’autorità di questo libro». Niente facce da funerale, quindi (cf. n.10). Francesco, auspica «evangelizzatori […] la cui vita irradi fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo» (n.10).

E vorrei pure ricordare i quattro principi che secondo papa Francesco rendono desiderabile la nostra vita e la portano alla giustizia e alla pace (EG 222- 237):

il tempo è  superiore allo spazio

Stiamo sempre a vivere tra una urgenza che ci obbliga a affastella cose, azioni, impegni, che ci danno mal di fegato e burn out e l’utopia che ci apre a un futuro diverso che la nostra speranza ci rende praticabile. Lo spazio indica le nostre frette, il tempo il nostro orizzonte. Viviamo all’orizzonte. Iniziamo processi che camminano piuttosto che occupare spazi.

L’unità prevale sul conflitto

La nostra vita non è una somma di conflitti, di parzialità, di pezzi, ma una visione di riconciliazione, di convivenza di tante differenze. Questa va cercata non la disperisone in tanti conflitti quasi fossero la visione definitiva della vita

La realtà è più importante dell’idea

Siamo troppo pieni di parole, di congetture, di supposizioni, di astrazioni. Dio non è così. Si è fatto carne, si è immischiato nella realtà e le ha dato aperture di infinito. Certo che si deve pensare, ma dobbiamo condurre il pensiero, la parola alla realtà

Il tutto è superiore alla parte

E’ la tensione tra globalizzazione e localizzazione, tra le varie forme di vita e la convergenza in un unico progetto. Questa operazione la si può fare azzerando le originalità o componendole. E’ chiaro che occorre avere l’orizzonte largo alla globalità, ma senza uccidere le peculiarità Tra la sfera che fa una grande unità, ma cancella ogni identità, scegliamo il poliedro che opera ancora in unità, ma lascia le facce visibili e orientate all’unità.


[1] Benedetto XVI, Discorso alla 61a Assemblea Generale della CEI, 27 maggio 2010.

[2] Per «pontefici del Vaticano II» intendo: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. Ho ritenuto opportuno ricordare in questo studio, poiché legata alla parola gioia, l’esortazione apostolica Gaudete in Domino, di Paolo VI (9 maggio 1975) e più volte citata negli scritti pastorali di J. M. Bergoglio.

[3] Sinodo dei vescovi, La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Proposizioni finali, XIII Assemblea Generale Ordinaria, 7-28 ottobre 2012.

[4] cf. M. Semeraro, introduzione alla Evangelii gaudium, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013.

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