Missione Popolare: schede per i centri di ascolto

Itinerari di evangelizzazione e catechesi per adulti 

nella forma dei “Centri di ascolto della Parola di Dio”

Istruzioni per l’uso

I “Centri di Ascolto della Parola di Dio” sono luoghi per  il ricupero di ciò che nella vita cristiana delle persone e delle comunità è prioritario. Tutti i battezzati hanno bisogno di tale ascolto, per attingere, dalla Parola che salva, luce, speranza e amore; ma, conformemente alla scelta pastorale del nostro Vescovo, la prima preoccupazione di una parrocchia va data alla catechesi o, meglio, alla evangelizzazione degli adulti, in relazione alla quale si sta rinnovando la stessa iniziazione cristiana dei fanciulli e dei ragazzi.

Giustamente in diverse diocesi si sta diffondendo sempre più quella forma di evangelizzazione degli adulti che va sotto il nome di “Centri di ascolto della Parola di Dio nelle case”. La preferenza a questa forma, che non intende essere l’unica, è legata al fatto che in essa si colmano alcune lacune vistose della nostra pastorale: qui la Parola di Dio è rimessa al centro; la comunità con spirito missionario va ad incontrare gli adulti nel loro ambiente (la casa); qui si fa spazio alla corresponsabilità dei laici anche per l’annuncio del vangelo (catechisti per adulti); si ricupera il gusto di essere Chiesa in una significativa esperienza di fraternità e di comunione; qui, soprattutto, la Parola di Dio non toglie la parola agli uomini ma la sollecita, in un continuo confronto tra la vicenda di Gesù e la nostra vicenda.

Perché questo avvenga è importante che si ricorra ad un metodo adeguato, così che si stabilisca una correlazione tra le esperienze fondanti della storia della salvezza e le  esperienze umane nelle quali quella storia intende continuare. Dalla vita alla vita; ma passando attraverso l’ascolto di quella Parola di vita,  che era fin da principio ed ora si è fatta visibile (cfr. 1 Gv 1, 1-3). (Fr. Enzo Biemmi)

Per facilitarne l’uso, queste “schede” presentano una sintesi del testo con le indicazioni specifiche per il conduttore.

IL METODO CONSIGLIATO

Il metodo proposto in questo itinerario cerca di evitare due rischi, quello legato a uno stile solo espositivo, e quello che si riduce a un’animazione degli adulti senza fornire loro contenuti e significati nuovi. Un metodo prevalentemente espositivo lascia l’adulto passivo e non incide che relativamente sulle sue precomprensioni religiose. Un metodo di tipo “animazione” favorisce al massimo la partecipazione, ma lascia spesso in secondo piano l’offerta di elementi nuovi, che permettano agli adulti di progredire nella loro fede.

L’equilibrio tra contenuto e metodo vuole essere l’originalità di tale proposta. La scelta fatta è la seguente: trasformare i contenuti in processi di apprendimento. Questa scelta permette di inte¬grare costantemente il vissuto delle persone con la parola di Dio.

Per l’attuazione di questa scelta pedagogica, si propongono tre fasi ideali per ogni testo biblico:

 1. PER ENTRARE IN ARGOMENTO (fase “proiettiva”)

Questa prima fase consiste in una iniziale reazione istintiva dei partecipanti di fronte al tema affrontato. La finalità di questo primo momento è quella di permettere l’espressione delle precomprensioni e degli interrogativi degli adulti, Dal punto di vista educativo, questa fase è di grande importanza, in quanto favorisce un primo sguardo sul tema da parte del gruppo, permette all’ani¬matore di conoscere i problemi che le persone hanno, favorisce lo scambio delle esperienze dei partecipanti.

Per essere proficua, questa fase deve concludersi con la sin¬tesi e l’interpretazione di quanto è emerso. Il presente sussidio propone quindi delle domande e delle attività semplici che favoriscono questa prima fase. Adattandosi al gruppo, l’animatore- missionario potrà modificarle secondo la necessità.

2. PER APPROFONDIRE IL TEMA (fase di approfondimento)

Questo secondo momento mira a favorire un approfondimento del tema, accolto nella sua alterità rispetto alle precomprensioni espresse nella prima fase. Ciò deve essere fatto o da un esperto o dall’animatore che si è preparato in precedenza.

Il commento proposto può facilitare l’analisi del tema, perché offre, oltre a un’analisi attenta, una serie di significati e attualizzazioni. L’animatore – missionario  può allora completare e integrare quanto emerso.

L’approfondimento è tanto più produttivo quanto più ven¬gono tenute in considerazione le precomprensioni emerse nella prima fase e gli interrogativi degli adulti.

3. PER TORNARE ALLA VITA (fase di riappropriazione)

Questa ultima fase mira a favorire negli adulti l’interiorizza¬zione della Parola ascoltata, la sua riespressione e la sua attualizzazione.

Agli effetti del dinamismo della fede, questo momento è essenziale. Infatti, solo quando l’annuncio risuona nell’ascoltatore, questi diviene un interlocutore attivo.

Le modalità di interiorizzazione, riespressione e attualizzazione sono varie. L’animatore-missionario  saprà intelligentemente adattare al suo gruppo e alla sua comunità.

La preghiera finale è un momento ideale per la riespressione personale.

Un modo diverso di fare catechesi con gli adulti

La catechistica non deve restare lontana dal vissuto delle persone e la Parola deve risuonare in loro “come una apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori e insieme una soddisfazione alle proprie aspirazioni” (CEI, Il Rinnovamento della catechesi, n. 52).

La scelta fatta nella presente proposta è un tentativo di mettere in atto una delle acquisizioni fondamentali del recente movimento catechistico italiano: il passaggio da una catechesi come trasmissione di conoscenze a una catechesi come correlazione di esperienze, le esperienze fondanti cristiane e le esperienze delle persone che accettano un cammino di fede. Il vissuto della gente è di diritto parte del contenuto della fede, perché il Dio che si è auto-comunicato in Cristo Gesù è il Dio con noi: “Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio. È questa, del resto, esigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio. Il Dio della Rivelazione, infatti, è il “Dio con noi”, il Dio che chiama, che salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata a irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla” (CEI, li Rinnovamento della catechesi, n. 77).

Consigli per l’animatore-missionario

La prima cosa di cui è bene essere coscienti è che in ogni atto di catechesi vengono svolte e vanno mantenute in equilibrio due funzioni: quella di animazione e quella catechistica.

La funzione di animazione consiste in quell’insieme di competenze che mirano a favorire una comunicazione rispettosa tra i membri del gruppo: chiarire gli obiettivi e il tema, aiutare tutti a esprimersi, frenare i chiacchieroni, mantenere nell’argomento, collegare quello che viene espresso dai singoli partecipanti, riassumere, risolvere eventuali conflitti…

La funzione catechistica consiste nella capacità di far accedere correttamente alle fonti della fede (bibliche, liturgiche, della tradizione…) e di collegare i contenuti di fede con il vissuto delle persone.

La funzione di animazione

Per quanto riguarda questa funzione, ci si limita qui a dare alcuni consigli nei riguardi delle seguenti capacità:

  • Suscitare. L’animatore è un maieuta. Egli sa dare la parola a tutti, limitare quella dei chiacchieroni, suscitare quella dei timidi. Egli sa che l’equilibrio nella presa di parola dipende la lui.
  • Tessere legami. L’animatore è un tessitore. I partecipanti spesso non tengono sufficientemente conto di quanto viene detto dagli altri. L’animatore allora interviene invitando a stabilire nessi tra quello che viene detto. Egli stesso fa sovente questa operazione di collegamento. In questo modo l’animatore crea coesione e aiuta a procedere in maniera più fruttuosa.
  • Riassumere. L’animatore è la memoria del gruppo. È importante che l’animatore ogni tanto riassuma quanto è emerso e riorienti la discussione. Questo è particolarmente utile alla fine delle differenti fasi indicate.

• Sensibilizzare ai tempi.  Il tempo è un bene a disposizione del gruppo e non va sciupato. Il metodo proposto esige per ragioni formative che tutte e tre le fasi siano percorse. Pertanto l’animatore curerà che la fase iniziale (Per entrare in argomento) non prenda tutto il tempo disponibile dell’incontro e farà in modo che ci sia sempre una fase di riappropriazione (Per tornare alla vita).

L’animatore-missionario richiama di tanto in tanto il tempo che re¬sta, ma senza essere fiscale e angosciante. Egli motiverà al gruppo la necessità di rispettare un modo di procedere ordinato e disciplinato.

La funzione catechistica

La funzione catechistica è quella che deve assicurare l’accostamento corretto ai contenuti della fede. La fede, infatti, ha bisogno di conoscenze.

Possono verificarsi però su questo punto due equivoci molto dannosi:

– pensare che l’atto catechistico consista e si esaurisca in questo: la trasmissione completa e sistematica delle verità della fede, facendone una sorta di teologia in piccolo;

– credere che la trasmissione di conoscenze debba avvenire per forza attraverso la spiegazione e la parola del catechista.

Ecco alcuni consigli per svolgere correttamente la funzione catechistica:

• Limitare i contenuti. Quando prepariamo un incontro, noi prevediamo sempre un numero di informazioni superiore a quanto non sia necessario. E molto utile domandarsi: “Cosa è assolutamente necessario che le persone apprendano per raggiungere gli obiettivi fissati per questo incontro?”. I contenuti che non portano al raggiungimento degli obiettivi sono superflui, qualunque sia il loro valore oggettivo e il loro interesse per l’animatore. Nella nostra esperienza verifichiamo che sovente ingombriamo gli incontri di informazioni utili in se stesse, ma inutili in vista degli obiettivi.

• Far lavorare sui documenti della fede. È bene limitare la propria parola verbale (tipo lunghe spiegazioni o lezioni) e prevedere invece un accostamento intelligente ai documenti della fede (biblici, liturgici, della tradizione, della cultura…). C’è una ragione fondamentale, teologica e pedagogica, per questa scelta. Il mistero di Gesù Cristo è per noi accessibile attraverso le esperienze fondanti cristiane, e queste ci sono date nei documenti della fede. Far incontrare i documenti, è permettere l’accesso diretto al mistero. Inoltre, dal punto di vista pedagogico, è molto più sano “triangolarizzare” la relazione che ridurla a un dinamismo frontale (catechista e catechizzando). L’accesso ai documenti costituisce un terzo spazio tra il catechista e l’adulto in formazione che assicura la libertà di movimento a entrambi.

• Fornire delle griglie di lavoro. Offrire documenti non basta. È compito del catechista fornire delle chiavi di lettura, griglie e piste per interpretarli. Una domanda o due, ben formulate, bastano talvolta a condurre il gruppo a uno sguardo corretto sui testi. Le domande proposte dal sussidio sono semplici. Il catechista non avrà paura a modificarle a seconda del proprio gruppo e dei suoi obiettivi.

•Utilizzare dei mezzi semplici. I mezzi non sono uno sfizio di qualche spirito particolarmente creativo. La comunicazione passa attraverso i mezzi: prevedere una fotocopia per tutti, scrivere i risultati delle impressioni su un cartellone, dare all’inizio una specie di ordine del giorno, mettere a disposizione dei libri per l’approfondimento… C’è una teologia dei mezzi.

Temi e brani per i centri di ascolto (orientativi)

E’ importante preparare il luogo dell’incontro con un tavolinetto al centro, con tovaglia un lume e la  con la Bibbia aperta e un crocifisso. E’ sempre molto importante curare la fase iniziale dell’incontro con una preghiera ( invocazione dello Spirito santo : Vieni, Santo Spirito manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Vieni, padre dei poveri, vieni, datore dei doni, vieni, luce dei cuori. Consolatore perfetto; ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo. Nella fatica, riposo, nella calura riparo, nel pianto conforto. O luce beatissima, invadi nell’intimo il cuore dei tuoi fedeli. Senza la tua forza nulla è nell’uomo, nulla senza colpa. Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina. Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato. Dona ai tuoi fedeli che solo in te confidano i tuoi santi doni. Dona virtù e premio, dona morte santa, dona gioia eterna. Amen), un saluto a tutti i presenti, con una breve presentazione di ciascuno, con la dichiarazione dell’obiettivo del centro d’ascolto. Dopo una preghiera iniziale (ancora meglio un canto) si può fare la lettura del testo scelto e darne una breve spiegazione, offrendo poi la parola a chi vuole parlare (magari suggerendo indicazioni su un massimo di tempo da utilizzare, per evitare che il tempo venga monopolizzato da qualcuno), aiutando il gruppo a riprendere il “filo” qualora si dovesse perdere e facendo un minimo di sintesi alla fine. I testi suggeriti si richiamano alla necessità di scoprire nella creazione, nella vita del cosmo come in quella personale, una “chiamata” di Dio ad “esserci” nella esperienza dell’umanità.

PRIMA SERA : Dalla chiamata … al servizio “…Dio vide  quanto  aveva  fatto,  ed  ecco,  era  cosa  molto  buona.  E  fu  sera  e  fu  mattina: sesto giorno.” (Gen 1,31)

La bellezza del creato che precede ogni dimensione problematica. La bellezza dell’umanità concepita come creatura. Dio è autore del creato: gratitudine nei suoi confronti. La creazione che avviene per successive “separazioni” o “distinzioni” ci richiama la necessità di stabilire uguaglianze e differenze, di stabilire identità e ruoli affini e differenti, ma soprattutto ci ricorda la necessità di essere se stessi, consapevoli della propria originalità, ma anche della propria “limitatezza”. Nessuno può essere “tutto”! L’importanza della memoria della nostra origine: la terra! In latino “humus”, da cui la parola “umile”. La dimensione della limitatezza che caratterizza l’essere umano ci spinge a sentire l’altro/l’altra non come potenziale avversario/nemico ma come compagno/a di viaggio: la dimensione relazionale della vita! Nella nostra dimensione “sociale” c’è una “vocazione” di Dio ad andare verso gli altri. E ad essere aperti nei confronti di tutti.

Gen 1,27-31 : Tutte le cose che Dio ha creato sono in armonia tra loro; si legge al versetto 24: tutte sono a coppia, una di fronte all’altra, egli non ha fatto nulla di incompleto: la luce e le tenebre, il cielo e la terra, il sole e la luna … maschio e femmina.

Dunque anche l’uomo e la donna fanno parte di questa armonia del creato, il loro stesso atto creativo rappresenta in sé un’armonia, una completezza in cui il Creatore si compiace. Il fondamento di questa armonia sta nell’esecuzione stessa degli ordini di Dio: l’espressione e Dio disse precede ogni azione creativa; così nel Siracide i versetti 15 e 24 spiegano questa azione: con le parole del Signore sono state create tutte le sue operee che tutte queste cose vivono e resteranno per sempre in tutte le circostanze.

Il Verbo dunque è il creatore: sulla Parola si fonda ogni azione, dalla creazione al compimento dei tempi.

E’ evidente che perché ci sia armonia, alla base ci debba essere un elemento di dipendenza: il bisogno l’uno dell’altro: non sarebbe luce senza le tenebre, non sarebbe cielo senza la terra, non il sole senza la luna, così l’uomo senza la donna; ancora una conferma di ciò dal Siracide versetto 25:l’una conferma i meriti dell’altra, chi si sazierà nel contemplare la sua gloria?. Ognuno è ugualmente necessario all’altro, sia per trovare se stesso, sia per trovare Dio, e nessuno è in funzione dell’altro, ma a servizio dell’altro.

La prima vocazione, nel rispetto di questa armonia, è essere per l’altro come uno specchio, per riflettere in uno l’identità dell’altro: sono uomo se mi rifletto nella donna e viceversa. Ogni individuo è chiamato a realizzare, in se e nell’altro, l’immagine di Dio e deve ammettere la propria incapacità a realizzarsi da solo: Non è bene (Gn 2,18) significa: non è possibile, non è pensabile; l’uomo solo è nulla.

La relazione uomo-donna è il paradigma per ogni relazione a far tempo dai figli e per arrivare ad ogni rapporto interpersonale: l’uomo prova gioia di fronte alla donna, non perché ne intravede una relazione parentale, ma perché si rende conto di avere di fronte un altro essere a lui simile: osso delle mie ossa, carne della mia carne. L’uomo porta dentro di sé lo stampo di un bisogno di relazione con l’altro; ogni individuo è come la metà di un incastro: ha bisogno dell’altro per essere completamente se stesso.

Si aggiungono così elementi che si accordano in questa armonia: essere con Dio non è solo vivere ordinati al proprio compagno/a, ma vivere ordinati, in prima istanza a questi, e quindi a tutto il creato. L’uomo, l’uomo e la donna, l’uomo la donna e i loro figli, non sono stati creati per essere soli.

Il rapporto uomo-donna ci aiuta a capire meglio l’incarnazione del Verbo. Dio si fa uomo, si pone accanto all’uomo, per rivelargli il suo destino di rapportarsi con Dio. L’incarnazione propone al cristiano il principio assoluto della solidarietà umana; quello che facciamo per l’altro, lo facciamo a Dio; l’altro è la strada obbligata per andare a Dio. L’egoismo e la ricerca di sé portano al peccato e dunque alla morte spirituale, e la morte si vince con l’amore, che è abbandono all’altro, fiducia nell’altro, consegna all’altro. Amore è scoprire nell’altro il volto di Dio. Ogni volta che si rinuncia a queste dimensioni di abbandono, di fiducia, di consegna di se stessi, si rompe l’armonia del creato e si diventa responsabili di una rottura con Dio e con gli uomini.

Ancora in Genesi 1,28 c’è un elemento che sancisce questa vocazione dell’umanità a partecipare dell’armonia del creato: Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi. Dio benedice l’intima unione tra l’uomo e la donna come se fosse il primo elemento di rispetto per questa armonia, prima ancora del dominio su tutte le cose e prima ancora della provvidenza materiale: è nello stesso atto creativo umano, a somiglianza di quello celeste, che essa è ordinata. La grazia di questa benedizione richiama il disegno di Dio di cui ci parla l’apostolo Paolo in Rom 8,28: sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Secondo questo disegno siamo chiamati ad essere santi; infatti, nella pienezza dei tempi, Dio glorificherà coloro che ha chiamato e giustificato, dicendo a quanti saranno raccolti alla sua destra: Venite, benedetti dal Padre mio: prendete possesso del Regno che per voi è stato preparato fin dall’origine del creato (Mt 25,34).

E’ dunque questa la vocazione a cui sono chiamati l’uomo e la donna nella loro condizione di sposati: vivere l’armonia del creato, benedetti dal Creatore, per prendere possesso, santificati, del Regno. Ordinare la propria spiritualità coniugale a questa vocazione, significa vivere con responsabilità il proprio tempo nella fedeltà e nell’impegno comune; significa concorrere all’armonia del creato, cioè adoperarsi perché sia risolta ogni situazione di peccato di cui il nostro cuore ne venga a conoscenza, in relazione a se stessi e agli altri; significa fare della carità il nostro bisogno.

Salmo 8, 4-5: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,   la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi,  il figlio dell’uomo, perché te ne curi”? Lo stupore dell’uomo di fronte al creato: la creazione e in essa l’uomo e la donna non sono frutto del caso, ma dell’Amore di Dio. Dio sceglie di creare me! Cfr anche Salmo 148 (inno al creatore), Efesini 2,4-10 (siamo infatti opera sua), Ger 18,1-12 ( Il vasaio e la sua creta)

SECONDA SERA: ” … Siate forti e la parola di dio dimora in voi “(1 Gv 2,12-18)

Presentato il comandamento nuovo dell’amore fraterno nei versetti preceddenti, l’autore espone ai cristiani un altro criterio per discernere la loro comunione con Dio: fare una scelta precisa tra l’amore di Dio, che si traduce nel compiere la sua volontà e l’amore verso la mondanità.

A) “Scrivo a voi, figlioli…”

Con slancio affettivo Giovanni si rivolge all’intera comunità dei suoi figli, chiamati con due termini greci “teknìa”e “paidìa” (che sono praticamente sinonimi: “piccoli figli”) per confermare loro, oltre ogni timore e smarrimento, che i peccati sono stati perdonati in virtù del nome di Cristo (v. 12) e che hanno conosciuto il  Padre (v. 14), il cui amore si è reso visibile e concreto nell’Incarnazione del Figlio Unigenito: “In  questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (4, 9-10). Il cammino dei  cristiani inizia  – ed è poi continuamente sorretto – da questa fondamentale gratuità, da questo perdono sempre offerto. È l’esperienza del perdono ad aprirci  gli occhi su Dio e a  farci  intravedere il suo volto di Padre, sempre ricco di misericordia.

B) “Scrivo a voi, padri, che avete conosciuto colui che è dal principio” (vv. 13 e 14).

Agli anziani, chiamati con venerazione “padri”, Giovanni  indirizza per ben due volte le stesse parole, evidenziando la loro lunga e provata esperienza di fede. A differenza degli “eretici”, che hanno abbandonato la conoscenza di “colui che è dal principio” per cercare le novità, questi padri sono rimasti sempre ancorati alla tradizione originale. Giovanni ravvisa in loro il grande dono della perseveranza lungo il fluire del tempo: hanno conosciuto Cristo , gli sono rimasti fedeli e stanno dimostrando  la loro paternità sollecitando la comunità a rimanere salda nella fede ricevuta.

C)  “Scrivo a voi,giovani, perché avete vinto il maligno…perché siete forti e la parola  di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno” (vv. 13b – 14b).

I giovani rappresentano nella comunità la vitalità, la forza, di chi accoglie la Parola di Dio nella lotta che vince il maligno. La vita cristiana è senza dubbio esperienza di salvezza attraverso il perdono dei peccati, ma è anche combattimento e resistenza contro le tentazioni: combattimento spirituale, duro, faticoso, quotidiano, ma  sereno e  fiducioso nella sicurezza della vittoria.

A scanso di equivoci, però, Giovanni chiarisce che la vittoria sul maligno può avvenire solo se la Parola di Dio dimora nel cuore.  Se siamo infatti in grado di vincere il Perverso, è unicamente perché Gesù è venuto a distruggerne le opere.

D) “Non amate il mondo né le cose del  mondo!” (vv.15).

Come nel quarto Vangelo, anche in questa lettera il termine “mondo” ricorre con notevole frequenza, e i diversi passi possono sostanzialmente ricondursi a tre significati fondamentali.

In alcuni il senso è, per così dire, neutrale: “mondo” indica il luogo dove gli uomini vivono e operano le loro scelte, il luogo dove convivono buoni e cattivi, discepoli e falsi profeti, e dove luce e tenebre, verità e menzogna si confrontano (cfr 4,3..9..17).

In altri passi il senso è positivo: il mondo è l’umanità intera, senza distinzioni, che Dio ama e che Cristo è venuto a salvare (cfr 2,2; 4,14).

In altri passi ancora, i più frequenti, il senso è negativo e perfino ostile: il mondo è una realtà da non amare (2, 15-17), non ha conosciuto Dio e non riconosce i suoi discepoli (3, 1) addirittura li odia (3, 13), giace nel potere del maligno, è il luogo dove regna lo spirito dell’anticristo,  è la mentalità da cui gli eretici traggono ispirazione (4, 5); c’è perciò totale incompatibilità tra il mondo e Dio (2, 16; 5, 4-5).

“Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perchè tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne,la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre,ma dal  mondo” (vv.15-16).

I cristiani vengono chiamati a prendere una netta posizione di fronte al mondo. Non devono amarlo né idolatrarlo: il loro amore dev’essere indirizzato a Dio e agli uomini.

Ben sapendo che nel cristiano, come in ogni uomo, opera la forza seducente della tentazione al male,  per rendere concreto il suo messaggio Giovanni seleziona tre realtà peccaminose che caratterizzano la fisionomia di quel mondo da cui occorre prendere le distanze.

1. “La concupiscenza della carne”: il comportamento di chi è teso unicamente a soddisfare il proprio egoismo e le proprie passioni. Chi agisce in questo  modo si chiude alla luce di Dio, si oppone al suo Spirito e alla sua volontà, perché “quel che è generato dalla carne è carne, quel che è generato dallo Spirito è Spirito” (Gv 3,6).

2. “ La concupiscenza degli occhi”: se la carne indicava la tentazione che assale l’uomo dall’interno, gli occhi evidenziano le tentazioni che lo aggrediscono  dall’esterno: è il fascino delle apparenze, dei valori effimeri e illusori. La concupiscenza degli occhi è una vita priva di sostanza. Alcuni tipi di cattivi desideri sono particolarmente associati allo sguardo: l’orgoglio, la voracità, l’insaziabile ricerca dei beni e del godimento della vita,  l’impurità.

3. “La superbia della vita”: il termine greco “alozoneìa” viene tradotto in diversi modi: arroganza, ostentazione di lusso e di sfarzo, presunzione. È l’atteggiamento di chi si reputa l’unico metro della realtà e intende affermarsi contro gli altri e sopra gli altri. È la ricerca della propria gloria ad ogni costo. È l’esatto contrario di quanto raccomanda il vangelo in  vista della comunione fraterna: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti” (Mc 9,35).

“Il mondo passa … ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (v. 17): non è un’espressione di amaro pessimismo sulle realtà terrene e sul loro ingannevole aspetto, bensì una valutazione religiosa delle realtà fuggevoli del mondo. Affidarsi al mondo anziché a Dio vuol dire lasciare ciò che rimane per ciò che passa: un baratto insensato.

E) “Figlioli, questa è l’ultima ora… molti anticristi sono sorti…” (v. 18).

Quando nel Vangelo Giovanni parla dell’ “ora” indica quella nella quale Gesù  attraverso la  passione, morte e risurrezione “passa da questo mondo al Padre” (Gv 13,1; 17,1). Ma a partire dall’alba di pasqua è scoccata “l’ultima ora” della storia, quella che si estende fino alla “parousìa” = al ritorno di Cristo nella gloria. L’ultima ora non è, perciò, la “parousìa”, la conclusione della storia, ma il tempo che la prepara. “Ultimo” non ha in questo linguaggio cristiano  un senso cronologico, ma teologico. È il tempo dell’attesa di Cristo: tempo decisivo e urgente. È l’ultima ora perché è iniziata la tappa finale del disegno di Dio. Non sappiamo se  lunga o breve. Certamente è carica di urgenza, dato che tutte le possibilità, positive e negative, sono in gioco.  È tempo di pienezza, perchè è il tempo dell’Incarnazione e della Chiesa, ma anche tempo di aspra lotta contro le insidie del Maligno.

Lungi dal dedicarsi a speculazioni astratte sugli eventi escatologici, Giovanni storicizza e attualizza la figura mitica dell’anticristo, la discerne nell’ambito della vita comunitaria, e di conseguenza mette in guardia: “Come avete udito che deve venire l’anticristo,  di fatto ora molti anticristi sono apparsi. Da questo conosciamo che è l’ultima ora”. Chi sono questi anticristi?

Giovanni non pare alludere a personaggi provenienti dall’esterno, bensì  a quei cristiani, che “provenendo dalla stessa comunità, ora la minacciano dall’interno e dall’esterno”.

“Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri”. Facevano parte della comunità ma in realtà non le appartenevano; erano dei dissidenti, non dei discepoli di Gesù Cristo; amavano più  le loro idee e i loro progetti che i reali fratelli e sorelle con cui vivevano. Avevano  rotto i rapporti di amore con la comunità ed erano dei menzogneri, perché negavano che Gesù è il Messia e negavano il Padre e il  Figlio (vv. 23-24). Sgretolavano l’unità della persona di Cristo e della sua opera salvifica, rendevano evanescente, arbitraria e illusoria la possibilità della conoscenza di Dio e della comunione con Lui, spezzavano la comunione con i  credenti.

“Ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo…Non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa insegna” (vv. 20-27).  Cos’è  questa unzione? Per alcuni esegeti è la Parola di Dio, per altri è lo Spirito Santo. Si può  dire che quest’unzione, che ha il compito di insegnare, è lo Spirito Santo che “insegna ogni cosa”, “guida alla verità tutta intera” ricordando la parola di Cristo, e, nello stesso tempo, è appunto il Vangelo reso vivente nel cuore dei credenti dallo Spirito Santo.

Sant’Agostino spiega in modo mirabile il pensiero di Giovanni: “Fratelli, che cosa facciamo quando  vi diamo questi insegnamenti? Se è la sua unzione quella che vi istruisce su tutto, il nostro è come un lavoro inutile. Perché tanta insistenza nell’istruirvi? Non è meglio affidarvi all’unzione dello Spirito, cosicché sia essa ad istruirvi? È una domanda che pongo a me e a Giovanni… Tu hai detto: «La sua unzione vi istruisce su tutto» Perché allora hai scritto ad essi questa lettera? Perché istruirli? Perché ammaestrarli? Perché edificarli? C’è qui un grande mistero sul quale occorre riflettere, fratelli. Il suono delle nostre parole percuote gli orecchi, ma il vero maestro sta dentro (magister intus est). Non crediate di poter apprendere qualcosa da un uomo: noi possiamo esortare col suono della voce, ma se dentro non v’è chi insegna, inutile diviene il nostro rumoreggiare… Il maestro che veramente istruisce è dunque quello interiore (interior magister): è Cristo, è la sua ispirazione a istruire. Quando manca la sua ispirazione e la sua unzione, le parole esterne fanno soltanto un inutile rumore”.

Isaia 43, 1-7: “Tu sei prezioso ai miei occhi”: Dio provvede per me e mi dà la possibilità di potermi fidare di più di lui. Chi è incapace di fiducia negli altri (e anche in Dio) spesso è incapace di fiducia in se stesso. Ritrovare la fiducia significa vivere meglio… poter contare su qualcuno che la fiducia ce la dà, ci aiuta a non sentirci soli. Cfr anche Lc 12,22-32 (perché vi affannate?) o Salmo 61 (Solo in Dio riposa l’anima mia), Salmo 90 (Dio è rifugio).

TERZA SERA: “… fede che fu prima nella tua nonna Loide” ( 2 Tim 1,5)

In greco la traduzione letterale dice: “avendo ricevuto il ricordo della fede…” si è pensato a un inviato, o ad una lettera recente di Timoteo che avesse persuaso Paolo della sincerità della fede di lui. Ma Paolo non aveva bisogno di simili mezzi per ritener genuina, senza simulazione o secondi fini, la fede di colui che gli era stato compagno per tanti anni. La locuzione equivale semplicemente al “ricordandoci”. (Cfr. locuz. analoga 2 Pietro 1,9). E mentre rievoca nella sua mente la fede sincera di Timoteo, ricorda con compiacenza che una fede simile era abitata nel cuore di due donne care al giovane evangelista, ed ora morte, la sua nonna materna Loide e la sua madre Eunice. Di quest’ultima sappiamo da Atti 16,1 ch’ella era una pia giudea maritata a un greco. La sincerità della fede giudaica di quelle donne le aveva poi condotte a ricevere come loro Salvatore Gesù, il Messia predetto nelle Scritture e annunziato da Paolo in Listra. Doveva esser dolce e in pari tempo incoraggiante per Timoteo d’esser l’erede spirituale di quelle sante donne.

1. L’apostolato cristiano è fondato sulla promessa della vera vita in Cristo. Qualora Dio nell’amor suo non fosse intervenuto nella storia, non avesse mandato il suo Figlio per dare la vita eterna a quelli che credono in lui; non sarebbe mai nato l’apostolato. Nel corso dei secoli ed anche oggi, quelli che lasciano ogni cosa per recarsi fra popoli selvaggi quali missionari lo fanno per proclamare a coloro che sono morti spiritualmente “la promessa della vita in Cristo Gesù”. Chi non avesse che delle speculazioni da recare, o qualche nozione di civiltà, non sarebbe annunziatore della buona novella. Ogni ministero che non faccia della proclamazione della vita eterna data da Dio in Cristo il suo compito essenziale, non merita il titolo di cristiano.

2. Paolo ebbe il privilegio di aver molti figli spirituali. Intere chiese dovettero ai suoi lavori la loro fondazione. Ma fra mezzo a tanti legami nuovi creati dalla fede con persone d’ogni nazione e ceto sociale, uno ve n’è che emerge per speciale forza e soavità ed è quello stabilitosi tra Paolo e Timoteo. Altri saranno stati figli genuini; ma Timoteo lo è in modo indubitato; la sua fede non è finta, egli l’ha vista alla prova per molti anni; altri avranno affetto per lui, ma l’affetto filiale di Timoteo supera ogni altro; la prolungata vita in comune, la collaborazione nell’opera di Dio, i riguardi del giovane evangelista per l’apostolo hanno creato fra le due anime un legame tenero ed indissolubile. Quando hanno dovuto separarsi il giovane ha versato molte lacrime e Paolo le ricorda con commozione e brama a sua volta di riveder presto e di tener presso di sè nel tramonto della vita colui ch’egli suol chiamare il suo “diletto figlio”. L’averlo con sè gli procurerebbe in mezzo a molte amarezze una gran gioia. Il ricordo del figlio è continuo nel cuor del padre, e così quello del padre nel cuor del figlio, ma non è sterile sentimentalismo, chè anzi si traduce in incessante preghiera che sarà ora un rendimento di grazie ed ora un implorar da Dio misericordia e pace e intendimento e forza sopra Timoteo. Più che questo, si traduce in opportune istruzioni ed in consigli che si estendono dal modo di propugnar la causa del Vangelo fino al modo di curar la salute del corpo. Sincerità di fede, comunanza di intenti, affetto profondo e costante, intercessione mutua, interessamento vicendevole nell’opera che ad ognuno è affidata, ecco altrettante condizioni di vera fratellanza e di amicizia in Cristo. Il cristianesimo non distrugge, anzi santifica ed intensifica i sentimenti naturali.

3. L’aver degli antenati e dei genitori che hanno servito o servono Iddio è un privilegio. L’eredità delle disposizioni dell’animo, l’influenza delle tradizioni di famiglia, quella dell’esempio posto dinanzi alle tenere anime, l’istruzione, l’educazione ricevuta da una madre, da un padre o da altri membri della famiglia, le preghiere presentate a Dio, sono altrettanti mezzi di cui Dio suole servirsi per trarre a sè i giovani. Non sono i soli; poichè mentre Paolo ha avuto antenati religiosi e ha da loro imparato a servir Dio con retta e scrupolosa coscienza, egli è poi stato condotto a Cristo dai cristiani che perseguitava, dal Cristo stesso, da Anania di Damasco. Mentre Timoteo ha avuto una madre ed una nonna credenti, egli è stato condotto insiem con loro a Cristo da Paolo. L’eredità e l’esempio dei maggiori vanno ricevuti con beneficio d’inventario e vanno considerati in quello che han di buono come un mezzo di progredire verso la verità ch’è congiunta alla pietà; ma ciò non toglie che noi dobbiamo esser grati a Dio se egli ci ha posti in condizioni favorevoli allo sviluppo della pietà e sentir l’obbligo di raggiungere un più alto grado di vita religiosa. I genitori ed in specie le madri fedeli, hanno in Eunice ed in Loide, come in tante altre pie donne di cui parla – o più spesso tace – la storia, un esempio della santa influenza ch’essi possono esercitare sui figli che Dio ha affidati alle loro cure.

Isaia 6, 1-10: “Eccomi, manda me”. Dio cerca me e manda me. La dimensione vocazionale della vita è qualcosa di comune a tutti i cristiani: siamo chiamati a gustare questa chiamata, nella nostra situazione di vita; ogni giorno il Signore ci offre la sua parola da ascoltare e da trasformare in un pezzo di vangelo vivo, quello della mia vita! Ogni giorno mi chiede di crescere nell’ascolto della sua parola, da cui posso avere forza e luce per orientare il mio cammino di giovane, di adulto, di anziano… La vita che il Signore mi regala, ha in se un dinamismo potente legato al “dono” di cui si compone… Una vita che non si apre, che non si trasforma a sua volta in dono diventa peso da portare, esperienza stanca e annoiata,  che è alla ricerca di “cose”… Una vita donata agli altri esprime la sua vera dimensione: “a che serve la vita se non per essere donata?”

QUARTA SERA: “…Se tu conoscessi il dono di Dio” ( Gv 4,5-10)

L’incontro del Signore con la donna samaritana avviene sotto il segno della tipologia biblica: Giacobbe e il “Più grande di Giacobbe”; la terra contesa ed il mondo di una nuova patria; l’acqua che disseta e l’Acqua della Vita che disseta in eterno; il pozzo di Giacobbe e la Fonte divina vivente; il culto vero, ma ristretto a gruppi tribali divisi tra essi, ed il culto al Padre nello Spirito e nella Verità; il Messia atteso ed il Messia finalmente venuto ed operante. Inoltre il testo è delimitato da un’interessante “inclusio letteraria”: la sete e la “fame” del Signore, la sua fatica e quella dei discepoli. Nell’incontro con la Samaritana il divino Catecheta ha una catecumena e le amministra una prima catechesi, che porterà i frutti a suo tempo. Gesù si siede quindi accanto  al pozzo e l’aspetta. La pericope allora va letta in tre momenti che aiutano meglio la comprensione.

I] I Samaritani

Erano Ebrei, che l’invasione assira dell’8° secolo aveva mischiato con popolazioni pagane. Si erano separati totalmente dagli Ebrei dall’esilio, in rapporti pessimi. Tuttavia avevano mantenuto la Tôrah di Mosè, che ancora leggono ogni sabato, si erano attestati sul Monte Garizim, dove avevano costruito un Tempio [poi distrutto rabbiosamente dagli Ebrei]; celebravano le feste del calendario dell’A.T., in specie la Pasqua [ancora oggi, con molto folclore], e attendevano anch’essi il Messia [Gv 4,25], chiamato il Taheb. Il Signore invita i discepoli ad alzare gli occhi sulla messe futura, la quale «già biancheggia» [4,25]. Sono i Samaritani che discendono dalla montagna verso Lui, avvertiti dalla donna. Giovanni annota: «credettero in molti», per le parole di Gesù [Gv 4,39-42], e lo proclamano «Salvatore del mondo» [4,42]. Questo rimanda all’evangelizzazione dei Samaritani, operata dal diacono Filippo [At 8,5-8], episodio che determina Giovanni a riportare l’incontro del Signore con i Samaritani. Filippo annunciò Cristo e fu accolto con gioia in tutta la città di Samaria [At 8,8]. Solo allora Gerusalemme inviò Pietro e Giovanni i quali imposero le mani ai Samaritani battezzati e conferirono ad essi il Dono dello Spirito Santo [At 8,14-17]. Si comprende allora come il Signore dica ai discepoli che essi raccoglieranno la messe dove altri si affaticarono prima di essi [Gv 4,36-38]. In seguito i Samaritani cristiani ebbero martiri come S. Giustino [+ 155] e santi fedeli.

II] La Samaritana

La causa è la fatica del Signore e la sua sete per il viaggio [Gv 4,6-7]. Qui si ha forse l’allusione alla sete sulla Croce [Gv 19,28]. E così chiede alla Samaritana l’acqua del profondissimo e fresco Pozzo  di Giacobbe. La Samaritana si schermisce perché Lui è uomo ed ebreo, e lei donna e Samaritana [vv. 8-9]. Gesù allora le rivela che, se è però riconosciuto, può darle il Dono [v. 10], che è l’Acqua Vivente, tó hýdôr tó zôn, con due articoli che segnano un’enfasi di accento. Questa è tale che viene dalla Fonte che zampilla per la Vita eterna [vv. 13-14]. Il rinvio è a Sir 24, l’«elogio della Sapienza», in cui la Sapienza rivela che dona Cibo e Bevanda che rinnovano la fame e la sete [Sir 24,24-29, Vulgata, che è l’unico originale]. Adesso invece la sete è tolta dalla Sapienza incarnata. Anche i Profeti invitano ad attingere l’acqua con gioia dalla Fonte del Salvatore [Is 12,1-6]. La Samaritana qui resta confusa, ma sorge in lei la prima fede [Gv 4,29: «che sia forse Lui il Cristo?»].

III] La “hôra” dell’adorazione del Padre

Ai dubbi della Samaritana il Signore oppone la rivelazione certa. I Samaritani adorano sul Monte Garizim, gli Ebrei sul Monte Sion. Ma questa è l’”ora” escatologica. I Samaritani adorano quanto non conoscono, invece la salvezza viene dagli Ebrei [Gv 4,22]. Il Padre Unico di tutti sarà ormai adorato nel mondo intero [4,21]. Ma Egli stesso si sceglie gli adoratori. Egli «è Spirito» puro e vuole adoratori «nello Spirito e nella Verità» che è Cristo stesso [vv. 23-24]. Perciò Cristo annuncia che il Cristo che porta la novità ultima è Lui [v. 26]. Questo è il Cibo suo, «fare la Volontà del Padre suo» [v. 34]. L’Evangelo di Giovanni appare una comune narrazione, mentre in realtà è una trattazione teologico-apologetica. L’opera si apre con una duplice presentazione di Gesù: Logos incarnato [1,1-18] e Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo [1,29]. Dopo queste premesse Gesù apre la sua missione in Galilea, a Cana [2,1-12], quindi riparte ufficialmente da Gerusalemme, dal Tempio [2,14-24]. Da qui inizia ad avvicinare la gente: i Giudei [Nicodemo: 3,1-21], i Samaritani [4,1-42], i pagani [il funzionario regio: 4,46-54]. La donna che Gesù incontra al pozzo di Sicar è “una personalità corporativa”, ma più ancora una comunità, anch’essa palestinese, quindi di origine ebraica, ma che aveva subìto contaminazione razziali e religiose da quando gli Assiri avevano distrutto il Regno del nord [722 a.C.], deportando gli abitanti e trapiantando sul posto colonie di pagani. Per di più risentiva dello scisma proclamato da Geroboamo a nome delle tribù del nord dal Regno del sud o di Giuda [1 Re 12,25-32]. Per queste ragioni, ricorda la donna a Gesù, i Giudei ed i Samaritani non familiarizzavano. Di fatti essi si attenevano solo o soprattutto al Pentateuco e non frequentavano il Tempio di Gerusalemme, ma celebravano le loro liturgie sul Monte Garizim. Gesù ha un messaggio per tutti i figli d’Israele, quindi anche per i Samaritani. Intanto egli era un galileo, quindi in partenza non trovava disagio ad incontrarsi con esponenti samaritani. Il difficile era far pervenire ad essi le sue proposte: la necessità di recedere dalle loro convinzioni e tradizioni. In tutti i modi, anche i Samaritani rientrano nella cerchia dei suoi destinatari, per questo «deve» passare attraverso il loro territorio.

L’incontro con la donna, simbolo della popolazione samaritana, avviene presso il pozzo di Giacobbe. Entrambi sono di fronte alla sorgente con lo stesso scopo: dissetarsi. Gesù è un missionario che passa da un villaggio all’altro; nessuna meraviglia che si stanchi e abbia sete. Ma l’acqua del pozzo diventa il pretesto di un’ampia discussione storico-teologica, ebraico-cristiana. La donna si sente interpellata [«dammi da bere»], ma sente anche offrirsi un’acqua diversa, «viva», capace di estinguere ben altra sete. Come il corpo, anche la mente, il cuore, possono trovarsi riarsi, addirittura inariditi, quindi nella necessità di venire rianimati, rivificati. Il dialogo si protrae per varie battute. La donna mette in risalto la grandezza del patriarca Giacobbe; Gesù non la smentisce. È il punto in cui le loro radici s’incontrano. Solo fa osservare che l’acqua materiale non basta a calmare tutte le esigenze ed i bisogni dell’uomo. Egli conosce un’altra acqua, che egli è in grado di offrire a chi gliene fa richiesta, che veramente estingue ogni sete. Nel seguito dell’Evangelo Giovanni presenta Gesù e invita gli uditori ad accostarsi a lui e bere l’acqua che egli offriva : «Chi ha sete venga a Me, e beva chi crede in Me. Come parlò la Scrittura: Fiumi dal seno di Lui scorreranno di Acqua vivente. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui» [7,37-38]. In parole più semplici, Gesù propone alla donna e a tutti gli ascoltatori il suo messaggio di pace e di amore. La Samaritana forse comincia a sospettare qualche secondo senso delle parole di Gesù, ma invece di chiedere opportune delucidazioni cerca di evadere intavolando altri discorsi. Gesù la blocca una prima [4,17-18], una seconda [4,19-20], una terza volta. Ella si è accorta di essere entrata in una controversia troppo ardua; più che pensare a risolverla, subito ritiene che sia meglio aspettare il Messia che deve venire a rendere ragione di tutto. Vuol fuggire, ma Gesù le si pone davanti e la ferma con le parole: «Sono io, il parlante a te» [v. 26]. L’evangelista non parla del processo di conversione che si è verificato nell’interlocutrice di Gesù; la mostra non solo convertita, ma già apostola di Cristo [vv. 28-29]. L’«anfora» con cui ella era venuta ad attingere l’acqua, rimane lì abbandonata; segno che il dono di Giacobbe non era così indispensabile soprattutto per chi ha ormai conosciuto e sperimentato l’acqua viva offerta dal Cristo. La conversione dei Samaritani è immediata ed entusiasta. E se la donna è stata il tramite della loro adesione al Messia, la loro fede però non si basa sulla sua narrazione, su quanto ella dice, bensì su quello che essi stessi hanno visto.

In questa grande pagina piena di luce profetica l’unica ombra che offusca il quadro è il ridimensionamento della parte e della funzione della donna nella conversione dei suoi connazionali. I suoi discorsi sul Messia sono ritenuti chiacchiere più che annunzi. Il verbo greco che l’evangelista adopera è intenzionale; denota «loquacità», quasi «pettegolezzo»; tutt’altro che ministero apostolico!

Gv 17, 11-26: “Li hai amati come ami me”: Dio mi ama e mi riempie di doni. Anche i doni ricevuti sono una vocazione, una chiamata a usarli per il bene nostro e dei fratelli/sorelle. Dove il dono non viene condiviso e offerto diventa sterile, senza frutto. Dicono il rabbini di Israele: Israele ha due laghi, uno al Nord e uno al Sud. Il primo è vivo e ricco di pesce, il secondo è morto. Volete sapere perché? Il primo riceve l’acqua a nord e la regala a sud, il secondo la riceve solo e non la da a nessuno…. Cfr anche Salmo 135: Eterna è la sua misericordia… Isaia 55, 1-11: ascoltate e voi vivrete; Osea 11, 1-9: quando Israele era giovinetto…

I testi sono ovviamente di carattere orientativo. Se i gruppi di ascolto si fanno sempre con le stesse persone, può essere utile usare i testi proposti su questo foglio in sequenza. Differentemente si possono usare quelli che vengono ritenuti più adatti per la situazione o la sensibilità dei partecipanti.

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