Convegno pastorale diocesano. Intervento di Mons. Domenico Pompili

Le vie della Misericordia per una chiesa in uscita

1. Misericordia e cura

Misericordia è una delle parole chiave del magistero di Papa Francesco. Essa compare ben 38 volte nell’esortazione apostolica  Evangelii Gaudium e una sola (esplicitamente) nell’enciclica Laudato sii, al n. 77:

“Così, ogni creatura è oggetto della tenerezza del Padre, che le assegna un posto nel mondo. Perfino l’effimera vita dell’essere più insignificante è oggetto del suo amore, e in quei pochi secondi di esistenza, Egli lo circonda con il suo affetto. Diceva san Basilio Magno che il Creatore è anche «la bontà senza calcolo», e Dante Alighieri parlava de «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Perciò, dalle opere create si ascende «fino alla sua amorosa misericordia »”.

In questo breve frammento emerge il significato più autentico del termine Misericordia nel magistero di Francesco, che è quello più vicino all’origine etimologica: miserere cordis, lasciarsi commuovere, toccare il cuore. E quando il nostro cuore è toccato, allora amiamo. Avere misericordia e amare sono sinonimi, se leggiamo con attenzione. E la ‘prassi’ della misericordia, il modo concreto in cui si esprime questo amore è la cura: un’altra parola che etimologicamente ha a che fare col cuore (cor urat, scalda il cuore) e dunque con il centro vitale (se il cuore è freddo siamo morti) e con la sede per eccellenza degli affetti. Una parola che in Laudato sii compare 92 volte, a indicare la sua centralità: l’unico modo di abitare la casa comune è prendersene cura, insieme, senza trascurare nessuno e nessun aspetto. La cultura della cura è l’unico antidoto all’incultura dello scarto.

La Misericordia di Dio, che circonda con tenerezza e col suo affetto anche l’essere più piccolo prendendosene cura, è il punto di osservazione che siamo invitati ad occupare per seguire il cammino che il Papa ci propone in questa enciclica, e più in generale con il suo magistero. Se non ci sintonizziamo col cuore gli occhi sezionano, distinguono, ‘scannerizzano’ la realtà per meglio dominarla. La tengono a distanza. Solo uno sguardo che passa dal cuore recupera la bellezza dell’intero, l’unità di tutto l’essere. Uno sguardo che non vuole essere sovrano e dominatore, ma che lascia spazio all’ascolto, ricettivo a ciò che sta fuori di noi, come scrive bene la poetessa Maria Zambrano: “è l’ascolto a porci in relazione immediata con l’universo, con gli astri e con le loro distanze. La vista urta contro le barriere di ciò che può essere misurato comparativamente, da una geometria disponibile e tranquillizzatrice” (Luoghi della poesia, p. 591).

Un punto di partenza che ci aiuta a recuperare uno sguardo integrale sulla realtà e aiuta i credenti ad offrire una proposta per tutti.

2. La chiesa misericordiosa

Cosa significa allora una chiesa misericordiosa? Non certo una ‘lavanderia dei peccati’, secondo la metafora che con ironia il Papa ha coniato per chi annacqua la Misericordia in un generico e insipido buonismo. Piuttosto, una chiesa che lascia che il proprio sguardo venga continuamente ‘riformato’ dall’amore, per poter leggere i segni dei tempi, valutare e prendere le distanze da ciò che è disumano, promuovere cammini di pienezza. In estrema sintesi, a partire dallo sguardo del cuore una chiesa misericordiosa è capace di vedere, discernere, agire. Queste sono le vie che la rendono credibilmente misericordiosa, ma che possono anche diventare metodo pastorale, secondo l’intuizione di Giovanni XXIII, poi raccolta nella teologia latinoamericana.

Vedere

Vedere significa applicare uno sguardo integrale, capace di abbracciare tutte le realtà e il tempo nella sua durata: solo insieme possiamo ‘farci carico di questa casa che ci è stata affidata’ (244). Una casa che si è deteriorata (61): questo è un dato, prima ancora che un giudizio morale: ‘La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia’ (21).

Per questo la domanda da cui parte tutta la riflessione è cercare di capire cosa sta succedendo alla nostra casa’ (cap. 1). Porsi dalla parte di chi abita, e non di chi osserva dall’esterno e con distacco, è un’opzione metodologica e anche etica cruciale.

Perché la prima cosa da vedere, e che solo un cuore libero e un io non prigioniero di se stesso e del proprio delirio di onnipotenza  può avere l’umiltà di riconoscere, è che ‘Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data’ (67). Il creatore è Padre, e in lui tutta la creazione vive un legame di fratellanza universale, una ‘luminosa fratellanza con tutte le creature’ (221), come ha cantato San Francesco. Il messaggio fondamentale di questa enciclica è che non si può separare l’economia ambientale da quella umana: ‘il degrado della natura è strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana’ (6). ‘L’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, ad un progetto comune’ (164).

Se vediamo questo legame di tutto con tutto, e di tutto con il Padre, che non è esplicito (per lasciare alla libertà il volerlo vedere) e tuttavia così gioiosamente riconoscibile, la nostra attitudine verso il mondo non potrà voler essere di sfruttamento e dominio. La domanda ‘dov’è tuo fratello, dov’è tua sorella?’, che riguarda le persone, ma anche il creato, dopo Caino risuona senza interruzione per tutti noi, in ogni momento. I fratelli non si sfruttano, si amano. I grandi sostengono i piccoli e li educano con il loro esempio, i piccoli stupiscono i grandi con la loro capacità di rendere bella e gioiosa la famiglia, e con una profondità che a volte lascia a bocca aperta anche gli adulti. Gli anziani sono una ricchezza, i malati un’occasione di far crescere la nostra umanità, nel prenderci cura che è sempre, al di là delle apparenze e della fatica, un modo liberante di esistere.

Lo sfruttamento consegue da uno sguardo che vede il mondo come nuda materia a disposizione; la ‘logica efficientista e “immediatista” dell’economia e della politica attuali’ (181) non avvelena solo i nostri rapporti e il mondo in cui viviamo, ma depaupera chi verrà dopo di noi. La fratellanza non si estende solo nello spazio del presente, ma anche nel tempo (che per Francesco è superiore allo spazio). La ‘giustizia tra le generazioni’ è oggi più che mai un correttivo necessario all’imperante cultura dei diritti individuali: ‘Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni’ (159). Bisogna dunque saper guardare al di là dell’immediato: “’La cura degli ecosistemi richiede uno sguardo che vada aldilà dell’immediato, perché quando si cerca solo un profitto economico rapido e facile, a nessuno interessa veramente la loro preservazione. Ma il costo dei danni provocati dall’incuria egoistica è di gran lunga più elevato del beneficio economico che si può ottenere” (36).

Richiamando la figura di San Francesco il Papa ci invita piuttosto a guardare il mondo con gli occhi dell’innamorato: ‘Così come succede quando ci innamoriamo di una persona, ogni volta che Francesco guardava il sole, la luna, gli animali più piccoli, la sua reazione era cantare, coinvolgendo nella sua lode tutte le altre creature. Egli entrava in comunicazione con tutto il creato, e predicava persino ai fiori e « li invitava a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione » La sua re- azione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico’ (11).

E più avanti continua: ‘Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati’ (Ivi).

Si riesce a vedere se si assume lo ‘sguardo di Gesu’, che ‘viveva una piena armonia con la creazione, e gli altri ne rimanevano stupiti: « Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono? » (Mt 8,27)’ (98).

Vedere significa infine riconoscere che il legame viene prima dell’individuo, che le relazioni non sono il prodotto degli individui ma casomai il legame è la condizione dell’emergere dell’individualità. Tanto che  Papa Francesco definisce  ‘l’umanità come popolo che abita una casa comune’ (164): comunità di destino, comunità di pratiche, non aggregato di individui. E se tutti abitiamo la stessa casa, il nostro abitare e le soluzioni  che vogliamo adottare devono implicare un dialogo con tutti (3). Come scrive il Papa, la stessa enciclica è un esercizio di dialogo, un appello a credenti e non credenti, a tutti gli uomini di buona volontà: ‘questa Enciclica si apre a un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione’ (64).

Se davvero vediamo che Dio è padre e noi fratelli, ne discende lo sforzo di un dialogo con tutti. Le relazioni tra fratelli non sono mai semplici, le Scritture sono piene di esempi che ce lo ricordano senza ipocrisie. I fratelli non ce li siamo scelti, e non sempre ci assomigliano. E tuttavia non possiamo dire di amare il Padre se non amiamo i fratelli e cerchiamo di vivere in armonia con loro.

Discernere

Nella sua prospettiva di ‘ecologia integrale’, Papa Francesco rilegge la crisi antropologica, quella economica e quella ambientale come manifestazioni di un’unica grande criticità: ‘oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri’ (49).

La rimozione del legame in nome di un’autonomia assoluta potenziata dalla tecnica, un vero monoteismo del sé, finisce oggi per produrre un sistema tecnoeconomico, un “paradigma tecnocratico dominante” (101) che alla fine stritola quello stesso individuo che si voleva sovrano. In questa prospettiva i capp. II e III, sul Vangelo della creazione e la radice umana della crisi ecologica, vanno letti insieme, perché da punti di vista diversi offrono la prospettiva per una critica costruttiva al tempo presente. Così si conferma che la scienza e la religione non sono per forza ambiti contrapposti, tra i quali dobbiamo scegliere: nella cornice di una unità e interdipendenza del tutto, piuttosto, ‘possono entrare in un dialogo intenso e produttivo per entrambe’ (61). In questa chiave vanno lette tutte le considerazioni minuziose che vengono offerte sull’ambiente, le cause di degrado, le possibili vie per affrontarle. Poi non ha senso schierarsi tra i tecnoapocalittici, dal momento che la scienza e la tecnica hanno portato innegabili benefici e migliorato per tanti aspetti la qualità della vita umana (103). La questione cruciale è orientare il senso, ovvero stabilire il limite, al di là degli interessi e dei vantaggi immediati (limite è una parola che ricorre con grande frequenza nel testo). Una ‘libertà ammalata’ è quella che pretende di spremere il mondo ‘fino al limite e oltre il limite’ (106).

Ma va anche abbandonata l’ingenua fiducia dei tecnoentusiasti, implicitamente deterministi – e dunque negatori della libertà e della responsabilità umane, quando pensano che la tecnica possa risolvere magicamente tutti i problemi: “Si tende a credere che «ogni acquisto di potenza sia semplicemente progresso, accrescimento di sicurezza, di utilità, di benessere, di forza vitale, di pienezza di valori» come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia” (105). È il realismo lucido e critico l’atteggiamento cui ci richiama Papa Francesco.

Se poi davvero ci riconosciamo nel Vangelo, come la carità non è un optional ma l’amore vissuto senza il quale le nostre parole son lettera morta, così la cura per il creato, specie per  i fratelli e le sorelle più deboli insieme a tutte le creature, non è un hobby o una stravaganza da ambientalisti invasati, ma è parte integrante della fede: ‘i cristiani, in particolare, avvertono che i loro compiti all’interno del creato, i loro doveri nei confronti della natura e del Creatore sono parte della loro fede’ (64).

Citando Giovanni Paolo II, ‘Dio ha scritto un libro stupendo, «le cui lettere sono la moltitudine di creature presenti nell’universo’ (85).

Nella prospettiva della creazione l’uomo ha ricevuto un mandato su come ‘abitare’ la terra che ha ricevuto in dono: coltivandola e custodendola. Solo l’essere umano è in grado di interpretare (liberamente: non viene detto come!) e di realizzare questi compiti, che lo realizzano insieme come essere pienamente umano: figlio, fratello, capace di prendersi cura di ciò che gli è stato affidato e di farlo crescere. Prestando la nostra opera noi riceviamo, perché la cura è relazione di reciprocità.  Una ‘reciprocità responsabile’, secondo la bella immagine suggerita al N. 67: ‘Mentre «coltivare» significa arare o lavorare un terreno, « custodire » vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura’.

Siamo i custodi, chiamati a prenderci cura, e non i proprietari: ‘a Lui appartiene « la terra e quanto essa contiene» (Dt 10,14). Perciò Dio nega ogni pretesa di proprietà assoluta’ (67).

E, di conseguenza, di sfruttamento egoistico individuale, ma anche collettivo (204).

Dobbiamo ripensare al nostro essere uomini oggi:

‘Nella modernità si è verificato un notevole eccesso antropocentrico che, sotto altra veste, oggi continua a minare ogni riferimento a qualcosa di comune e ogni tentativo di rafforzare i legami sociali. Per questo è giunto il momento di prestare nuovamente attenzione alla realtà con i limiti che essa impone’ (116).

L’antropocentrismo dispotico (68) che si è affermato nell’era della tecnica rivela tutta la sua pochezza, oltre che il suo potenziale distruttivo, proprio alla luce del racconto della creazione e della pedagogia della comunione che Gesù ci ha indicato attraverso la propria vita. Un racconto che  restituisce dignità a esseri umani e creature, ai piccoli come ai gigli del campo e agli uccelli del cielo, affermando con forza la ‘priorità dellessere rispetto all’essere utili‘ (69).

Sfruttare non solo non ci arricchisce, mentre impoverisce l’ambiente, ma impoverisce anche noi stessi. Un rapporto malato con l’ambiente è un rapporto malato con gli altri, ma anche con se stessi, perché ‘tutto nel mondo è intimamente connesso’ (16). Perciò, ‘Trascurare l’impegno di coltivare e mantenere una relazione corretta con il prossimo, verso il quale ho il dovere della cura e della custodia, distrugge la mia relazione interiore con me stesso, con gli altri, con Dio e con la terra’ (70).

Ma nonostante tutto, quella ‘nuova sintesi umanistica’ di cui già parlava BXVI è possibile, una ‘una nuova sintesi che superi le false dialettiche degli ultimi secoli’ (121), se la tecnica viene interpretata come manifestazione di una verità che la trascende, anziché come ligi della verità in sé:

‘L’autentica umanità, che invita a una nuova sintesi, sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica, quasi impercettibilmente, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. Sarà una promessa permanente, nonostante tutto, che sboccia come un’ostinata resistenza di ciò che è autentico?’ 112).

Agire

I Capitoli 5 e 6, a partire dalla prospettiva di interconnessione integrale tracciata, propongono una serie di  linee sul piano educativo, senza trascurare alcune indicazioni concrete.

Non si può infatti agire se non si sa dove andare, e anche ‘i migliori dispositivi finiscono per soccombere quando mancano le grandi mete, i valori, una comprensione umanistica e ricca di significato, capaci di conferire ad ogni società un orientamento nobile e generoso’ (181).

Ė non si può più agire in modo settoriale, con singoli interventi che tamponino le emergenze – sempre che ci riescano. ‘Una strategia di cambiamento reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere capace di assumere questa sfida’ (197).

Non interventi dunque, ma politiche, elaborate con il coinvolgimento di tutte le parti interessate (specie le più fragili), in un modo che sia ‘interdisciplinare, trasparente e indipendente da ogni pressione economica o politica’ (183). In particolare, ‘La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia’ (189).

E in ogni caso la misura del progresso non è il profitto, o l’aumento dei consumi: ‘Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso’ (194).

‘La logica che non lascia spazio a una sincera preoccupazione per l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la preoccupazione per integrare i più fragili, perché « nel vigente modello “di successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita »’ (196).

E per agire è necessario il dialogo, non solo con chi la pensa come noi, ma con tutti: le altre religioni prima di tutto, ma non solo:

‘La maggior parte degli abitanti del pianeta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità. È indispensabile anche un dialogo tra le stesse scienze, dato che ognuna è solita chiudersi nei limiti del proprio linguaggio, e la specializzazione tende a diventare isolamento e assolutizzazione del proprio sapere. Questo impedisce di affrontare in modo adeguato i problemi dell’ambiente. Ugualmente si rende necessario un dialogo aperto e rispettoso tra i diversi movimenti ecologisti, fra i quali non mancano le lotte ideologiche. La gravità della crisi ecologica esige da noi tutti di pensare al bene comune e di andare avanti sulla via del dialogo che richiede pazienza, ascesi e generosità’ (201)

La realtà è superiore all’idea (EG 233) per Papa Francesco. Ma la realtà è anche superiore a se stessa, perché segno di qualcosa di più grande è capace di effetti che vanno oltre i suoi limiti: ogni gesto anche piccolo, per esempio, educa chi lo compie, chi lo riceve e chi lo osserva e lascia tracce nel mondo in bene o in male. Il quotidiano non è contrapposto ma parte integrante del politico e del pubblico. È la stoffa di cui è fatta la nostra vita comune. E la vita è una, multidimensionale: una ‘ecologia integrale’ è proprio la conseguenza del riconoscere che tutto è intimamente connesso, che tutto risuona con tutto, che la casa è una sola, per tutti: oikos-logia, è il discorso sulla casa comune, è da questo dipende la oikos-nomia, le regole che vogliamo darci dentro questa casa per mandarla avanti. Ma le regole discendono dal significato che ha la casa per noi: non sono loro che lo definiscono. Il senso e la direzione del mondo non possono essere dettati dall’economia, né dalla tecnica. L’unità profonda di tutte le cose, delle piccole e delle grandi, del finito e dell’infinito, è la stessa che si esprime nei celebri versi di William Blake: ‘Vedere un Mondo in un granello di sabbia, / e un Cielo in un fiore selvatico, / Tenere l’Infinito nel cavo della mano / e l’Eternità in un’ora’ ) e continuità tra il concreto e il teologico. Non dobbiamo temere allora che i gesti piccoli siano insignificanti, perché i frutti eccedono sempre la logica della progressione geometrica e del calcolo: pensiamo al granello di senape ‘che quando viene seminato suo terreno è il più piccolo di tutti i semi’, ma che poi cresce  così tanti che ‘gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra’ (Mc 4, 32-34). Attraverso i piccoli gesti costruiamo una “cittadinanza ecologica” (211), fatta di abitudini impregnate di significati e di attenzione, che a poco a poco consente una profonda ‘trasformazione personale’ (Ivi), ovvero una vera e propria conversione. Non bastano norme e regole esterne, senza questa profonda motivazione personale. Essa è poi anche qualcosa di più del puro habitus di cui parlano i sociologi come Bourdieu. È piuttosto l’ ordo amoris di Scheler, che sulla base del primato dell’amore sulla conoscenza struttura insieme una dimensione personale affettiva e una assiologia e legata al vivere insieme, capace di orientare le priorità e le scelte, nelle piccole come nelle grandi cose, e a consolidarsi grazie a esse. Uno schema spirituale sulla base del quale si costruisce e prende forma l’identità personale e l’agire con altri.

3. Per un umanesimo integrato e integrale : verso Firenze 2015

“È molto nobile assumere il compito di avere cura del creato con piccole azioni quotidiane, ed è meraviglioso che l’educazione sia capace di motivarle fino a dar forma ad uno stile di vita (…) Tutto ciò fa parte di una creatività generosa e dignitosa, che mostra il meglio dell’essere umano (LS, 211).

“Non bisogna pensare che questi sforzi non cambieranno il mondo. Tali azioni diffondono un bene nella società che sempre produce frutti al di là di quanto si possa constatare, per- ché provocano in seno a questa terra un bene che tende sempre a diffondersi, a volte invisibilmente. Inoltre, l’esercizio di questi comportamenti ci restituisce il senso della nostra dignità (LS, 212).

Firenze 2015 è alle porte. Non vuol essere una riflessione asettica, ma una proposta per riprendere il cammino della Chiesa italiana a 50 anni dalla chiusura del Vaticano II per verificarne il cammino sulle vie dell’uscire, dell’annunciare, dell’abitare, dell’educare, del trasfigurare. Vorrei, alla fine, far riferimento alla via dell’educare perché questa è la missione della chiesa, anzi il suo stile dimesso ed ostinato, che fa leva sulla variabile umana per cambiare lentamente lo stato di cose. Occorre tener conto che l’educare è oggi messa in forse da alcune condizioni. La prima è che l’individuo si sente esonerato, non responsabile verso i valori, perché le condizioni sociali gli fanno ritenere che sia sufficiente il fatto di dichiararsi convinto per essi. La crisi dei valori acquista, pertanto, una sua specifica configurazione nel senso che i valori hanno sempre meno a che fare con il soggetto, il quale risulta de-responsabilizzato, cioè neutralizzato, reso tendenzialmente inattivo. Come conferma E. Agazzi:«Una civiltà scientista e tecnicista, dunque, è quella che ha accettato, come condizione base del suo modello di accostamento conoscitivo e di intervento operativo sulla realtà, la neutralizzazione del soggetto, ossia dell’uomo». Si è andata così affermando una cultura dell’esonero che ha condotto a sterilizzare l’agire personale, lasciando fare alle organizzazioni economiche e politiche con i loro potenti mezzi, piuttosto che far agire un individuo. Si tratta invece di riscoprire la forza del lavoro educativo che si rende noto nelle diverse forme dell’agire pastorale. Solo così si riesce a superare quella dicotomia tra rafforzamento dei valori e crisi dei comportamenti, per cui a certi ideali e principi non seguono di fatto esempi e pratiche coerenti. Solo l’educazione fa passare da una società del cambiamento ad una società della trasformazione. Spesso si innova ma non si rinnova. C’è il mutamento continuo delle condizioni materiali, non l’invito a trasformarsi dal di dentro e diventare uomini nuovi. Il tema del rinnovamento riguarda sia la trasformazione delle condizioni interiori dell’uomo capace di rigenerarsi sia l’esperienza della nascita vera e propria di altri soggetti. H. Arendt, non a caso, fa della nascita un tema fondamentale di un agire politico restituito alla sua dignità trasformativa. Ella così scrive: «…Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità» .

L’educazione è anche la strada per passare dalla stagione dei diritti a quella anche dei doveri. E’ tempo di interrogarsi sulla serie dei valori che possono orientare il ritorno del momento educativo, come presa di coscienza del dovere della responsabilità. Di fatto l’enfasi sui diritti anziché sui doveri produce a lungo andare un deperimento dei valori per cui abbiamo una sorta di implosione, di cedimento interno della cittadinanza ovvero della stessa umanità. Possiamo considerarne tre che si pongono come il necessario completamento di tre valori: il valore della genitorialità che fa da pendant a quello della fraternità, quello della alterità che è speculare all’uguaglianza e quello della “libertà per” che corrisponde alla “libertà da”.

Educare, infine, significa passare dalla scelta alla decisione che non sono mai la stessa cosa. C’è chi decide senza aver mai scelto. E c’è chi sceglie senza mai arrivare a decidere. Scegliere e decidere sono due cose diverse. Scegliere equivale a «selezionare in base a criteri oggettivi di qualità o di pregio», decidere invece sta per «proporsi di attuare o di eseguire». Nel caso della scelta avviene una vera elezione dei significati che dà origine ad un agire in cui la persona che ha maturato la scelta si coinvolge responsabilmente. Nella decisione invece prevale il carattere operativo e pragmatico che consegue alla scelta deliberata precedentemente.

Per sigillare questa ripresa di motivazione attorno all’azione educativa che sintetizza tutte e cinque le vie di Firenze (uscire, annunciare, abitare, educare, trasfigurare) non trovo di meglio che rifarmi ad una pensatrice lucida e appassionata come la Arendt: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo per assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani” (H. ARENDT, Tra passato e futuro, Firenze, 1970, 213 (ed.or. 1954)

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