Convegno Pastorale Diocesano – Relazione Mons. Vincenzo Paglia

Fare famiglia: tra sfide culturali e istanze pastorali

Mons. Vincenzo Paglia

 Una situazione paradossale

La situazione storica della famiglia si presenta peraltro davvero paradossale: da un lato si attribuisce un grande valore ai legami familiari, sino a farne la chiave della felicità. I dati statistici rilevano che la famiglia è sentita dalla maggioranza delle popolazioni di tutti i paesi come il luogo della sicurezza, del rifugio, del sostegno per la propria vita. In Italia – per fare un esempio – circa l’80% dei giovani in età da matrimonio dichiarano di preferire il matrimonio, solo il 20% opta per la convivenza; di questo 20% sembra che solo il 3% considera la convivenza una scelta definitiva, l’altro 17% la pensa transitoria in attesa del matrimonio. In Francia il 77% dei giovani francesi desidera costruire la propria vita di famiglia, rimanendo con la stessa persona per tutta la vita; la percentuale arriva all’84% per i giovani dai 18 a 24 anni. Insomma, la stabilità coniugale resta un valore importante e un’aspirazione profonda, anche se la convinzione di stare insieme “per sempre” ha sempre meno dignità culturale, anzi si ritiene sia impossibile.

Dall’altro la famiglia è divenuta il crocevia di tutte le fragilità: i legami vanno a pezzi, le rotture coniugali sono sempre più frequenti e, con esse, l’assenza di uno dei due genitori. E vediamo che le famiglie si disperdono, si dividono, si ricompongono, tanto da poter affermare senza esagerazione che “la deflagrazione delle famiglie è il problema numero uno della società odierna”. Per di più si stanno moltiplicando le forme di famiglia. E’ divenuto normale pensare che gli individui possano “fare famiglia” nelle maniere più diverse: qualsiasi forma di “vivere insieme” può essere reclamata come famiglia, l’importante – si sottolinea – è l’amore. In tale orizzonte, la famiglia non è negata, ma viene posta accanto a nuove forme di vita e di esperienza relazionale che sono apparentemente compatibili con essa, anche se in verità la scardinano. E i dati già dimostrano l’affermarsi di una sorta di circuito disincentivante verso il fare famiglia. 

Verso una società de-famigliarizzata?

La questione della famiglia va letta all’interno del processo di “individualizzazione” della società. La cultura maggioritaria spinge alla affermazione di sé, al culto di sé, alla realizzazione di sé, al benessere individuale. La società sembra divenuta un coacervo di individui, ove l’io prevale sul noi e l’individuo sulla società. In tale contesto si preferisce la coabitazione al matrimonio, l’indipendenza individuale alla dipendenza reciproca. La famiglia, in una sorta di ribaltamento, più che “cellula base della società” viene concepita come “cellula base per l’individuo”.  La stessa coppia matrimoniale è pensata solo in funzione di se stessi: ciascuno cerca la propria singolare individualizzazione e non la creazione di un “noi”, di un “soggetto plurale” che trascende le individualità senza ovviamente annullarle, anzi rendendole più autentiche, libere e re-sponsabili. L’io, nuovo padrone della realtà, lo è anche della famiglia. In un contesto come questo, la famiglia così come è stata concepita per secoli, fa fatica a resistere.

Debbono far riflettere le riflessioni che alcuni studiosi ricavano dalle loro rilevazioni statistiche sull’andamento dei matrimoni e delle famiglie. Le loro ricerche fanno emergere una singolare crescita in questi ultimi anni della cosiddette famiglie “unipersonali”; un fenomeno che appare chiaro in Europa. Se da una parte c’è il crollo dei matrimoni e delle famiglie “normo-costituite”, ossia composte da padre-madre-figli, dall’altra crescono quelle formate da una sola persona, uni-personali (in Italia – per fare un solo esempio – quest’ultime sono passate da 5,2 milioni nel 2001 a  7,2 milioni tra il 2001 e il 2011). Accade quindi che la diminuzione dei matrimoni religiosi e di quelli civili non si è trasferita nella formazione di altre forme di convivenza, ma nella crescita di persone che scelgono di stare da sole. Questo porta a concludere che qualsiasi legame impegnativo viene sentito come insopportabile. La deriva è chiara: si va verso una società de-familiarizzata, fatta di persone sole che si uniscono senza alcun impegno.

A ciò contribuisce anche una concezione della famiglia concepita come punto d’arrivo anziché come punto di partenza. Appena alcuni decenni fa si partiva dalla famiglia per costruire il proprio posto nel mondo. Non si aspettava di avere quel posto per poi, una volta conquistato, passare alla famiglia.  Quella famiglia non aspettava che i singoli componenti la coppia avessero già compiuto le conquiste necessarie (l’istruzione e il lavoro, la casa e la carriera, la sicurezza economica e quella del futuro) a darle solide fondamenta e prospettive. Solidità e prospettive le costruiva e realizzava cammin facendo la famiglia in quanto famiglia. Era una famiglia che aveva il suo senso, il suo sentimento, proprio nel punto di partenza. Era dalla partenza che misura il progredire suo e dei suoi componenti, del loro lavoro, dei loro sforzi nel tempo, e cementava così lo stare insieme, il progredire assieme dei suoi componenti.  Poiché misurava se stessa a cominciare dalla partenza non aveva paura del domani, che non poteva che seguire.

La famiglia di oggi è una famiglia che pretende di realizzarsi dalla fine. Dai traguardi già conseguiti, dagli obiettivi già raggiunti dai singoli in quanto singoli. E che chiede a se stessa il mantenimento di premesse già tutte o quasi date, portate in dote dall’uomo e dalla donna, non dal loro sodalizio. E che si batte per mantenere quel che ha già, che i singoli hanno già conquistato prima di fare famiglia. La famiglia, così, si abbarbica al passato e teme del domani.

Il crollo della famiglia, pertanto, non si sta traducendo nella crescita di altre nuove e diverse modalità di famiglia, bensì semplicemente in meno famiglia e di minore tenuta e consistenza e nella crescita di persone che scelgono di vivere da sole. Del resto è assolutamente ovvio che l’esaltazione senza freno dell’individuo conduca allo sfarinamento della stessa società, allo sgretolamento di qualsiasi forma di legame che voglia essere un minimo saldo e duraturo. E’ la deriva amara di una cultura individualista che sta prevalendo su tutto. In tal senso si deve dire che la crisi della famiglia è anzitutto sul piano culturale e quindi anche sociale. E’ qui che si deve compiere uno sforzo congiunto che coinvolga sia i credenti – delle diverse tradizioni religiose – che gli uomini di buona volontà. 

La famiglia, risorsa della società

E’ urgente ridare dignità culturale e centralità alla famiglia nel contesto della società contemporanea: la famiglia va riportata nel cuore del dibattito, nel centro della visione della politica e della stessa economia. Le famiglie sono ancora oggi la risorsa più preziosa della società: in essa si apprende il noi dell’oggi e del futuro attraverso la generazione dei figli. Ci troviamo qui di fronte a un tema delicatissimo. Certamente è poco lungimirante la tendenza ad avere un solo figlio (se questo fenomeno crescerà, come purtroppo sembra accadere, che ne sarà tra qualche anno del termine “fratello”, “sorella”?). Ancor peggiore sarà la condizione di quella società che non genera figli. In Italia stiamo correndo un grosso rischio di sterilità.

Ci troviamo in un delicatissimo crinale storico: uno spartiacque antropologico. In estrema sintesi si potrebbe dire che da una parte vi è l’affermazione biblica “Non è bene che l’uomo sia solo” (da cui è originata la famiglia e la stessa società), e dall’altra il suo esatto opposto, ossia “è bene che l’individuo sia solo” (da cui deriva l’individualismo sociale e d economico). L’io, l’individuo, sciolto da qualsiasi vincolo, viene contrapposto al noi. E la famiglia, fondamento del disegno di Dio sull’umanità, è divenuta la pietra d’inciampo di un individualismo senza freno. Ma la famiglia, nonostante tutti gli attacchi, resta salda, per sua forza interna: non esistono sostituti o equivalenti funzionalità della famiglia. E’ un ideale che chiede stabilità: è uno dei cardini di quel nuovo umanesimo di questo nuovo millennio.

Appare evidente un primo aspetto: la famiglia è una forma sociale unica che consente di articolare in maniera stabile due tipi di relazione – quella sessuale (maschio-femmina) e quella generazionale (genitore-figlio) – segnate da una irriducibile differenza. E’ una differenza qualitativa e irriducibile, custodita e accompagnata nel legame e nella reciprocità. La famiglia, inoltre, in un mondo in cui la scelta è sempre e solo provvisoria, è il luogo di relazioni forti che incidono in maniera profonda, sia nel bene che nel male, nella vita dei singoli membri. L’altro, nella famiglia, perde la sua connotazione di instabilità, come invece ormai accade nella maggior parte degli ambienti sociali, e non solo quelli digitali: basta cambiare canale, amicizia, partito… Quando si cerca solo chi ci somiglia si  tende a evitare il confronto con l’alterità e la vita si trasforma in una grande stanza degli specchi, o degli echi. Nella famiglia l’altro non può essere annullato. La famiglia – eterosessuale e riproduttiva – è una forma sociale unica, una scuola particolarissima di educazione all’alterità. In tal senso non è solo una risorsa ma anche una sorgente viva che alimenta la socialità tra diversi senza fagocitare le differenze. La stessa genitorialità – intesa come apertura alla trascendenza del figlio – implica alterità e amore senza preferenza. Il figlio, per fortuna e almeno fino ad oggi, non si sceglie. Né il figlio sceglie il genitore.

 La famiglia fermento di socialità

Certo, la forma della famiglia, nel corso del tempo, si è organizzata secondo forme diverse, sempre però all’interno delle sue due dimensioni costitutive, quella generazionale e quella sessuale, ognuna delle quali ha avuto anche i suoi limiti e i suoi problemi. Si potrebbe dire che nel corso dei secoli, la famiglia ha imparato a rispettare la libertà individuale e a creare condizioni di un più effettivo rispetto reciproco. In certo modo, la famiglia si è andata via via “purificando”. In particolare, i rapporti  famigliari si sono man mano liberati dall’idea del possesso o dall’assunzione acritica dei modelli di disuguaglianza dati per scontati nel contesto sociale circostante. Basti pensare, ad esempio, al rapporto maschile/femminile o padre/figlio, che hanno  subito nel tempo profonde rielaborazioni che hanno fatto crescere la famiglia, rendendola migliore e più adatta all’avanzare  dello sviluppo.

Non si deve dimenticare il rischio del ‘familismo’: ossia l’incapacità di universalismo e la tendenza a favorire in ogni modo, anche fuori dal contesto familiare, i membri del nucleo. Questa tendenza è stata causa di molteplici derive ‘amorali’, come la contrapposizione tra il bene interno al gruppo familiare e il bene della comunità più allargata. Riuscire a conservare il calore e l’affetto intrafamiliare senza compromettere la sfera pubblica e le condizioni dell’universalismo necessario alla società  avanzata è stata, e ancora oggi è, almeno per alcuni aspetti, una sfida difficile. Come dimostra l’oscillazione tra la permanenza di forme di familismo regressivo, da un lato, e l’affermazione di un individualismo radicale, dall’altro, che, arrivando a distruggere la famiglia, stravolge il percorso di umanizzazione senza avere idea delle conseguenze di lungo periodo.

La famiglia: una crisi di crescita?

E’ vero che negli ultimi decenni la famiglia è entrata in crisi: l’aumento dei divorzi, la crescita delle nascite extraconiugali, la moltiplicazione delle famiglie monogenitoriali, la riduzione del numero di matrimoni sono solo i fenomeni più evidenti. Al punto che qualcuno si domanda se non sia arrivato il momento di poter fare a meno della famiglia. La crisi è dovuta a due fattori: l’iperindividualismo ( ne ho parlato) e  l’ipertecnicismo (basti pensare ai social…). Tali fattori stanno mettendo sotto pressione questo fragile organismo (e non solo), rischiando di scardinarlo in maniera pericolosissima. Le conseguenze negative dal punto di vista dell’organizzazione sociale sono evidenti: dalla crisi demografica ai fallimenti dei percorsi di socializzazione  e di educazione, dall’abbandono degli anziani al diffondersi di un disagio affettivo che arriva fino a scatenare la  violenza.

La crisi che la famiglia sta traversando può essere però anche di crescita. Dipende da noi. Dovremmo essere molto più attenti al desiderio profondo degli uomini e delle donne di oggi. Infatti, nonostante l’ostile contesto culturale, la gran parte delle persone desidera una famiglia considerata il luogo centrale per la propria vita. E’ illusorio pensare di sradicarla. Semmai dobbiamo favorire modelli rinnovati di famiglia: ossia una famiglia più consapevole di sé, più rispettosa del suo legame con l’ambiente circostante, più attenta alla qualità dei rapporti interni, più interessata e capace di vivere con altre famiglia. Potremmo dire: se da una parte c’è meno famiglia, in senso quantitativo, dall’altra vi è più famiglia, in senso qualitativo. Del resto nessuna via è stata trovata per la piena umanizzazione di coloro che nascono alla vita. La famiglia rimane – potremmo dire anche grazie ai suoi difetti e limiti – il luogo della vita, del mistero dell’essere, della prova e della storia. La sua unicità la rende un incredibile e insostituibile “patrimonio dell’umanità”.

Una nuova alleanza tra Chiesa e Famiglia

La Chiesa, con Papa Francesco, ha messo di nuovo al centro la famiglia. Ci sono state due assemblee sinodali. E papa Francesco ha scritto l’Esortazione Apostolica Amoris Laetitia. E’ un testo che va letto e meditato. Come andrebbero lette anche le Catechesi di Papa Francesco sulla famiglia pronunciate tra le due assemblee sinodali. Le famiglie – e grazie a Dio la gran parte sono “sane” – tengono letteralmente in vita sia la Chiesa che la società. Certo, papa Francesco chiede a tutti un cambio di passo, una vera e propria conversione pastorale sul modo stesso di concepire la Chiesa. Il Papa non vuole essere equivocato. Sa bene che non mancano, anche fra i credenti, coloro che vorrebbero una Chiesa che si presenta essenzialmente come un tribunale della vita e della storia degli uomini. Non è più il tempo di una Chiesa che sia pubblico ministero dell’accusa o giudice, e neppure una Chiesa che sia solo come notaio che registra adempimenti e inadempienze. E’ necessaria una Chiesa che sia Madre che comprende, vede, giudica anche, ma per far crescere. Non si deve mai dimenticare che la Chiesa è stata impegnata dal Signore ad essere coraggiosa e forte proprio nella protezione dei deboli, nel riscatto dei debiti, nella cura delle ferite dei padri e delle madri, dei figli e dei fratelli. a cominciare da quelli che si riconoscono prigionieri delle loro colpe e disperati per aver fallito la loro vita. Vuole però accompagnare tutti sino alla piena integrazione al Corpo di Cristo che è la Chiesa.

Dobbiamo dire che il matrimonio è indissolubile. Ma ancor dobbiamo affermare che il legame della Chiesa con i figli e le figlie di Dio lo è ancora di più: perché è come quello che Cristo ha stabilito con la Chiesa, piena di peccatori che sono stati amati quando ancora lo erano. E non sono abbandonati, neppure quando ci ricascano. Questo, come dice l’apostolo Paolo, è proprio un mistero grande, che va decisamente oltre ogni romantica metafora d un amore che rimane in vita soltanto nell’idillio di “due cuori e una capanna”. Il secondo segno è la conseguente piena consegna al vescovo di questa responsabilità ecclesiale sapendo che il supremo principio è la salus animarum (un’affermazione solenne che chiude il Codice di Diritto Canonico, ma che spesso viene dimenticata). Il Vescovo è giudice in quanto pastore. E il pastore riconosce le sue pecore anche quando hanno smarrito la strada. Il suo scopo ultimo è sempre quello di riportarle a casa, dove può curarle e guarirle, mentre non lo può fare se le lascia dove sono abbandonandole al suo destino perché “se lo sono cercato”.

L’amore fecondo e le generazioni nel matrimonio e nella famiglia

Sono importanti i capitoli IV e V della Esortazione Apostolica Amoris Laetitia. In essi si declina ciò che sostanzia il matrimonio e la famiglia, ossia il legame d’amore tra un uomo e una donna e la fecondità che ne consegue. Il Papa non si limita, come accade nella più diffusa catechesi, a commentare la pur fondamentale lezione del Cantico dei Cantici, che rimane certamente un gioiello della rivelazione biblica dell’amore dell’uomo e della donna. Il Papa si impegna a commentare dettagliatamente – parola per parola – la fine fenomenologia dell’amore ispirato da Dio che si trova nello splendido inno paolino 1Corinzi 13. Una mossa che indica l’orizzonte dell’altezza e della concretezza che riportano l’amore – ogni amore – alla suprema sorgente dell’agape di Dio. Questo testo parla dell’amore in chiave tutt’altro che mistica e romantica. L’amore appare pieno di concretezza e di dialettica, di bellezza e di sacrificio, di vulnerabilità e di tenacia (l’amore tutto sopporta, l’amore non cede mai…). L’amore di Dio è così! Siamo lontani dall’individualismo che chiude l’amore nell’ossessione possessiva “a due”, e mette a rischio la “letizia” del legame coniugale e famigliare. Il lessico famigliare dell’amore che Papa Francesco propone non è povero di passione, ed è ricco di generazione. Potremmo dire che il testo papale porta a pienezza le suggestioni presenti nella Gaudium et Spes che cita esplicitamente: “Il matrimonio è in primo luogo una «intima comunità di vita e di amore coniugale» che costituisce un bene per gli stessi sposi, e la sessualità «è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna»(n.80). Il lessico famigliare dell’amore, come proposto dal Papa, è ricco di passione, è robusto nella generazione. Per questo può soffermarsi a riflettere sulla sessualità come dono di Dio dato all’uomo e alla donna.

Nel capitolo quinto l’attenzione va sull’altra dimensione dell’amore coniugale: la fecondità e la generatività. Si parla in maniera spiritualmente e psicologicamente profonda dell’accogliere una nuova vita, dell’attesa nella gravidanza, dell’amore di madre e di padre, della presenza dei nonni. Ma anche della fecondità allargata, dell’adozione, dell’accoglienza e del contributo delle famiglie a promuovere una “cultura dell’incontro”, della vita nella famiglia in senso ampio, con la presenza di zii, cugini, parenti dei parenti, amici. Il Papa sottolinea la inevitabile dimensione sociale del sacramento del matrimonio (n.186), al cui interno si declina sia il ruolo specifico del rapporto tra giovani e anziani, sia la relazione tra fratelli e sorelle come tirocinio di crescita nella relazione con gli altri.

Due punti vorrei sottolineare. Anzitutto il tema del figlio. Il testo con chiarezza riafferma che il figlio non è un oggetto del desiderio, ma un progetto di consegna della vita. Di qui segue il tema del rapporto fra le generazioni, che la frammentazione e la liquidità di eros mettono a rischio. Il legame fra le generazioni è il luogo dell’eredità che deve essere fatta fruttare. Questo è il grande compito affidato alla famiglia che deve custodire la tradizione della vita senza imprigionarla, provvedere valore aggiunto al futuro senza mortificarlo. Tale dinamismo è impossibile se la famiglia perde il suo ruolo sociale di stabilità e di propulsività degli affetti. Insomma, non ci si sposa per se stessi. La famiglia è il motore della storia, non certo il rifugio dalle sue sfide. In questo passaggio e alleanza tra le generazioni si costruisce l’intera ricchezza dei popoli, sapere, cultura, tradizioni, dono, reciprocità. La passione educativa iscritta nella generazione, e l’alleanza fra una generazione e l’altra sono un termometro infallibile del progresso sociale.

Il tema educativo viene svolto nel capitolo settimo. Il Papa richiama la centralità dell’educazione tra i compiti della famiglia. Il capitolo va letto attentamente perché è tra le sfide odierne più decisive e spesso tra le più disattese. Sentiamo, infatti , parlare spesso della “evaporazione” del padre e dell’assenza della madre, oppure della dimissione della “fatica” educativa. Peraltro, avverte il papa, bisogna stare attenti perché «l’ossessione non è educativa, e non si può avere un controllo di tutte le situazioni in cui un figlio potrebbe trovarsi a passare (…). Se un genitore è ossessionato di sapere dove si trova suo figlio e controllare tutti i suoi movimenti, cercherà solo di dominare il suo spazio. In questo modo non lo educherà, non lo rafforzerà, non lo preparerà ad affrontare le sfide. Quello che interessa principalmente è generare nel figlio, con molto amore, processi di maturazione della sua libertà, di preparazione, di crescita integrale, di coltivazione dell’autentica autonomia» (n.261). E’ significativa l’attenzione che il testo dedica alla educazione sessuale, un tema nuovo nella pastorale della Chiesa. L’Esortazione ne sostiene la necessità soprattutto oggi «in un’epoca in cui si tende a banalizzare e impoverire la sessualità». Essa va realizzata «nel quadro di un’educazione all’amore, alla reciproca donazione» (n.280).

Verso una Chiesa famigliare

Nel capitolo sesto l’Esortazione ribadisce che le famiglie sono soggetto e non solamente oggetto di evangelizzazione. Sono esse, anzitutto, ad essere chiamate a comunicare al mondo il “Vangelo della famiglia” come risposta al profondo bisogno di famigliarità iscritto nel cuore nella persona umana e della stessa società. Certo, hanno bisogno di un grande aiuto in questa loro missione. Il Papa parla, anche in questa prospettiva, della responsabilità dei ministri ordinati. E sottolinea con franchezza che a loro “manca spesso una formazione adeguata per trattare i complessi problemi attuali delle famiglie”(n.202). E chiede una rinnovata attenzione anche alla formazione dei seminaristi.

C’è poi una riflessione da fare sul rapporto tra la famiglia e la comunità parrocchiale. Oggi, purtroppo, assistiamo ad un divario spesso profondo che separa le famiglie dalla comunità cristiana. In maniera sintetica potremmo dire che le famiglie sono poco ecclesiali (perché spesso rinchiuse in se stesse), e le comunità parrocchiali sono poco famigliari (perché spesso prese da una burocrazia esasperante). E’ un punto cruciale che ci porterebbe a dire: non si tratta di rivedere la pastorale famigliare, quanto piuttosto di trasformare tutta la pastorale in una prospettiva famigliare. E’ pertanto necessario un nuovo orizzonte che ridisegni la stessa parrocchia come una comunità che sia essa stessa famiglia. E qui sono interrogate tutti gli aspetti della vita pastorale, dalla iniziazione cristiana alla pastorale giovanile, dalla Liturgia della Domenica  alle celebrazioni dei Sacramenti.

In tale orizzonte merita un’attenzione particolare l’accompagnamento dei fidanzati al matrimonio sino alla celebrazione del sacramento. Il testo insiste in un itinerario che aiuti a riscoprire la vita della Comunità ecclesiale per i fidanzati: è indispensabile un raccordo tra la fede e la vita della comunità. Ne consegue la necessità dell’accompagnamento dei primi passi della nuova famiglia appena costituitasi (compreso il tema della paternità responsabile). Qui ci troviamo di fronte ad un vasto campo da percorrere. E’ utile essere attenti all’esperienza dei movimenti famigliari che hanno già individuato dei percorsi efficaci di accompagnamento.

In tale orizzonte il Papa parla dell’accompagnamento delle persone abbandonate, separate o divorziate e sottolinea l’importanza della recente riforma dei procedimenti per il riconoscimento dei casi di nullità matrimoniale. Il testo richiama la sofferenza dei figli nelle situazioni conflittuali e dice chiaramente: «Il divorzio è un male, ed è molto preoccupante la crescita del numero dei divorzi. Per questo, senza dubbio, il nostro compito pastorale più importante riguardo alle famiglie è rafforzare l’amore e aiutare a sanare le ferite, in modo che possiamo prevenire l’estendersi di questo dramma nella nostra epoca» (n. 246). Si accenna ai matrimoni misti e a quelli con disparità di culto, e alla situazione delle famiglie che hanno al loro interno persone con tendenza omosessuale, ribadendo il rispetto nei loro confronti e il rifiuto di ogni ingiusta discriminazione e di ogni forma di aggressione o violenza.

Le età della vita 

Un tema disatteso ma decisivo è quello relativo alla età della vita. La vita è radicata nella famiglia come nel suo grembo e nel suo sviluppo. Va quindi ripensata e riproposta all’interno dell’orizzonte familiare nella dispiegarsi nelle diverse età. La vita umana va scandita sin dal senso materno. E’ questa la sua prima tappa. Sono belle le parole del papa nel documento delle Comunicazioni sociali. Il grembo della mamma è la prima scuola di relazione tra due persone, una scuola fatta di ascolto e di contatto solo corporeo eppure intenso, un contatto che si nutre dei battiti del cuore materno. E qui credo sia importante risotto lineare il ruolo della madre. La seconda età è quella della fanciullezza che si sviluppa nel “grembo” della famiglia. E’ in questo contesto che si apprendono, come in una sintesi, tutte le dimensioni della vita. Di qui il “primato” che i bambini devono avere nella attenzione della famiglia, della Chiesa e della società. Gesù ce lo insegna a chiare lettere, anzi a chiari esempi, partendo da, lui stesso che per abitare tra noi si è fatto bambino.

La terza età della vita è l’adolescenza. Ancora una volta l’esempio di Gesù è straordinario. Il suo legame obbediente ai genitori ma nello stesso i suoi primi passi per rispondere alla vocazione che Dio ispira. E’ in questa età che si iniziano ad assaporare i passi della libertà. La quarta età della vita è quella giovanile, che proprio in questa generazione è messa a dura prova. Eppure ad essa è chiesto, fin dal principio, che il giovane uomo e la giovane donna lasceranno il padre e la madre per formare una sola carne. E’ una dimensione fortemente problematica nella società contemporanea, soprattutto occidentale.

C’è poi la quinta età che è quella degli adulti. Sulle loro spalle grava il compito arduo e assieme affascinante di “gestire” la vita della società. Sappiamo bene le difficoltà di questa età con tutte le problematiche che comporta, a partire dal tipo di società che costruiscono sino alla grave responsabilità del trasmettere alle generazioni che vengono e a quella di non abbandonare le generazioni passate.

L’ultima età della vita che si è appena affacciata alla società in maniera così forte è rappresentata dagli anziani e dai nonni. Grazie a Dio la vita si è allungata e gli anziani sono cresciuti anche di numero. Ma, purtroppo, non è cresciuta la cultura della società, e talora anche delle comunità cristiane, nei confronti degli anziani. E’ una nuova frontiera che richiede uno scatto di creatività e di generosità. L’affermarsi dell’eutanasia  sta a dire la crudeltà di una cultura che allunga gli anni, li rende poi terribili, sino a spingere ad odiare l’esistenza stessa. In tale conteso si iscrive il grande tema della presenza del lutto (come anche della malattia) nella famiglia. E’ anch’esso di fatto disatteso e, in certo, modo occultato dalla cultura contemporanea eccetto che da coloro che vedono un profitto economico anche da questa situazione. La Chiesa ha il compito gravissimo e più che urgente di riscoprire e promuovere, nelle famiglie e nella Chiesa, quel “ministero di consolazione” che Gesù ha mostrato con tanta evidenza anche nel Vangelo. Due volte sole Gesù ha pianto: su Gerusalemme e sulla morte dell’amico Lazzaro.

 La fraternità tra le famiglie

Credo sia decisivo per la pastorale inventare quella che chiamerei “fraternità tra le famiglie”. Nel Nuovo Testamento è chiara questa prospettiva che chiamiamo “chiesa domestica”, ossia quel gruppo di famiglie che si riunivano assieme una casa più grande. Così fu all’inizio del cristianesimo. Oggi è i9ndispensabile riprendere tale ispirazione. Non si tratta perciò solo di ripensare la pastorale famigliare, quanto di rendere l’intera pastorale in una prospettiva famigliare. Va promossa in ogni modo una prospettiva di “fraternità tra famiglie”. La troviamo già presente nei movimenti e nelle associazioni. Ma va promossa a livello generale coinvolgendo tutte le parrocchie e le associazioni.

Si tratta non solo di essere dentro la vita della parrocchia, ma anche all’interno della vita cittadina, dell’intera società ove le famiglie sono chiamate a dare il loro contributo come lievito di “familiarità” nella società.

La Chiesa: una madre che accompagna, discerne e integra le famiglie ferite

Un cenno vorrei farlo al capitolo ottavo della Esortazione Apostolica. Il papa ribadisce che non si deve affatto rinunciare ad illuminare la verità del cammino della fede e le forti esigenze della sequela del Signore. Al contrario, significa assumere lo sguardo di Gesù e lo stile di Dio che egli ha chiaramente espresso nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi incontri. Il Papa, dopo aver ribadito che cos’è il matrimonio cristiano, aggiunge che ci sono anche «altre forme di unione che contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo». In ogni caso, la Chiesa «non manca di valorizzare gli “elementi costruttivi in quelle situazioni che non corrispondono ancora o non più” al suo insegnamento sul matrimonio» (n.292).

Con questo passaggio il testo delinea il nuovo asse della vita pastorale della Chiesa iscritto nell’orizzonte della Misericordia e sulla scia della Evengelii Gaudium: ossia una Chiesa dedicata ad accompagnare e integrare tutti, perché nessuno sia escluso. In tale orizzonte si chiede non uno sguardo di condanna ma di discernimento per cogliere nelle diverse situazioni i “segni di amore che in qualche modo riflettono l’amore di Dio”(294). Sono perciò «da evitare giudizi che non tengono conto della complessità delle diverse situazioni, ed è necessario essere attenti al modo in cui le persone vivono e soffrono a motivo della loro condizione» (n.296). Ogni persona deve trovare posto nella Chiesa. E “nessuno può essere condannato per sempre”(297). E’ necessario perciò essere attenti alle singole situazioni che possono essere molto diverse e “non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale» (n.298). E’ per questo che non si è ritenuta necessaria una “nuova normativa generale di tipo canonico” (300), mentre è indispensabile un “discernimento personale e pastorale dei casi particolari”(300).

La parola d’ordine consegnata ai Vescovi è semplice e diretta. Si tratta di tre verbi che costituiscono un unico itinerario: accompagnare, discernere, integrare nella comunità cristiana. La fede condivisa e l’amore fraterno possono fare miracoli, anche nelle situazioni più difficili. L’accesso alla grazia di Dio, che, accolta, genera la conversione del peccatore, è una cosa seria. La dottrina cattolica del giudizio morale, forse un po’ trascurata, è rimessa in onore: la qualità morale dei processi di conversione non coincide automaticamente con la definizione legale degli stati di vita. Il compito dei sacerdoti, in particolare, è indirizzato a condurre a questo appuntamento col Vescovo: niente fai-da-te, né per loro, né per i fedeli. Non è un calcolo legale da applicare, né un processo da decidere ad arbitrio. Il cammino richiesto deve interpretare la dottrina della Chiesa, discernere le coscienze, onorare il principio morale, custodire la comunione.

In questa linea, accogliendo le osservazioni di molti Padri sinodali, il Papa afferma che «i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni forma di scandalo». «La loro partecipazione può esprimersi in diversi servizi ecclesiali (…) Essi non devono sentirsi scomunicati, ma possono vivere e maturare come membra vive della Chiesa (…) Questa integrazione è necessaria pure per la cura e l’educazione cristiana dei loro figli» (n.299).

Più in generale il Papa fa una affermazione estremamente importante per comprendere l’orientamento e il senso dell’Esortazione: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete (…) è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa Esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché il “grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi» (n.300). Il Papa sviluppa in modo approfondito esigenze e caratteristiche del cammino di accompagnamento e discernimento in dialogo approfondito fra i fedeli e i pastori.

A questo fine richiama la riflessione della Chiesa «su condizionamenti e circostanze attenuanti» per quanto riguarda la imputabilità e la responsabilità delle azioni e, appoggiandosi a san Tommaso d’Aquino, si ferma sul rapporto fra «le norme e il discernimento»: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione (le norme) non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti a una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» (n.304).

Nell’ultima sezione del capitolo: «La logica della misericordia pastorale», Papa Francesco, per evitare equivoci, ribadisce con forza: «Comprendere le situazioni eccezionali non implica mai nascondere la luce dell’ideale più pieno né proporre meno di quanto Gesù offre all’essere umano. Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» (n.307). Ma il senso complessivo del capitolo e dello spirito che Papa Francesco intende imprimere alla pastorale della Chiesa è ben riassunto nelle parole finali: «Invito i fedeli che stanno vivendo situazioni complesse ad accostarsi con fiducia a un colloquio con i loro pastori o con laici che vivono dediti al Signore. Non sempre troveranno in essi una conferma delle proprie idee e dei propri desideri, ma sicuramente riceveranno una luce che permetterà loro di comprendere meglio quello che sta succedendo e potranno scoprire un cammino di maturazione personale. E invito i pastori ad ascoltare con affetto e serenità, con il desiderio sincero di entrare nel cuore del dramma delle persone e di comprendere il loro punto di vista, per aiutarle a vivere meglio e a riconoscere il loro posto nella Chiesa» (n.312). Sulla “logica della misericordia pastorale” Papa Francesco afferma con forza: «A volte ci costa molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio. Poniamo tante condizioni alla misericordia che la svuotiamo di senso concreto e di significato reale, e questo è il modo peggiore di annacquare il Vangelo» (n. 311).

Spiritualità coniugale e familiare

Il nono capitolo dell’Amoris Laetitia è dedicato alla spiritualità coniugale e familiare, «fatta di migliaia di gesti reali e concreti» (n.315). Con chiarezza si dice che «coloro che hanno desideri spirituali profondi non devono sentire che la famiglia li allontana dalla crescita nella vita dello Spirito, ma che è un percorso che il Signore utilizza per portarli ai vertici dell’unione mistica» (n.316). Tutto, «i momenti di gioia, il riposo o la festa, e anche la sessualità, si sperimentano come una partecipazione alla vita piena della sua Risurrezione» (n.317). Si parla quindi della preghiera alla luce della Pasqua, della spiritualità dell’amore esclusivo e libero nella sfida e nell’anelito di invecchiare e consumarsi insieme, riflettendo la fedeltà di Dio (cfr. n.319). E infine la spiritualità «della cura, della consolazione e dello stimolo». Nel paragrafo conclusivo il Papa afferma: «Nessuna famiglia è una realtà perfetta e confezionata una volta per sempre, ma richiede un graduale sviluppo della propria capacità di amare (…). Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare ! (…). Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa» (n.325).

 

 

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