Giona, il profeta convertito dal Dio alla misericordia

Il libro di Giona appartiene a quella sezione, che va sotto il nome di “profeti minori” o, ancora meglio, quello dei “dodici profeti” ed è collocato subito dopo il libro del profeta Abdia. Rispetto agli altri libri, quello di Giona è un libro particolare, perché esso, a differenza degli altri, non contiene nessun oracolo profetico, ma si presenta come un racconto, che vuole essere esso stesso una “profezia”.

Per meglio comprendere il senso di questa affermazione, è opportuno chiarire sin da principio cosa vogliamo indicare con il termine “profezia”. Essa non può essere compresa come un’attività assimilabile a quella dell’indovino o dell’astrologo. L’elemento fondamentale, che caratterizza l’esercizio della profezia, è dato dall’ascolto della Parola di Dio. Il profeta è innanzitutto una persona in ascolto della Parola di Dio, in quanto ha imparato a scoprire nella sua vita e negli avvenimenti della storia questa presenza viva ed operante di Dio.

Attraverso l’osservazione attenta degli avvenimenti della storia egli accetta di farsi interlocutore di questo Dio, che ha una parola da dire sulle vicende umane, conducendole verso un porto di salvezza. Il profeta si ritrova a dire una parola o a compiere delle azioni, che sono il frutto di questa obbedienza a Chi ha preso l’iniziativa nella sua vita. Egli non parla da sé, ma dice ciò che ha ascoltato, avendo ben chiaro che, se venisse meno al suo compito, dovrebbe rispondere del fallimento del suo popolo davanti a Dio.

1. Il contesto in cui nasce il racconto del profeta Giona

Il libro di Giona consta di soli quattro capitoli ed è suddivisibile in due parti, avendo nel mezzo un inno di ringraziamento, che il profeta innalza a Dio dal ventre del grande pesce. La trama del racconto è molto semplice: c’è un profeta in Israele, Giona, che viene chiamato da Dio ed inviato a Ninive per annunciare alla città il giudizio di Dio. La peculiarità del racconto sta proprio nel fatto che Giona intende sottrarsi in modo risoluto a questo compito scegliendo la fuga, ma alla fine si ritrova ad esercitare la sua missione, nonostante il suo rifiuto iniziale.

Il narratore della storia di Giona, il profeta, ha disposto gli elementi del racconto in modo tale da far risaltare attraverso un fine umorismo la modalità dell’agire di Dio, che pur rispettando gelosamente la libertà dell’uomo, porta a compimento il suo progetto. Prima di passare all’ascolto del testo, vorremmo chiederci, però, cosa possa aver mosso il narratore a proporci la storia di Giona.

In effetti la storia di Giona va collocata in quel clima di ricostruzione urbanistica, ma anche civile e religiosa, che ha caratterizzato gli anni del ritorno dall’esilio. Israele ha conosciuto l’amarezza della sconfitta da parte degli Assiri e dei Babilonesi, la tragedia della deportazione, ma ha anche sperimentato la tentazione di radicarsi nella nuova realtà, lasciandosi assimilare alla cultura dei dominatori. In modo inaspettato il ritorno nella terra di Israele è stato reso possibile dall’editto di Ciro, che permetteva a tutti i deportati di ritornare alla propria terra.

I libri di Neemia e di Esdra sono testimoni di questo movimento di ritorno e del fervore che animava coloro che erano già rientrati in patria. Avevano subito messo mano alla ricostruzione del Tempio, cercando di rimettere in piedi tutto il sistema religioso, ma allo steso tempo si era fatto strada una concezione integrista di salvaguardare la fede, cadendo facilmente nel nazionalismo e nel clericalismo. Si assisteva, in tal modo al moltiplicarsi di liturgie penitenziali o alla decisione di non aver alcun contatto con i popoli vicini, rispedendo alle loro case le donne straniere.

Il racconto di Giona presuppone questo diffuso clima di diffidenza verso tutto ciò che non appartiene ad Israele e l’affermarsi di un modo nazionalistico di concepire il rapporto di Alleanza, che Dio ha stretto con il suo popolo. In effetti la missione, che Dio affida a Giona, mira a spezzare questa chiusura autoreferenziale, che mette in sordina il senso vero dell’elezione di Israele da parte di Dio.

Israele è chiamato, sì, ad essere il popolo di Dio, ma non per chiudersi nel godimento di un proprio privilegio, ma per portare con Dio la responsabilità di questo mondo, di questa storia umana chiusa in una spirale di violenza e di morte. Nella figura di Giona, che oltretutto significa “colomba”, è tutto Israele, in quanto popolo di Dio, che viene chiamato a vivere la propria esistenza “davanti al volto” di tutte le nazioni, testimoniando l’unicità e la fedeltà amorosa del Dio creatore del mondo e Signore della storia.

Egli viene inviato a Ninive, quella città, da cui Israele ha ragioni da vendere per tenersi alla larga, perché essa è il luogo dell’impero, la realtà capace di esercitare sugli altri un potere oppressivo. Ninive non rappresenta soltanto il mondo dei pagani, ma designa quella città o quella nazione o quelle istituzioni che nei vari momenti della storia si ritrovano ad esercitare un potere, che schiaccia, asserve, annienta qualsiasi forma di libertà.

Il narratore della storia di Giona sta, dunque, proponendo un piatto molto indigesto per un credente, che ha conosciuto la crudeltà ed il cinismo dell’oppressore. Come può egli accettare la logica di un Dio che mostra di avere a cuore la sorte degli stessi oppressori? Ma lo stesso finale del racconto ribalta l’interrogativo, perché adesso è Dio stesso che chiede a questo credente scandalizzato se dell’oppressione bisogna incolpare tutto un popolo, quei “centoventimila, che non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra” (Gn 4,11).

In questo interrogativo, che di fatto lascia aperto il racconto, si intravvede in filigrana Esodo 34,2-7 ed il modo di come Dio si rivela a Mosè: “Il Signore passò davanti a lui, proclamando: il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà.”. Ma si intravvede anche l’allargamento di orizzonte operato dal profeta Geremia: “A volte nei riguardi di una nazione io decido di sradicare, di demolire e di distruggere, ma se questa nazione, contro la quale avevo parlato, si converte dalla sua malvagità, io mi pento del male che avevo pensato di farle”(Ger 18,7-8).

2. Lettura del Capitolo I – La grande tentazione del credente: la fuga dalla responsabilità

Il racconto inizia senza un prologo, che permetta all’ascoltatore di collocarsi in un determinato tempo e spazio. Esso si apre, invece, con queste parole: “E fu la Parola di Dio su Giona, figlio di Amittai”. Direbbe Giovanni nel suo Vangelo: In principio il Verbo”, perché l’iniziativa è di Dio ed ogni profeta può ben testimoniare questa irruzione della Parola, che realizza ciò che dice. Si tratta di una Parola inaspettata e come nel caso di Giona è anche una Parola indesiderata, che scomoda e che mette in movimento, finché non si giunga a quella risposta, che è allo stesso tempo assunzione di responsabilità.

v. 2: “ Alzati (Kum), Va’ (lek) a Ninive, la città la grande e proclama (Kerà) su essa che è salita la sua malvagità davanti al mio volto”.

La Parola che irrompe su Giona è Parola di resurrezione. C’è una situazione di sonno, di immobilità, di paura e la Parola sopraggiunge per sconvolgere un mondo di abitudini e di pregiudizi e per risvegliare alla vita. Il profeta è risvegliato ed è anche inviato alla città, quella grande, perché questa città, che è il frutto della capacità degli uomini, ha costruito la sua grandezza su quella volontà di potenza, che si traduce in sbocchi disastrosi per la convivenza umana.

Dio non intende avallare un modo di stare al mondo, che sia fondato sulla prepotenza, che non sa produrre altro che una storia di dolore e di morte e proprio per questo scomoda coloro che confidano in Lui, perché siano pronti ad affrontare il mondo, proclamando, gridando che quella grandezza non fa salire a Dio “il soave profumo” di una vita donata, ma verso di Lui sale tutto il miasmo della “malvagità” degli uomini.

Dio è preoccupato della sorte degli uomini ed intende coinvolgere coloro che sono legati a Lui con il vincolo dell’Alleanza a non sottrarsi al compito di farsi carico di questa malvagità. Si tratta della stessa malvagità, di cui si parla in Gen. 6,5 a proposito del diluvio universale e dove è detto che “ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre”.

v. 3: “E si alzò Giona per fuggire a Tarsis lontano dal volto del Signore. Discese a Giaffa…”

Giona di fronte alla voce che lo chiama non oppone nessuna resistenza, come, invece, hanno fatti altri personaggi della Bibbia come Mosé o come Geremia. Egli oppone solo un silenzio, che lo porta a maturare la decisione di prendere la direzione opposta, e così invece di andare verso oriente, egli sceglie Tarsis, il lontano occidente, una scelta a propria misura. Giona si alza, ma non per abbracciare la missione ricevuta.

Eppure egli è una persona impegnata nell’ascolto della Parola del Signore, ma concretamente egli vuole dare alla sua vita un orientamento, che gli permetta di starsene in un angolo senza essere disturbato dal Signore. Il Giona, che sceglie la direzione opposta, è un profeta mancato, è semplicemente un uomo in fuga da ogni responsabilità, come Adamo nel paradiso terrestre.

Il testo ci fa sapere che il cammino di Giona si presenta come una “discesa” inarrestabile e che cambierà direzione solo alla fine del secondo capitolo. Egli è disposto a pagare qualsiasi prezzo, pur di porsi lontano da quello sguardo del Signore, che lo coinvolgerebbe in una relazione, che egli giudica troppo pericolosa per la sua vita. Salire su una barca, stare sul mare gli sembrano elementi sufficienti per sottrarsi allo sguardo del suo Dio.

v. 4 “Ma il Signore gettò un vento (ruah=spirito) grande sul mare e vi fu nel mare una tempesta grande”

Nel suo desiderio di fuga Giona aveva immaginato che il mare, in quanto luogo inospitale, lo poteva mettere al riparo dall’azione di Dio. Ed invece il Signore non si stanca di riprendere l’iniziativa, perché egli è fedele a quella missione affidata. Egli “getta” il suo spirito sul mare e tutto viene sconvolto. La tempesta che si forma è così grande che la stessa nave è in pericolo di sfasciarsi da un momento all’altro.

E’ in questo momento che veniamo a sapere che i marinai che formavano l’equipaggio della nave erano tutti pagani, perché, dice il testo, “invocarono ciascuno il proprio dio”. Essi si comportano come ogni uomo, quando si trova in grave pericolo ed allo steso tempo si danno da fare “gettando” in mare “quanto avevano sulla nave per alleggerirla”. Un antico rabbino, Rabbi Eliezer, si premura di precisare che i marinai presenti sulla nave erano in numero di settanta, cifra simbolica che richiama la totalità dei popoli della terra. Su quella nave sono rappresentati tutti i popoli e Giona è in mezzo a loro.

v. 5: “Intanto Giona discese nel luogo più in basso della nave, si coricò e si addormentò profondamente”.

Tutto il versetto quinto mette in contrasto la frenetica attività dell’equipaggio e l’inattività di Giona. E’ un contrasto molto ironico: il profeta che crede di poter fuggire da Dio dorme, mentre i pagani pregano e lavorano. Proprio colui che è stato chiamato e la cui vita è segnata dal dialogo con il suo Dio, adesso che la nave sta per affondare ed il mondo va in malora, egli di fatto dorme, come del resto, dice s. Girolamo, dormiranno i discepoli nell’orto del Getsemani.

A svegliarlo dal sonno si incarica un pagano, il capo dell’equipaggio, che rivolgendosi a Giona gli ripete le stesse parole del Signore: “Alzati (Kum) grida (Kerà) al tuo Dio”. Il profeta che doveva predicare ai pagani è adesso interpellato da uno di loro, che si mostra molto più assennato di lui.

v. 7: “Quindi dissero tra di loro: Venite, tiriamo a sorte per sapere chi ci abbia causato questo male. Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona”.

Sulla nave adesso si discute, perché si vuol “sapere” cosa o chi sia stato causa di tanto male. Possibilmente l’equipaggio congettura che possa essere colpa di qualche criminale e per questo si ricorre al procedimento molto in voga a quei tempi e che consiste nel sorteggio. Il sorteggiato è Giona, per cui il racconto si concentra su questo contraddittorio tra Giona e i marinai, che vogliono sapere tutto di lui. Certo è strano che la sorte sia caduta su Giona, come se fosse lui il colpevole, se il mondo va male. Però è anche vero che Giona è il profeta, che doveva proclamare le parole di Dio, ma ha tradito la sua vocazione!

v. 8: “Gli domandarono: qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?

Di fronte a questo piccolo microcosmo, che lo sta pressando di domande, che riguardano la sua identità, Giona si dispone alla testimonianza. Egli, che finora non aveva proferito nessuna parola, adesso è pronto a rispondere e a dare ragione della propria fede di fronte ad un mondo che è disposto ad accoglierlo ed a ricevere la sua testimonianza.

v. 9: “Egli rispose: Ebreo io e temo YHWH, Signore del cielo e che ha fatto il mare e l’asciutto”

Alle attente domande dei marinai, Giona risponde riprendendo un termine, che troviamo in bocca ad Abramo e che si ritrova in Esodo per indicare la massa di schiavi che si avvia ad attraversare il mare. Nel dirsi “ebreo” Giona sente di dover rappresentare tutto il popolo di Israele e la sua fede nel Dio unico, che ha fatto il cielo e la terra. Egli confessa di “temere” Dio, chiamandolo con il nome impronunciabile del tetragramma YHWH.

Ma in questa sua testimonianza c’è qualcosa che stride. Giona non sta guardando il proprio tradimento, ma ci tiene a sottolineare la distanza che esiste tra lui, ebreo che conosce il vero Dio, il Dio che ha fatto il cielo e la terra e questa massa di umanità perduta dietro ai vari idoli.

v.10: “Quegli uomini temettero grandemente e gli domandarono: Che cosa hai fatto? Infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva lontano dal Signore, perché lo aveva loro raccontato”.

La domanda che i marinai rivolgono a Giona sul cosa abbia fatto, ma soprattutto sul perché l’abbia fatto è strettamente legata a questo “timore grande”, che non è più la paura di fronte agli elementi naturali, ma deriva dal sentirsi posti di fronte al Dio professato da Giona. Così essi lo mettono di fronte alla sua responsabilità, chiedendogli di non fuggire più, ma di avere il coraggio di guardarsi dentro, di interrogarsi e di lasciare emergere la verità delle proprie azioni.

Così Giona pressato da questa umanità, che è totalmente alla deriva, sembra rendersi conto che il suo comportamento abbia provocato una tempesta che si sta tramutando in naufragio. Alla domanda dei marinai che gli chiedono: “Che cosa dobbiamo fare?”, Giona non ha dubbi e risponde loro di “gettarlo in mare”. E’ una risposta paradossale, ma che esprime benissimo il grado di chiarezza raggiunto da Giona.

Egli vuole adesso prendere sul serio quella Parola, che gli è stata rivolta, ma chiede ai marinai di compiere loro il gesto di “gettarlo”, perché se dovesse dipendere da lui non sarebbe capace di prendere l’iniziativa! I marinai sentono moltissimo il peso di un gesto così drammatico, per cui si danno da fare per raggiungere la spiaggia, ma più loro moltiplicano gli sforzi e più il mare si ingrossa, per cui alla fine sono costretti loro malgrado ad accettare la soluzione proposta da Giona.

v. 14: “Allora implorarono (Kerè) YHWH e dissero: YHWH fa’ che noi non periamo”

Ciò che suscita una certa meraviglia è il fatto che adesso questo piccolo mondo presente sulla nave si rivolge all’unisono al Dio professato da Giona invocandolo con il nome impronunciabile e si tratta sempre di pagani! Essi chiedono a Dio che non ricada su di loro il sangue innocente, perché essi vogliono fare non la propria, ma la sua volontà. E così essi prendono Giona e lo gettano nel mare ed il mare si calma.

v. 16: “Quegli uomini temettero con timore grande YHWH, offrirono sacrifici a YHWH e gli fecero promesse”.

La conclusione del versetto ci dice chiaramente che nel momento in cui Giona ha preso sul serio la Parola che gli era stata rivolta, le distanze tra popolo di Dio e mondo dei pagani vengono superate. Pur rispettando fino in fondo la libertà di Giona, Dio ha saputo volgere anche il suo rifiuto in occasione di evangelizzazione. Il profeta Giona, accettando di essere gettato in mare, scopre di non aver nulla da dover difendere, nemmeno la propria vita, perché “chi confida nel Signore, non resterà confuso” (Sir 32,24)

Gregorio Battaglia

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