Inaugurazione della Scuola Teologica: “Per una nuova cultura vocazionale, sapienziale e generativa”

A. Il senso e la fatica della scelta

Vivere un coinvolgimento vocazionale, oggi, presuppone una scelta che impegni tutta la vita in maniera stabile e radicale. Essa si snoda per tappe che non possono essere bruciate, né alcuna di esse può ritenersi l’ultima e la definitiva.

Un cammino vocazionale porta ad un progetto che richiede quel tipo di impegni fedeli, che oggi spaventano tanto, sia nel seguire Gesù sia nella modalità per assumere scelte concrete di vita.

La Vita consacrata, il Presbiterato, ma anche il Matrimonio e la vita di famiglia…; sappiamo bene che la Professione, l’Ordinazione, il giorno del Matrimonio sono solo l’inizio di un cammino.

Qualche anno fa apparve, nella copertina della prestigiosa rivista “TIME”, una fotografia piuttosto enigmatica ed emblematica: in primo piano erano fotografati dei volti di persone piuttosto straniti e attoniti; avevano tutti l’aria corrucciata e persino arrabbiata:  chi perplessa, chi stupita, (quasi di uno stupore doloroso…), chi carica di interrogativi; insomma, sembravano tutte persone di fronte a qualche fatto davvero strano!

La didascalia sotto la foto poneva alcune domande: «Saranno delle persone che stanno assistendo ad un incidente stradale? Oppure persone di fronte alla visione di una rapina? 0 si tratterà di qualche sequestro di persona? 0 di un incendio che li lascia  atterriti e paralizzati?».

La serie di domande continuava su questo tono piuttosto drammatico;  poi si invitava a voltare pagina e sotto la stessa foto si poteva leggere: «Si tratta solo di un gruppo di persone fotografate ad un semaforo di un incrocio di strade, nella attesa di attraversare la strada … ».

Un piccolo fatto, ma che fa molto riflettere e che pone tanti interrogativi al modo in cui oggi si vive: la maggior parte della gente, ai nostri giorni, vive la propria esistenza in maniera arrabbiata, o depressa, o confusa, o sofferta.

Molta gente haperso il senso della propria vita come appello e chiamata;  non ha in sé una progettualità che la porti a cercare, a trovare in quello che dice o in quello che  fa il gusto dell’esistere.

Spesso la vita di tante persone è ridotta ad un cumulo di macerie e, senza voler fare le «Cassandre» di professione, sono incapaci di dire e di dirsi dove vanno, perché vivono, come operano.

La mancanza dichiarata o tacita di una progettualità di vita, porta a forme come quelle che abbiamo descritto, di pura rassegnazione o di fatalismo pessimistico, di un’attività frenetica, disordinata, caotica che altro non è se non la compensazione di un vuoto interiore.

Chi ne è esente, alzi la mano.

Spesso anche i presbiteri, le religiose e i religiosi (la cui vita dovrebbe essere più che mai “progettuale”), cadono in questa trappola esistenziale, perché anche loro, uomini e donne della chiamata, hanno perso il senso e il fine ultimo del progetto della propria vita di chiamati e di consacrati (Papa Francesco torna continuamente su questo aspetto, perché ci siamo ingabbiati dentro ai nostri recinti protettivi).

Una cultura a‑progettuale

La cultura è un po’ come l’aria che si respira; non si vede, non si tocca, eppure riempie il cuore e la mente, come l’aria riempie i polmoni.  La nostra cultura, tutta tesa a realizzare la prometeica avventura della propria autorealizzazione, vive la logica spesso edonistica del “carpe diem”  e non vuole tenere conto né del proprio passato per imparare da esso, né del proprio futuro che spaventa e terrorizza. Non a caso la cultura del nostro tempo è definita anche la cultura dell’ “homo pavidus”.

Questo uomo impaurito scappa e soffre della sindrome di Giona, come afferma in maniera acuta Ernest Becker, premio Pulitzer americano.

E’ un uomo rattrappito su se stesso, che non ha il coraggio di uscire dal proprio accartocciamento, a riccio su se stesso, che vive di individualismo e di apatia, con qualche sprazzo di solidarietà che sembra  fatta più per lenire il proprio senso di colpa. E’ un uomo che, paradossalmente, in una civiltà del rischio, si rifugia nel non‑rischio, che non vuole guardare avanti ad un futuro che si presenta a lui più ricco di minacce ed incognite che di sicurezze e speranze.

Come collocare in questa logica a‑progettuale il senso e il coraggio di un progetto di vita?

Come recuperare la dimensione di una vita vissuta in prima persona, con una libertà che si coniuga alla responsabilità, senza lasciarsi spersonalizzare da paure e trepidazioni che paralizzano la propria capacità di scelta, o da mode che espropriano da uno stile di pensare personale ed originale? [1]

Un progetto di vita

E’ sempre interessante fare ricorso alla originaria etimologia delle parole per comprenderle appieno nel loro significato primario ed essenziale.

La parola progetto deriva dal verbo latino <proicio> e dal suo participio passato <proiectum>; un po’ di memoria letteraria non guasta mai!

–  Il primo significato di questa voce latina è gettare innanzi: si tratta quindi di una vita che a partire dal suo presente cerca spazi e spiragli di creatività, «pro‑iettandosi» in avanti, in un’ansia di futuro non angosciata, ma costruttiva. Il progetto di vita è quindi l’esatto antidoto a quella forma di ripiegamento su se stessi che si presentava poc’anzi;  è un modo per chiamare fuori la propria esistenza da quelle pastoie della privacy personale e assolutizzata nelle quali ci si trova spesso a vivere o a vegetare. E’ il coraggio di gettare in avanti la propria vita verso l’avventura, il coraggio dell’uomo pellegrino che cammina sulle orme dell’homo viator, così come ce lo propone il filosofo francese Gabriel Marcel come metafora della vita[2].

–  Un’altra dimensione significativa della parola progetto riguarda il fatto di costruire, edificare qualcosa.  Il progetto diviene una via significativa per essere gli architetti della propria esistenza; in questo senso è davvero bello trovare che una delle dimensioni della sapienza biblica è legata alla edificazione di qualcosa, sia essa casa o città; e l’edificare richiede un occhio penetrante e lungimirante e insieme la valutazione di quanto effettivamente serve e dei costi reali per porre in opera una costruzione.

–  Da ultimo, tra i vari significati del verbo “proicio”, se ne trova uno molto interessante: esso può anche significare abbandonare, consegnare la propria vita nelle mani di qualcuno. Questo vuol dire un profondo senso di fiducia: la disponibilità piena  che prova il bambino quando si trova nelle braccia accoglienti e sicure della  sua mamma o del suo papà. Allora il progetto di vita  può davvero essere inteso come un sereno e semplice abbandono nelle braccia di “Qualcuno che ci vuole bene”, sapendo quanto “siamo preziosi ai suoi occhi”.

Riascoltiamo le bellissime e tenere parole del testo di Isaia 43, 1-7:

       Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe,

       che ti ha plasmato, o Israele:

       “Non temere, perché io ti ho riscattato,

       ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.

       Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno;

       se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare; (…)

       Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo (…)

Tutto ciò comporta che nella vita di ogni uomo, ma inparticolare nella vita di una persona consacrata, che i valori scelti abbiano un peso rilevante e coerente, che non siano solo qualcosa da relegare in una orbita cervellotica e razionalizzata, ma diventino calamita vitale di una esistenza.

E’ un riandare alle radici delle scelte personali, trovando il coraggio di scavare là dove si era rimasti nel superficiale o di ri‑fondare quello che forse, a lungo  andare,  si è smarrito lungo il cammino.

Sappiamo tutti, per esperienza di vita, che le motivazioni personali, anche quelle che all’inizio sembrano le più solide e, perché no, anche le più mature, poi possono perdere di mordente; si cade in una forma strisciante di de‑idealizzazione, per cui c’è davvero bisogno di un’azione rifondante tutta la gamma dei propri valori‑guida, nel  ridare ad essi la caratura necessaria per diventare nuovamente apprezzabili, coinvolgenti ed entusiasmanti ai nostri occhi.[3]­

B. Non siamo consegnati al nihilismo e al fatalismo

Nell’interessante saggio “L’ospite inquietante” il filosofo Umberto Galimberti pone un problema cruciale per la cultura in cui viviamo e in particolar modo per il riverbero che esso ha nell’approccio alla comprensione della realtà giovanile. [4]

A dare il nome all’ospite inquietante, è stato lo scrittore russo Ivan Sergeevic Turgenev (1818-1883), a partire dal quale il nihilismo si è fatto strada nel Romanticismo e nell’Idealismo, ha contaminato il pensiero sociale e politico francese e tedesco, ha animato l’anarchismo e il populismo del pensiero russo, ha proclamato la morte di Dio con Nietzsche, aprendo quella cultura della crisi connotata da relativismo, scetticismo e disincanto.

Questo star male può facilmente diventare nihilismo e l’ospite inquietante, penetrando nelle coscienze, finisce con l’annullare ogni spinta positiva, ogni tensione verso l’affermazione di sé, generando piuttosto confusione e pensieri di inquietudine e di negatività.

Ma dovremmo realmente chiederci: quale attenzione si dà alla educazione della creatività, della originalità, della fantasia, dei dolori e dei desideri, in una parola quale spazio ha l’educazione dei sentimenti? E’ la sfera della emotività che i giovani oggi hanno più incontrollata rispetto alla generazione che li ha preceduti, che produce difficoltà ad elaborare i conflitti, e che viene definita da Galimberti una forma di  pericoloso analfabetismo emotivo.

Certa aridità nei giovani nasce dal loro giudicare i sentimenti come debolezza (mentre sono una forza fondamentale nell’equilibrio di un individuo), dominati come sono dal mito dell’apparire, come unica forma di contare qualcosa in questa società.

Un’idea che conduce a trasmissioni televisive come i reality che, mettendo a nudo l’anima, compiono un processo di omologazione degli individui davvero pericoloso.

“Questa è la vera pornografia – afferma Galimberti – perché mettere a nudo l’anima è più pornografico che spogliare il corpo”.

L’etica del pellegrino, dell’uomo in cammino, è l’unica via che possiamo prospettare come proposta positiva che possa ridare un codice di lettura etico e positivo del mondo e della vita, dove “attesa e speranza” sono dei messaggi che ancora hanno un significato esistenziale e progettuale.

Uno scrittore assai rappresentativo di questa realtà è il romanziere austriaco Bernard Thomas: per lui l’uomo è freddo, gelo e nebbia… Siamo tutti come animali assiderati, intrappolati dal gelo, che è onnipresente; nessuna verità esiste.

Come non pensare alla simbologia stupenda delle lampade nuziali  che squarciano la notte, nella parabola del Vangelo delle 10 vergini?

Un altro autore contemporaneo, che ha un posto di rilievo nella letteratura attuale, è Par F. Lagerkvist[5]: poeta, drammaturgo e narratore svedese, morto nel 1974.

Egli paragona Dio al mare e l’uomo alla conchiglia: come potrebbe il mare ricordare la conchiglia nella quale  una volta mormorava? Ricordare forse no, ma certo flagellarla con le onde è possibile. E l’uomo è condannato, come una conchiglia, alla immobilità della scogliera.

Forse il testo più drammatico ed espressivo di questo filone, resta quello di Saul Bellow: “Il pianeta di Mr. Sammler”[6]. Mr. Sammler è un sopravvissuto alla guerra, testimone del crollo totale  del tecnicismo, dell’efficientismo e dell’automatismo.

Tutti si affannano a spiegare perché questo è avvenuto, ma nel frattempo… “l’anima se ne sta seduta, povera creatura, in cima a sovrastrutture di spiegazioni, e non sa più da che parte girarsi e dove dirigersi”.

E così, la forza  creatrice dellesperienza  si  scontra con l’impotenza della fragilità umana; la volontà di potere sbatte violentemente  contro la rassegnazione e l’indecisione dell’uomo contemporaneo; l’uomo totale, capace di imporsi a tutto e a tutti, si annienta nell’uomo senza qualità,  che ci descrive il romanziere contemporaneo Robert  Musil.[7]

“Quanto paurosa è la notte della vita, non squarciata dal bagliore di una lampada! E’ necessario avere con sé una riserva d’olio perché le nostre lampade risplendano. E’ necessario avere dentro di sé molto amore,  per riscaldare le nostre notti  fredde”.

Questa è la risposta che Francois Mauriac dà all’uomo freddo e assiderato di Bernard Thomas, metafora molto pervasiva del nihilismo attuale.

C. La spiritualità della ricerca

Vorrei proporre in maniera piuttosto semplice e sintetica, alcune linee di lettura che siano insieme anche “opportunità psico-pedagogiche e spirituali” per interpretare la realtà giovanile di fronte alla sofferta ricerca della Verità,  legata al senso della vita o alla sua stessa valenza vocazionale.

Il passaggio dall’amnesia alla … memoria

C’è una storia interessante, che troviamo riportata da Martin Buber e che trae origine dai racconti dei Chassidim, una miniera di saggezza e di spiritualità presente nella tradizione ebraica. Ecco  la bella parabola di Rabbi Hanoc.[8]

Egli racconta:

«C’era una volta uno stolto, ma così stolto e così insensato che era chiamato Golèm (in ebraico significa stupido, uomo senza intelligenza). Quando si alzava al mattino non riusciva proprio a trovare i propri abiti… Così alla sera, al solo pensiero di questo fallimento mattutino che si ripeteva quotidianamente, aveva oramai paura di andare a dormire. Poi una sera si fece coraggio; prese matita e foglietto e, spogliandosi, annotò minuziosamente dove posava ogni capo di vestiario. Il mattino seguente si alzò; finalmente era tutto contento. Prese la sua lista in mano e cominciò a leggere: “I calzini sono lì, i pantaloni di qua, il maglione dall’altra parte, le scarpe sono in fondo, il berretto eccolo là”, e se lo mise in testa tutto contento completando così il suo vestiario. Ma a quel punto il povero Golèm si bloccò e disse: “Ho trovato tutto stamattina, ma… io dove sono, dove sono rimasto?”. E si ripeté questa domanda in maniera ossessiva in preda all’ansia. Invano Golèm si cercò e ricercò: non riusciva proprio a trovarsi. Così succede spesso anche a noi», concluse Rabbi Hanoc…

«Macome è possibile cominciare da se stessi e nello stesso tempo dimenticarsi?», potrebbe essere una ulteriore domanda che ci facciamo.

Per uscire da questa trappola c’è una opportunità:sarebbe necessario chiedersi ogni tanto: «A che scopo sto facendo questo?». E la risposta corretta dovrebbe essere: «Non per me!». Vale a dire che comincio da me stesso ma non finisco su me stesso; mi prendo come punto di partenza ma non come meta di arrivo; mi conosco, ma non mi preoccupo eccessivamente di me stesso.

Tutto questo è ben descritto da una stupenda massima ricordata sempre da Martin Buber: «Nel tempo che passo a rivangare in me stesso, posso infilare perle per la gioia del Cielo».

Uno dei drammi del nostro tempo, ben presente anche in tanta parte della letteratura contemporanea, è il vuoto disorientante del non sapere più chi sono IO: il grande filosofo M. Heidegger la chiamava… “spaesatezza”.

Questo comporta anche una costante amnesia, che viene vissuta come dissociazione in vari aspetti della vita stessa: tra pensare e sentire;  tra settori di vita tra loro “scotomizzati”, cioè vissuti come compartimenti stagni; tra IO e l’ALTRO; come “dis-locazione” e frattura tra la propria storia personale e la tradizione a cui dovremmo attingere e che invece viene totalmente rimossa…[9]

Il passaggio dalla frenesia alla  pazienza.

E’ più che mai evidente la cultura del “tutto e subito” in cui siamo immersi e  nella quale i nostri ragazzi crescono. Viviamo  tutti una vita concitata, in cui  ciascuno di noi é  “schiavo” persino del proprio tempo. Quante volte  non sappiamo più distinguere l’urgente dall’essenziale, e questo comporta scelte davvero sballate di vita. Ci sono delle possibili vie per rispondere a queste modalità “incaute” del vivere?

Credo di sì!

– Una prima possibilità è quella di lasciare spazio, là dove ci è possibile, alla ricerca di un ritmo più calmo e quieto nell’impostare le nostre scelte e le nostre giornate. “Non è facile…” – direte. E’ vero, ma non possiamo abdicare a questa modalità “salva-vita”…

– Una seconda opportunità è quella di continuare a  ricercare la “gratuità”, intesa come il fare qualcosa per gli altri, senza necessariamente volere il contraccambio.

– Una terza possibilità è collegata al fatto che “ognuno  di noi rispetti il suo passo”, senza voler strafare e … “senza andare in cerca di cose grandi e superiori alle nostre forze” (cfr. Salmo 131).

Il passaggio dal “faccio io” al lasciarmi fare da LUI

E’ importante ricordare che la nostra legittima ricerca di autonomia non è autosufficienza né autoreferenzialità, come oggi troppo facilmente viene proposto.

Corriamo tutti il rischio di cadere nella trappola dei “self‑made men/women”: uomini e donne in carriera. E spesso dimentichiamo anche che c’è una particolare forma di depressione (peraltro piuttosto diffusa!), che coglie proprio queste persone: si chiama “depressione da successo”.

Quando uno è arrivato al top e si accorge che quella a cui aveva mirato con tutte le proprie forze, non era poi l’elixir della felicità e della serenità, si chiede inesorabilmente: “Tutto qui?”.

E si rende conto che, al Moloch del successo, ha immolato impunemente relazioni, affetti, amicizie, famiglia  e tante, troppe altre opportunità di vita.

Ci sono delle possibili vie per salvarci da questa “escalation” del bricolage nelle scelte di vita.

Innanzitutto nel riscoprire l’importanza dell’aiuto degli altri: sono relazioni, amicizie, mediazioni che ci aiutano a non perdere il senso vero della realtà. In ultima analisi significa ricordarci che … “sono io il vaso da plasmare, con pazienza” (Geremia 18).

D. Beati coloro che, nella vita, cercheranno il Tutto

C’è una domanda radicale che ognuno di noi deve porre a se stesso: «Che cosa c’è di veramente importante per me, per la mia vita, adesso? Quali sono le prigionie e le gabbie dalle quali non riesco ad uscire? Quali doni particolari mi sono stati fatti per poterli usare come modo per vivere meglio la mia vita e la mia ricerca di felicità, meglio, di Beatitudine interiore?».

La ricerca del tutto,ci dice il salmo 62, è la sete del Dio vivente. La ricerca del tutto significa vedere con occhi diversi le cose semplici del quotidiano.

È ascoltare quella voce che ti dice, con dolcezza: “Vieni e seguimi!”. La ricerca del tutto è credere che il Signore ti ha amato per primo, e mai viene preceduto in amore.

Nel recente discorso rivolto ai membri consultori nella Assemblea plenaria della Congregazione del Clero (3 ottobre 2014), Papa Francesco così si esprime:

“Riprendendo l’ immagine del Vangelo di Matteo, mi piace paragonare la vocazione al ministero ordinato al tesoro nascosto in un campo (13, 44).”

E continua:  “Le Vocazioni sono un diamante grezzo, da lavorare con cura, con rispetto della coscienza delle persone e con pazienza, perché brillino in mezzo al popolo di Dio. La formazione, perciò, non è un atto unilaterale, con il quale qualcuno trasmette nozioni, teologiche o spirituali. Gesù non ha detto a quanti chiamava: «vieni, ti spiego», «seguimi, ti istruisco»: no!

La formazione offerta da Cristo ai suoi discepoli è invece avvenuta tramite un «vieni e seguimi», «fai come faccio io», e questo è il metodo che anche oggi la Chiesa vuole adottare per i suoi ministri”.

Nel suo primo messaggio per la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni (Le vocazioni, testimonianza della verità, 11 maggio 2014), Papa Francesco ci ha proposto una serie di ‘contenuti’ vocazionali profondi, belli, che toccano le corde fondamentali della relazione chiamata-risposta tra Dio e l’uomo. Sono elementi essenziali per chi lavora nella pastorale delle vocazioni. In questo messaggio, il Papa, ci ricorda che “Noi cristiani non siamo scelti dal Signore per cosine piccole, andate sempre al di là, verso le cose grandi. Giocate la vita per grandi ideali! …chiedo di orientare la pastorale vocazionale in questa direzione, accompagnando i giovani su percorsi di santità che, essendo personali, esigono una vera e propria pedagogia della santità” (Messaggio GMPV, 2014, 4).

Vocazioni e santità, un binomio molto forte, o più ancora due facce di una stessa medaglia.

Parlare di vocazione e santità tocca la vita di ogni persona perché tutti, nella Chiesa, siamo chiamati alla santità.

Nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adorando in spirito e verità Dio Padre, camminano al seguito del Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per mezzo della carità” (LG 41).

La Chiesa attinge alla sua grande tradizione spirituale, proponendo ai fedeli cammini di santità, con un’adeguata direzione spirituale, necessaria al discernimento della chiamata”.

(Educare alla vita buona del vangelo, 23).

“L’accompagnamento personale dei processi di crescita” (EG, 169-173).

A partire da queste indicazioni, l’Ufficio Nazionale per la pastorale delle Vocazioni, ha elaborato una proposta di itinerario per un triennio: lo stupore per una messe abbondante che Dio solo può elargire (2015); la gratitudine per un amore che sempre ci previene (2016); l’adorazione per l’opera da Lui compiuta, che richiede la nostra libera adesione ad agire con Lui e per Lui (2017).

E. Testimoni ed educatori del Vange­lo della Vocazione

Per essere credibili ed entrare in sintonia con la sen­sibilità delle persone e dei giovani,  occorre privilegiare la via dell’ascolto:  dovremmo imparare “perdere più tempo” per ascolta­re i problemi della gente, dei gio­vani in particolare,  che talvolta si ritrovano ac­canto padri assenti e madri an­siose e iperprotettive e non hanno interlocutori adulti affidabili. Nel caos di eventi spes­so segnati da negatività e violen­za, siamo chiamati a proporre la nostra esperienza cristiana, a par­larne e a vivere la gioia dell’in­contro con Gesù.

Nel rileggere la parola chiave del­la testimonianza, emerge la necessità di dare più spazio alle relazioni che all’orga­nizzazione, con una particolare attenzione alla sfida educativa che oggi tutti coinvolge e che sarà la cifra pastorale della chiesa italiana nel prossimo decennio. E’ una relazione in­terpersonale e pastorale, che va curata come priorità assoluta.

Nell’accompagnamento e nella testimonianza vocazionale è essenziale riscopri­re la forza e la grazia del dono della “consola­zione”, rimanendo accanto all’altro per donare un po’ di speranza. Per fare ciò non basta essere testimoni gioiosi: ci vuole un cuore riconci­liato, in pace con se stesso e meno fram­mentato. E non è sempre facile riannodare i mille fili spezzati che a volte ci ri­troviamo tra le mani.

Siamo chiamati ad essere una chiesa di “martiri e di santi nel quotidiano”, capaci di vivere la “martyria della luce” per rendere testimonianza alla luce incontrata nella nostra vita: Gesù. Non dobbiamo limitarci ad essere degli esperti di ombra, ma a vivere come lampade accese che valgono ben più delle maledizioni che salgono dalle tenebre.

Siamo chiamati ad essere “martiri di vita”: Gesù comunica la vita e la dona in abbondanza, perché sia una vita spesa nella pienezza della libertà e della speranza. Ciò richiede di saper costruire anche sopra le nostre fragilità e debolezze, sapendo che in ogni ferità c’è un filone d’oro da scoprire.

Siamo chiamati ad essere i “martiri della gioia e della fatica”. Lo affermava con forza don Lorenzo Milani: ”Tutto è speranza, perché tutto è fatica”. Solo allora il cuore saprà narrare il suo stupore e la sua meraviglia non per un miracolo donato, ma per i mille giorni senza miracoli in cui il Signore, rimanendoci accanto, ci ripete sempre il suo “Non temere, perché io sono con te!”

Concludendo…

La lotta, il pianto, la fatica del vivere talvolta ti irrigidi­scono in tensioni e paure che fanno sembrare la vita perennemente “minacciata”; ma quando queste realtà si legano alla ricerca del Tutto, esse ti trasfigurano.

Ciò che apparentemente sembra bloccare il tuo essere e la tua vita­lità, diviene la vera via d’uscita, non quella secondaria, ma quella principale. Questo avviene perché puoi affidarti e consegnarti, con fiducia, al Signore; il suo amore è in grado di riafferrarti ad ogni istante.

Dobbiamo uscire da una menzogna esistenziale:  il vittimismo e l’autocommiserazione sono una trappola per farci notare, ma non per farci amare.

Il grande scrittore russo F. Dostoevskij aveva intuito profondamente tutto ciò, quando affermava:

“Ama la vita più della sua logica e della ricerca delle certezze;

solo allora ne capirai il senso e vedrai oltre le apparenze,

seminando occhi nuovi sulla terra”.

Buon cammino a voi tutti!

don Nico Dal Molin


[1]  V. Frankl , Alla ricerca di un significato della vita,  Mursia, Milano 1972; pp. 177ss.

[2]  N. Dal Molin, Itinerario all’amore,  Paoline, Cinisello B. 1987; p. 136.

[3] A. Manenti, Vivere gli ideali: fra paura e desiderio,  Dehoniane, Bologna 1988.

 [4] Galimberti U., L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007. A. Manenti, Vivere gli ideali: fra paura e desiderio,  Dehoniane, Bologna 1988.

[5] Lagerkvist P.F., Pellegrino sul mare, Jaka Book, Milano 1985

[6] Bellow S., Il pianeta di Mr. Sammler, O. Mondadori, Milano 2009.

[7] Musil R., L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 2005

[8]cfr. Verso il Blu, op. cit.,  2a ed. 2001; pp.106-107.

[9]Su questo aspetto è interessante l’analisi sulla “condizione sull’uomo nucleare” che propone H.J.M. Nouwen, Il guaritore ferito, Queriniana, Brescia 1982; pp. 9-20.

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