IUXTA CRUCES

Stemma Finis Terrae Mons. Gerardo Antonazzo

iuxta cruces

 

Meditazione per il Venerdì Santo

Sora, 25 marzo 2016

 

Nella liturgia cristiana il legno della Croce è celebrato come vessillo di salvezza, perché “chi dell’albero traeva vittoria, dall’albero venisse sconfitto”(Prefazio Esaltazione della Croce). Il simbolo della croce ha sacralizzato per secoli ogni angolo della terra e ogni manifestazione sociale e privata. Ha abitato spazi pubblici e istituzionali, ha goduto la cittadinanza del rispetto anche da parte dei non credenti. Oggi rischia di essere spazzato via. Resta un segno di contraddizione, un’evidenza disumana non ascrivibile nel catalogo delle logiche ovvie e scontate.

 

Un fastidio da rimuovere?

“La parola della croce è stoltezza per quelli che si perdono” (1Cor 1,18). S. Paolo dopo il fallimento presso l’areopago di Atene, dove aveva predicato la risurrezione di Gesù in un contesto culturale ostile a questa categoria, a Corinto, invece, inizia con la predicazione di “Cristo crocifisso”, pur sapendo molto bene che per gli ebrei è uno scandalo, perché in Dt 21,23 leggono che l’appeso è una maledizione di Dio; e per i Greci e i pagani è una “stupidaggine”, perché la croce ai loro occhi era solo una condanna infamante. Gli ebrei e i greci possono rappresentare il rifiuto e la derisione dell’umanità. All’uomo moderno la croce non serve perché non ha nulla da dire e da dare; resta un segno debole e muto, segno dell’impotenza, un flop irrimediabile, un clamoroso fallimento, un paradosso inaccettabile. Ma quanto più questo segno di sofferenza e di amore viene contestato, scardinato e distrutto, come nelle azioni terroristiche dell’Isis e non solo, molto di più tutto ciò dimostra la sua dirompenza. Non susciterebbe tanto “scalpore” se non fosse qualcosa di importante e di scomodo. Proprio il suo ostinato rifiuto conferma la Croce come prodigio, segno di grande prestigio, preziosità di imponderabile valore.

La convinzione del cristiano resta granitica: Dio ha voluto lasciarsi incontrare e conoscere nell’apparente non-senso della crocifissione di Gesù. Dinanzi alla pretesa dell’uomo di risolvere con le sue sole capacità ogni grave problema, Dio gli si avvicina con la Croce del Figlio. Dio entra nei problemi dell’uomo con la “stoltezza”, la debolezza, l’insignificanza e l’umiliazione della croce del Figlio. Dio entra nella miseria umana con la misericordia della sofferenza e della morte. Sotto un folle segno traspare una scelta divina da sempre accarezzata. La Croce apre l’uomo alla comprensione e alla partecipazione dell’amore divino; ed è proprio questo che lo salva, lo migliora, lo bonifica dalle tossicità della malizia, lo riscatta dal male, lo trasfigura in creatura nuova, lo rende buono e capace di compiere il bene. Oggi la Chiesa presenta la figura derisoria di un vinto, di uno sconfitto, per rispondere con la Croce alle grandi questioni dell’uomo.

Sotto la croce del Figlio

Maria è modello della fede nel suo figlio Crocifisso. Sosta sotto il segno drammatico della Croce: “Iuxta crucem lacrimosa”. Maria sa stare di fronte all’apparente fallimento del Figlio, abbraccia la debolezza della carne crocifissa. Accompagna con le sue lacrime il “Tutto è compiuto”, senza mai cedere alla tentazione che tutto sia finito. E quando Gesù viene deposto dalla Croce, Maria abbraccia l’Uomo del dolore, piange la sua sofferenza mortale, lo stringe al seno con tenerezza dolente ma non disperata. Dinanzi alle tenebre dell’odio e della bieca violenza, Maria di Nazareth non si perde d’animo. Se il centurione romano, pagano, nel vedere morire Gesù confessa: “Veramente costui era Figlio di Dio” (Mt 27,54), quanto più la Madre ha riconosciuto in quella sofferenza, alla quale pure lei partecipa intensamente, la rivelazione dell’Amore più grande! Nel momento in cui sente la sua impotenza dinanzi all’accadimento della Croce, Maria dimostra la sua familiarità con le ragioni “impossibili” di Dio. Lo aveva già sperimentato a Nazareth, e sul Calvario non poteva essere diversamente. Non muore la fiducia di Maria con la morte del Figlio, né seppellisce, con Lui, anche le sue speranze. Resta in attesa della nuova luce che irromperà proprio da quel luogo di sofferenza, di morte e di silenzio eloquente.

 

Ai piedi dei crocifissi

La spiritualità della passione fa riferimento spesso alla sequenza dello “Stabat Mater” del XIII secolo attribuita a Jacopone da Todi. Volentieri meditiamo la sosta di Maria sotto la croce del Figlio con il canto struggente della nostra città di Sora rivolto all’Addolorata. Mi chiedo: è davvero credibile che Maria abbia evitato di fermarsi sotto le croci degli altri due crocifissi? E amo pensare come con i suoi occhi materni avrà fissato anche il corpo sofferente degli altri due crocifissi. E si sarà fermata, e avrà pianto, e avrà pregato perchè la morte non li ingoiasse nella maledizione della rabbia. La supplica di uno dei due ladroni (“Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno”) non sarà stato forse il frutto dello sguardo amorevole di Maria? Gli occhi della Madre avranno convinto almeno uno dei due a volgere lo sguardo su Gesù morente e a chiedergli di salvarlo. Immaginare Maria anche ai piedi dei due ladroni ci fa bene, e fa bene a quanti spesso si sentono esclusi dagli affetti spirituali della madre Chiesa, “scomunicati” da particolarismi meschini e sterili, etichettati come “peccatori” imperdonabili, condannati dai giudizi implacabili dei benpensanti del sacro. I due crocifissi accanto alla croce del Figlio sono periferie umane a portata di mano: Maria non può averle evitate, le ha visitate con la premura di chi sa piangere davanti alle miserie degli sconosciuti, dei forestieri, degli stranieri, dei disprezzati, dei meritevoli di condanna, e non solo dinanzi a quelle “interessate” dai propri affetti parentali. La Madre di Gesù “stabat iuxta cruces lacrimosa”: ci insegna a volgere lo sguardo a tutti i “crocifissi” di sempre. Stare sotto la Croce, con Maria, significa servire la debolezza e la povertà di chi non conta nulla, di chi non ha e non può dare, può soltanto chiedere, forse anche pretendere. Dobbiamo imparare a dare dignità alla croce di quanti non hanno voce, e sono spenti nella loro speranza: i poveri, i disabili, gli ammalati, i vecchi, gli sfruttati, i malati psichici, i bambini, le donne violentate e sfruttate, gli immigrati e i rifugiati. Stare sotto la croce con Maria addolorata significa abbracciare e servire la carne debole e ferita di coloro che sono sfigurati dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla fame, dalla paura, dalla calunnia, dalla maldicenza, dai soprusi, da abusi e prevaricazioni, da ogni sorta di ingiustizia quotidiana.

Dal momento in cui la salvezza di Cristo è scaturita dalla debolezza della croce, la redenzione del mondo non verrà dalla firma di ipocriti trattati e dagli accordi interessati tra potenti che mentre firmano per la pace hanno già armato la guerra. A noi, figli del benessere, verrà la salvezza dai poveri e dagli emarginati, dai reietti della società, verso i quali è sempre attuale la parola del Vangelo: “Avevo fame… avevo sete… ero forestiero… ero nudo… ero malato…”(Mt 25) e avete fatto qualcosa nel mio nome. I poveri crocifissi salveranno il mondo perché ci convertiranno all’amore vero che ci libera dal veleno dell’egoismo e dal soffocamento del materialismo edonistico.

 

+ Gerardo Antonazzo

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