Commento alla Liturgia di domenica (24-11-2013)
Sorrido ogni volta. Ogni anno. E mi piace sempre di più questo cristianesimo zoppicante ma felice. Un popolo errante, spesso incoerente, spesso entusiasta, che da duemila anni annuncia e attende. E ogni anno, alla fine del tempo liturgico, prima di iniziare il percorso di avvento, celebra questa non festa, la Solennità di Gesù Cristo re dell’Universo, come pomposamente recita il Messale. Le istituzioni degli uomini vacillano, le ansie di cui domenica scorsa stringono il cuore di tutti, credenti o meno, non ci dispiacerebbe un bel finale della storia con l’arrivo dei nostri, come nei film western degli anni Sessanta.
Cristo re. Ma dove? Capiamoci bene allora, nessuna nostalgia monarchica, non scherziamo.
La regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio. Perché questo Dio è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato. Ecco: questo è il nostro Dio, un Dio sconfitto. Non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso. Una sconfitta che, per Lui, è un evidente gesto d’amore. Un Dio che manifesta la sua grandezza nell’amore e nel perdono. È evidente, provocatoriamente evidente. Che re, sbilenco, amici. Un re che indica un altro modo di vivere, che contraddice il nostro salvare noi stessi per salvare gli altri o meglio per lasciarci salvare da Lui. Siamo onesti, amici: lo vogliamo davvero un Dio così? Ci tocca proprio di convertirci.