La Rivelazione e l’Atto di Proclamazione del Testo Biblico

1. La forza rituale per custodire la natura di annuncio della comunicazione della parola

Introduzione
L’annuncio della parola, nelle sue varie forme (primo annuncio, predicazione omiletica, catechesi) costituisce una delle attività costitutive della vita della Chiesa, fa parte della sua natura e della sua missione.
Nell’esercizio di questa sua missione la Chiesa sta facendo l’esperienza di una ‘debolezza’. La situazione non è favorevole. Le difficoltà sono note e vanno tenute in considerazione. Occorre però fare attenzione: non devono essere affrontante in modo recriminatorio e lamentoso, ma propositivo. Gli atteggiamenti difensivi e colpevolizzanti risultano per lo più dannosi e sono sempre inutili. Le difficoltà sono piuttosto da interpretare come un ammonimento, quasi uno scossone.

Ma la fatica che tutti sperimentiamo nel servizio alla Parola, non deriva solo dal contesto sfavorevole, appartiene alla natura stessa dell’atto della predicazione. Su questo aspetto fermiamo inizialmente la nostra attenzione.

1.1 Tensioni frequenti nell’annuncio della Parola
D. BONHOEFFER, in quel piccolo gioiello che è il corso di omiletica tenuto ai futuri pastori nel seminario di Finkenwalden, sentiva l’esigenza di affermare: “La parola della predicazione ha la sua origine nell’incarnazione di Gesù Cristo. Essa non deriva né da una verità riconosciuta una volta per tutte, né da un’esperienza vissuta; non è la riproduzione di un particolare stato d’animo. non è neppure la forma di un contenuto che sta alle sue spalle…. non è l’espressione linguistica per qualcos’altro che sta sullo sfondo, ma è Cristo stesso che è in cammino come parola verso-attraverso la sua comunità”(Cfr. La parola predicata, Claudiana p. 19)

Di fronte a queste difficoltà che appartengono alla natura dell’atto della predicazione, è facile percorrere alcune scorciatoie e rifugiarsi al riparo di alcune nicchie Richiamo solo alcuni difetti più ricorrenti:
– il moralismo, quello vetero che insiste sull’analisi delle azioni in base alla loro gravità peccaminosa e il «eo-moralismo, che fa consistere la novità cristiana a decisione-impegno e riduce Gesù ad exemplum da applicare alla vita quasi che la sua specificità non fosse il dono della vita;
– un teologismo astratto, sostenuto unicamente da una preoccupazione dall’analisi storico- critica del testo o dalla riduzione catechetico-esplicativa, ma anche il suo contrario che riduce la predicazione a un discorso intorno alle cose che tutti sanno con connessa applicazione del messaggio alla vita che finisce per ridursi ad un piatto umanitarismo;
– la ricerca di essere attuali. Una delle preoccupazioni che maggiormente assilla il predicatore è quella di far percepire l’attualità della parola proclamata. Per riuscire nell’intento si percorre generalmente la via breve dell’attualizzazione della parola, facendo riferimento a fatti dell’attualità e fornendo esempi di applicazioni della Scrittura alla vita. Questa modalità raggiunge lo scopo in modo solo apparente e molto fragile, in quanto, non confidando nella forza della Parola stessa, rischia di renderla insignificante. Attribuisce infatti maggiore forza persuasiva ad espedienti che portano l’attenzione su ciò che non è veramente essenziale, invece di lasciar intendere che solo la Parola è degna di fede, sapiente e potente e perciò affidabile.

E’ sufficiente ricordare quanto afferma RATZINGER in Dogma e predicazione,: “Dio è divenuto uomo, abbiamo una irruzione la cui drammaticità non può essere da nulla superata: qui Dio ha operato insuperabilmente. L’essere-Dio di Gesù è il suo atto, il solo che costituisce il fondamento dell’attualità della predicazione; finché essa si basa su questo atto, conserva un interesse obiettivo: Se lo abbandona, diventa insignificante, anche se si è resa soggettivamente interessante”(p.40). L’esigenza vera di attualità è che la parola dell’omelia si riferisca a quell’atto che è la fede. Mentre l’insegnamento mira al sapere, la predicazione mira alla confessione della fede.

E’ una esperienza costante che già S. AGOSTINO confessava quando nel De cathechizandis rudibus, descriveva così la sua esperienza:
“Anch’io, vedi, sono quasi sempre malcontento dei miei discorsi . Ho tutta l’anima a quel meglio di cui godo nell’intimo prima di cominciare ad esporlo in parole sonanti, mi rattristo della mia lingua che non è bastata al mio cuore: Tutto quello che intendo vorrei che intendesse chi mi ascolta, ma per le mie parole ciò non succede… ” .

1.2 Necessità e possibilità dell’annuncio della Parola.
“Annunciare il Vangelo…è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo, “(lCor9,16). Si tratta di uno dei ‘punti infiammati’ dell’esistenza e della missione di Paolo, tanto che nel suo epistolario vi ritorna continuamente. Ma deve costituire necessariamente ‘il punto infiammato- la passione’ della chiesa del nostro tempo. Quali le motivazioni dell’apostolo e della coscienza credente?

Come crederanno in Colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno se non sono stati inviati? La fede nasce dall’ascolto (Rom 10, 14b-15; 17).
L’annuncio della Parola, una Voce, sta all’inizio dell’esperienza del credere, della vita da discepoli, del tempo della Chiesa. Siamo stati generati come credenti da una Parola che ci ha raggiunto, da una Voce che è giunta a noi da altri e da altrove.

Siamo nati come Chiesa da una “parola trascendente”, parola che sta prima e al di fuori di noi, che ci raggiunge dall’esterno, dall’alto. Parola appartenente e proveniente da Dio.

Parola rivelatrice del suo volto, del suo essere, ma sempre parola-rivolta, destinata all’uomo. Parola-rivelazione di una persona rivolta a persone concrete; parola-Avvenimento quando la persona a cui è destinata vi si espone.
La prima ‘parola trascendente’ è la chiamata di Abramo. Quando Abramo ascolta il suo nome pronunciato dall’alto e, sentendolo, si riconosce dinanzi a Dio, qualcosa di nuovo e di unico si risveglia in lui. Rispondendo ‘eccomi’, espone se stesso a quella voce che lo nomina e accetta di lasciar condurre la sua storia da quella stessa voce che lo raggiungerà sempre di nuovo e in modo nuovo. E così diventa ‘nostro padre nella fede’. Così è stato per Mosè, per Geremia, Ezechiele.

Similmente la Chiesa comincia a vivere e ad aver coscienza di sé a partire e in forza della parola ‘trascendente’ che la convoca. Questa parola trascendente, pronunciata dal Padre e divenuta umana, è Cristo. Grazie a Cristo e alla sua Parola-risorta con Lui è ancora possibile esporsi all’appello; quando questo accade si risveglia la coscienza di essere riconosciuti e preziosi per Qualcuno, di essere destinatari di una fiducia immeritata. Si risveglia la riconoscenza e nascono legami: ci si sente popolo di Dio, Chiesa. La Chiesa nasce e rinasce grazie a questa parola trascendente che, risorta con Cristo e carica della forza dello Spirito, chiama sempre di nuovo, attualizzando per ogni generazione la chiamata originaria.

Ciò significa che l’annuncio della parola prima di essere e per poter essere una attività della Chiesa è una ‘passività’ costitutiva. Solo a condizione di mantenere viva questa precedenza il nostro annuncio sarà l’annuncio della Parola di Dio e non di una parola nostra.

Dalla Scrittura sappiamo che la Parola segna in modo indelebile il corpo di chi si lascia afferrare da essa, al punto tale che un essere umano con i suoi gesti e la sua persona diventa luogo di manifestazione della voce divina nella storia, attestazione di un incontro avvenuto, testimonianza luminosa della presenza del Mistero. È ciò che avvenne a Geremia, il cui corpo, fragile e debole come quello di tutti, viene reso una “città fortificata, colonna di ferro, muro di bronzo” (Ger 1,18) a motivo dell’accoglienza dell’appello a lui rivolto: un corpo trasformato e reso strumento di rivelazione dell’azione di Dio nel suo tempo. Geremia non è reso invulnerabile, ma nella sua fragilità, la Parola ha posto in lui il segno della sua forza, invadendone l’esistenza così da farla diventare manifestazione di una potenza che si manifesta nella debolezza (cfr. 2Cor 12,9). La parola di cui il profeta si è nutrito (Gerì5,16) diventa costitutiva della sua stessa esistenza, annidata come fuoco ardente e incontenibile nelle sue ossa e nel suo cuore (Ger 20,9).

O come avvenne, ancora più radicalmente, in Maria. L’accoglienza della Parola dilata il suo grembo che, per grazia, è reso capace di concepire l’inconcepibile, di contenere l’incontenibile; attraverso di lei il Verbo si fa carne ed entra per sempre nella storia.

Paolo conosce la difficoltà dell’interpretazione della provenienza della sua predicazione e la vive drammaticamente sulla sua pelle, per questo, a più riprese, ricorda ai destinatari del suo annuncio: ” Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato (predicato) non segue un modello umano, infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11); Ancora: “In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta” (2Cor 5,20). E più convinto e stupito:”Rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la Parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire (nella predicazione), l’avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come Parola di Dio, che opera voi credenti (che credete)” (1Tess 2,13).

La radice dalla quale è scaturita questa forte e originalissima consapevolezza è l’esperienza dell’incontro con Cristo sulla via di Damasco. Paolo ricorda spesso questa esperienza e sempre , come nella lettera ai Galati, ne mette in luce, con la stessa sorpresa e lo stesso fascino, l’aspetto sconvolgente: la gratuità dell’iniziativa di Dio! “Quando colui che mi scelse fin dal grembo di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunciassi in mezzo ai pagani…” (Gal 1, 13-17). Dall’esperienza di Damasco, Paolo ricava il solo annuncio necessario, il solo Vangelo da proclamare, la sola buona notizia da portare a tutti: la grazia. Questa è la notizia che precede ogni altra e dà significato a tutto il resto: noi siamo salvati dall’amore di Dio che si è rivelato sulla croce, non siamo salvati dalle nostre prestazioni, dalle nostre appartenenze culturali o religiose, dalle nostre opere o conquiste morali, ma da un gesto di grazia. D’ora in poi tutti possono accedere a Dio, non ci sono più ostacoli umani.

E’ questo il ” mistero, che avvolto nel silenzio/nascosto/taciuto per secoli, ora è rivelato e deve essere annunciato.. .a tutte le nazioni, perché giungano all’obbedienza della fede”(Rom 16,25-27). Il mistero è un evento da svelare, non da nascondere, perchè è la bella notizia accaduta in Gesù: i muri di separazione sono abbattuti, non ci sono più vicini e lontani, degni e indegni. L’amore di Dio è gratuito, è rivolto e destinato a tutti, in nessun modo condizionato dalle opere degli uomini. Questo è il Vangelo perché è ‘Vangelo!

“Per dire che Dio ha svelato il suo mistero, Paolo ricorre a tre termini: rivelazione, manifestazione, annuncio: I primi due appartengono interamente a Dio, è lui che si rivela e si manifesta; il terzo, invece, al missionario” (MAGGIONI, il Dio di Paolo, 232). La Parola che ha svelato il mistero, il cui centro è Cristo in noi, è risuonata in un luogo e in un tempo, ma la sua destinazione è a tutti i luoghi e a tutti i tempi: L’annuncio è necessario per permettere alla manifestazione del mistero di percorrere per intero la sua corsa. Senza l’annuncio, il mistero ritornerebbe nel suo silenzio.

Questa convinzione, insieme alla consapevolezza della potenza del Vangelo, fanno di Paolo un instancabile annunciatore della Parola, che non si ferma davanti a nessun ostacolo né davanti alla fatica o al rifiuto o alla derisione.

“Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo, prima, come del greco. In esso, infatti, si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede,come sta scrìtto: Il giusto per fede vivrà “(Roml,16-l 7) “

“Non ho vergogna del Vangelo “. Questa dichiarazione paolina, benché formulata come una negazione, implica di fatto una affermazione di forte intensità. L’Apostolo impiega una figura retorica che si chiama litote, ed è usata per affermare l’esatto contrario. Paolo dunque vuol dire che trova nel Vangelo non solo il proprio dovere ma anche la propria ragion d’essere, persino il proprio orgoglio. E sappiamo che negli anni 50 del I secolo, quando Paolo scrive la lettera, l’evanghélion non è ancora uno scritto, ma essenzialmente un evento di comunicazione orale che annuncia la manifestazione dell’amore di Dio in Gesù Cristo a tutti gli uomini (la parola infatti significa «buon annuncio, notizia che fa piacere sentire perché è a mio favore»). Proprio questo è il vanto di Paolo: proclamare che Dio, in Gesù Cristo, è totalmente e gratuitamente dalla nostra parte (cfr. Rom 8,31).

“Il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede: tanto per il Giudeo, prima, quanto per il Greco “. Per ciò cui è destinato, cioè la salvezza ultima dei suoi destinatari, il Vangelo non può non recare il timbro di una potenza intrinsecamente divina. Dunque si tratta di un superiore intervento imprevisto e imprevedibile che si colloca a livello di pura grazia. Questo spiega perché, come scrisse Karl Barth, «l’evangelo è soltanto credibile». Propriamente, infatti, esso non è, e non può essere, né il risultato di un ragionamento né tantomeno l’effetto di un’imposizione. La sua logica propria sta al di là di ogni sistema razionale: come l’amore! Ebbene, questo Vangelo è destinato a chiunque, scavalcando ogni contrapposizione.

Anche quando facciamo l’esperienza che le nostre parole sono inadeguate o non risultano persuasive, a motivo dei nostri difetti e fatiche, l’importante è che non soffochiamo quel fuoco divorante, acceso dal mandato battesimale che quasi ci impone di predicare e che ci impedisce di tacere. Se si spegne questa fiamma, si cade nell’aridità del cuore.

2. LA RISORSA DELL’ANNO LITURGICO PER L’ANNUNCIO DELLA PAROLA

2.1 PAROLA DELLA CHIESA, PAROLA DI DIO?
La domanda, a questo punto, è la seguente: quando la parola è pronunciata e trasmessa dal profeta, dal testimone, dall ‘apostolo, dal predicatore, dal missionario come poter essere certi che si tratta ancora della parola trascendente, della parola proveniente da Dio? A quali condizioni le parole pronunciate dalla Chiesa (attività) sono parole corrispondenti alla Parola originaria (passività)? Come nella necessaria e urgente attività dell’annuncio della Parola, la Chiesa riesce a custodirne la natura ‘trascendente’? Il rischio è di cadere nell’immagine di una Chiesa soltanto della parola, o peggio, del commento: e mai come in questo tempo la chiesa corre il rischio del verbalismo.

Torniamo al titolo e quindi alla tesi di questa riflessione. Come bisogna intendere la seconda parte del titolo: ‘nel tempo della chiesa?’ . Credo che, a partire dal tema generale della nostra settimana, risulti chiaro che debba essere inteso così : nel ritmo dell’Anno liturgico!

La tesi pertanto è la seguente: la Parola proclamata e annunciata nel ritmo dell’AL permette di evitare che l’annuncio prenda la forma del discorso sul libro, promuove e custodisce invece quella forma del discorso che punta sulla persona di Dio che in Gesù rivela il suo Mistero, discorso che si propone di rendere manifesta la sua evidente referenza-destinazione alla persona di tutti, a suscitare in tutti la fede di tutti.

Le ragioni sono principalmente tre:
-L’anno liturgico offre un contesto all’annuncio della Parola. Un triplice contesto: in primo luogo il contesto festivo, poi il legame con le feste del Signore, cioè con l’intera vicenda di Gesù e soprattutto con il mistero pasquale, centro di tale storia, infine il riferimento all’esperienza delle persone del nostro tempo;
-L’anno liturgico offre un criterio e un ordine per l’uso del testo biblico. L’annuncio della Parola nel ritmo dell’anno liturgico è infatti ordinato dal Lezionario che seguendo il criterio dell ‘armonico sviluppo permette di fare riferimento alla risorsa del racconto per annunciare il Mistero;
-L’anno liturgico offre una forma all’annuncio della Parola: la forma rituale. E’ questa a custodire la natura ‘trascendente della Parola’ e la sua unica destinazione alla fede; è la forma rituale che garantisce la ‘sacramentalità dell’annuncio’ la sua destinazione unica (consacrazione) a far brillare l’affascinate efficacia della grazia e a fare spazio soltanto ad essa creando un contesto ‘ispirato’.

Tre ragioni per dire la necessità per la predicazione del legame obbediente con la Chiesa, là dove essa è se stessa in modo eminente, l’esperienza liturgica. Nessuno ha tutto nelle sue mani, solola Chiesa lo ha, ma unicamente quando è se stessa in massimo grado, cioè nel sacramento, perché è nella celebrazione che essa attesta visibilmente e concretamente che il suo essere consiste del tutto nel riceversi da Dio. In tal modo la Chiesa è abitata dalla pienezza del dono e, nella misura in cui qualcuno entra in essa, tale pienezza appartiene anche a lui.

Per questo la predicazione si può definire un atto normato, cioè sottoposto alla parola proclamata e all’evento celebrato, e nello stesso tempo atto legato, cioè sintonizzato con i gesti compiuti nel rito stesso. Il rito fa stare con obbedienza grata e con umile invocazione davanti all’Evento del donarsi di Dio così che esso possa agire in noi.
Quando la predicazione si lega e si lascia plasmare dal rito diviene azione seconda, parola che si lascia condurre dal dono. Quando la parola dell’uomo è parola che obbedisce a ciò che la precede e la pone in atto, si lascia cioè normare dall’evento, diviene realmente se stessa: sottratta al rischio dell’arbitrio soggettivo, in essa tutto viene ricondotto al suo referente originario, all’evento cristologia). Così concepita la predicazione, anche quando indugia sul testo scritto non si ferma ad esso, ma piuttosto invita e conduce a prendere contatto con la persona stessa di Dio che parla.

Mi soffermo a illustrare alcuni aspetti delle risorse che il ritmo dell’anno liturgico offre all’annuncio della parola.

2.2 IL Lezionario come risorsa per 1′ annuncio
L’annuncio della parola nel ritmo dell’anno liturgico è un annuncio ordinato dal sezionar io (OLM). Il Lezionario è un testo per l’azione
– dispone i testi biblici in pericopi, li fissa per i vari tempie feste e li distribuisce secondo un
ordine
– non sopporta una semplice lettura ma esige la proclamazione,
– circonda la proclamazione delle pericopi con atti singolari che sono atti di fede:
acclamazioni,invocazioni, silenzio, venerazione.
Quali le conseguenze che riguardano il servizio dell’annuncio? a primo luogo il Lezionario, ‘configurando’ il testo biblico in modo diverso da quello che teniamo elle nostre librerie, lo trasforma in ‘parola sonora’, cioè ne custodisce la sua natura e destinazione originaria che è quella appunto di essere ‘annuncio ‘ di fede.
Proprio perché le pericopi sono predisposte e ordinate, l’annuncio sarà un ‘annuncio obbediente ‘: non il risultato del puro sapere storiografico o di personali e soggettive riflessioni e tantomeno esplicitazione di arbitrarie opinioni.

Infine, l’annuncio non farà appello alla mente, alla comprensione del testo e del discorso, ma insisterà in un appello alla fede, sarà un ‘annuncio confessante ‘. Il lezionario realizza un contesto che permette all’annunciatore di comunicare la Parola non da studioso esigente ma da credente- orante e agli uditori di risalire ‘alla persona di Dio che parla”. In altre parole, la forma del dizionario fa in modo che annunciatore e uditore si rapportino alla Scrittura non per assimilarne temi concetti, esempi ed esortazioni, ma perché accada l’evento della relazione con la persona del Risorto, perché accada la fede.

Annunciare la Parola vuol dire rendere possibile un rapporto con la persona di Dio che parla, e non, innanzitutto, con i contenuti della Parola. Prima che sapienza, nell’annuncio la Parola di Dio è potenza, dinamismo, energia, presenza, relazione.

L’ordine singolare delle letture: criterio dell’armonico sviluppo e senso di una diversa gerarchizzazione.
I Libri del canone scritturistico sono distribuiti secondo un criterio che fa emergere armonico sviluppo del Mistero della Salvezza: Antico Testamento, tempo della promessa; Vangelo Gesù, centro e compimento del tempo della storia della salvezza; Atti, Lettere e Apocalisse, ipo della Chiesa come continuazione della storia della salvezza. Il senso della storia della ‘ezza è quello di far emergere, tra i vari eventi storici, la dimensione salvifica, cioè il fatto che è l’unico soggetto che sta all’origine di questi eventi.

II Lezionario senza negare il criterio tipico della Scrittura, inserisce una significativa novità, letture sono collocate in un ordine diverso rispetto a quello tipico dell’ordine della storia della ezza che dovrebbe condurre a disporre le letture nella sequenza: Antico Testamento, Vangelo, i sto lo. L’ordine delle letture nella celebrazione invece è: Antico Testamento, Apostolo, Vangelo.

C’è un cambiamento radicale. La priorità indiscussa è data al Vangelo, posto al vertice della distribuzione dei testi biblici. “La lettura del Vangelo costituisce il culmine della stessa liturgia della Parola”.

Perché? La struttura celebrativa destruttura la sequenza scritturistica per farne vivere la verità. Il contenuto che la Scrittura afferma è la centralità di Cristo che la forma celebrativa del Lezionario concretizza. Questa è una caratteristica tipica dell’azione liturgica: interrompere l’ordinario per rendere possibile la partecipazione a quello straordinario che è la novità dell’evento cristologico.

Da questa singolare gerarchizzazione rituale rispetto all’armonico sviluppo storico salvifico tipico del teso biblico derivano alcune conseguenze:
– Il Vangelo dà alla celebrazione il vero contenuto – noi celebriamo Cristo risorto -, un contenuto che non può stare senza racconto, acclamazione e proclamazione. La celebrazione dà al Vangelo attualità: oggi il Signore risorto parla al Suo popolo. Il Vangelo è il testo da cui partire ed a cui arrivare per cogliere non il tema, ma l’apice, il cuore della celebrazione: dal Vangelo si parte per cogliere i legami.
Sostiamo brevemente a sottolineare l’importanza del ‘Racconto’. L’annuncio della parola nel ritmo dell’anno liturgico si concentra sul Kerygma, ma esige il racconto, per questo ricorre alle sue risorse. Qualcuno potrebbe pensare che tale forma è troppo ingenua rispetto alla ricerca erudita sul testo, ricerca che consiste nel sapere storiografico ma che si risolve in sterili frammentazioni del testo. No! Il racconto permette di restituire consistenza all’intera vicenda di Gesù per l’uomo contemporaneo. Nel racconto infatti il passato di Gesù viene ripreso nei suoi legami con la vicenda intera, nel suo intreccio complessivo: si tratta sempre di un racconto totale anche se narra di singoli gesti e parole. E questo per disporre le condizioni perché possa essere riconosciuta la sua presenza attuale e perciò possa essere proposta a ciascuno la necessità di prendere una decisione a suo riguardo: credere in Lui o no. Il racconto è sempre appassionato, non è mai sine ira et studio, è sempre mosso dall’interesse. Anche se formalmente distinto dall’annuncio, è quella forma che lo rende possibile come discorso confessante. La predicazione che fa ricorso alla risorsa della forma del racconto, risulta un rinnovato annuncio, cioè una rinnovata notizia di Lui
– La prima lettura ha il senso di dire che ogni momento della vicenda della storia è assunto da Gesù Cristo e ogni frammento della storia – anche quello che appare più lontano – è destinato a camminare verso questo compimento, ma soprattutto sta a significare la destinazione dell’evento di Cristo alle nostre piccole e fragili storie.
– La lettura dell’Apostolo a sua volta attesta che la rivelazione non avviene senza relazione. Il destinatario è implicato e rivendicato dalla rivelazione stessa. Noi oggi non potremmo essere in contatto con la Parola di Dio se non ci fossero state delle figure storiche che si sono lasciate afferrare dall’evento in modo radicale. Se la risurrezione non fosse attestata dai discepoli di Cristo, non ci interesseremmo molto alla vita e alla morte di quest’uomo Gesù; c’importerebbe solo il suo insegnamento, con il rischio che quando l’idea diviene nostra attraverso la comprensione, finisca anche l’interesse per la persona. Se, invece, si stabilisce una relazione da vivente a vivente, essa è inesauribile. La risurrezione attestata dal testimone mi dice che nulla vive al di fuori della relazione con la persona del Signore e che la fede è una relazione con una persona. Non ci sarebbe fede senza l’Apostolo. L’Apostolo attesta che la rivelazione non può stare senza la persona, senza il destinatario, senza il soggetto. Quindi suggerisce che anche noi siamo implicati nella rivelazione.

3.2 La forma rituale: per custodire la natura di annuncio della comunicazione della parola
La proclamazione. La proclamazione non è semplice lettura di un testo in ordine alla sua comprensione, ma è annuncio di una presenza incisiva. Nella proclamazione si mette in evidenza che Dio non ci sta dicendo le condizioni per accedere alla salvezza, ma annuncia le condizioni poste in atto dalla Sua opera salvifica. (“Tu sei amato da Gesù Cristo che dà la vita per te”). La proclamazione è una forma kerigmatica di donare la Scrittura, attesta che la Parola fa sempre riferimento ad un avvenimento, ne mette in rilievo la qualità di dono e rivela la sua forza. Colloca l’evento al suo posto, cioè all’inizio, e in tal modo rivela sua natura fontale.

La proclamazione è un modo indispensabile di stare davanti alla Scrittura. Diceva Guardini in un suo saggio del 1939 sulla Messa: “consideriamo la liturgia della Parola; coloro che sono più seri, cioè desiderano prendervi parte in massimo grado, vogliono leggere i testi con l’intento di capirne tutto il significato; ma, aggiunge Guardini, è questo il modo per aver parte all’azione? Evidentemente no: qui si darebbe più un club di lettori che un’assemblea di celebranti e partecipanti. Qualcosa, quando succede questo – dice Guardini – “è stato infranto”.

La Parola di Dio chiede di essere proclamata, non letta: sarebbe, altrimenti, ancora annuncio? Questo travisamento è imputabile all’educazione libresca, ad una forma di neoilluminismo. Ma così muore la poesia e la Parola perde la sua forza e bellezza. La proclamazione, infatti, mette in luce la forza (dynamis) e la bellezza della Parola stessa, perché la proclamazione (parola parlata in forma sonora) tiene uniti parola parlata e soggetto che parla, parola e persona, non fa dimenticare la persona.

La sonorità, poi, esercita un influsso sui cinque sensi: piace sentire il timbro di voce prima ancora di capirne il contenuto, prima di astrarre l’universale. Quando è così, la Parola si avvicina e si può incontrare. La Parola di Dio è sempre l’evento di un avvicinamento, è un seme che cerca la terra, una realtà dotata di una forza germinale che ha il potere di creare vita: non un’idea che cerca una mente!

La proclamazione, poi, è il suono di un altro, la voce di un altro, non ancora quella di chi ascolta. E’ Parola che scende dai monti con i passi danzanti di un messaggero di pace. Dice G. Lafont in un suo recente saggio sull’Eucaristia , Parola e gesto: “Ogni rivelazione viene dall’alto: la manifestazione non viene mai dallo stesso livello altrimenti la novità-originalità sarebbe ridotta al già conosciuto. Questo ‘arrivare da’ conserva un carattere di esteriorità e di differenza. Se così non fosse, se non attirasse in qualche modo fuori di me, se non facesse levare lentamente gli occhi e tendere l’orecchio, forse finiremmo con il non sentire altro che l’ombra e le eco di noi stessi”.

L’invocazione e l’acclamazione . Se la proclamazione attesta la precedenza della Parola di Dio sulle nostre parole, mentre veniamo liberati dall’affanno dei contenuti siamo invitati a ricercare la relazione, il contatto con il nome e con il volto di Colui che ci ha rivolto la Parola e a lasciarci dire di nuovo da Lui, dalla Sua Parola… E allora può accadere quella forma di parola che è la preghiera che invoca e che ha il permesso di farsi insistente e ripetitiva. La preghiera di invocazione è una forma di preghiera che sembra non sappia dire niente, ma che sempre cerca Qualcuno e lo cerca per instaurare una relazione di gioiosa reciprocità e di scambio totale. Fino all’acclamazione.

Quando acclamiamo risparmiamo di fare la sintesi del detto, ci poniamo davanti alla verità che arriva dalla rivelazione e l’accogliamo come rivelazione per noi e di noi; rispondiamo con ‘un atto di affidamento. Prima di sapere tutto di Dio, affermiamo la nostra fiducia totale in Lui senza poterci rappresentare tutto di lui. E’ un affidamento che anticipa; è il primo modo di corrispondere, senza troppi presupposti, preparazioni e condizioni, all’irruzione della Parola. E’ fede in atto. Colui che acclama esce da sé, lascia il suo piccolo mondo, si pone in una condizione di passaggio, vive uno spaesamento, si volge verso Colui dal quale proviene la voce, senza pentimenti e rivendicazioni.

L’acclamazione è una voce che non si ascolta, ma che si protende, una voce che non si ripiega, non cerca effetti speciali, ma si slancia. Questo gesto vocale opera la corrispondenza, la partecipazione alla natura di evento della Parola, di Dio che viene nella Parola. Dio spontaneamente, non per necessità, senza trattenere nulla per sè, si avvicina. ‘Avviene’ e come in ogni avvenire sventa qualsiasi speculazione, sovverte le nostre opinioni. Un’interruzione si avvicina. L’acclamazione, a sua volta, è una parola interrotta, sospesa, che si ferma prima di giungere alla fine. E’ questo il modo di corrispondere a quella Parola che interrompe le nostre parole. L’acclamazione sblocca l’uomo dalla chiusura in se stesso, opera trascendenza, “ponit nos extra nos”, ma non nell’indeterminato, infatti ci pone fuori da noi, ma non oltre che “fino a Dio”. Ci allontana da noi, ma ci fa incontrare Colui che è l’origine della nostra vita e ci fa sopportare questa distanza.

Se davanti all’avvenire che è la Parola acclamiamo, accade che ci lasciamo trascinare fuori da noi; e lì Dio è vicino a noi, quando noi ci allontaniamo da noi stessi, perché c’è spazio in questa interruzione per la Sua irruzione. Quindi l’acclamazione è una forma concreta di lasciarci trascinare fino alla presenza di Dio. E’ opera della fede (“actus fidei”). Questo lo si fa con un “sì” totale e cordiale.

3. ATTEGGIAMENTI DEL PREDICATORE
• la gioia
• l’equilibrio dinamico e misericordioso
• il cuore

1.3 La gioia
Prima di essere preoccupati di presentare la completezza delle verità della dottrina, compito che non è poi così difficile, occorre comunicare lietamente(gaudens). ” E l’obbligo di questa letizia è evidente… Che poi questa gioia sia presente al momento buono, è tutta misericordia di Lui che ce lo ordina”(AGOSTINO, op. ci (.,10). La gioia è quindi una necessità. Il compito del predicatore è di ‘docere, flectere, delectare ‘.
Lo stile ‘lieto e ilare’della predicazione è lo stile corrispondente al contenuto, il Vangelo di Gesù. E’ la natura del Vangelo, gioiosa notizia, ad esigere uno stile corrispondente. La gioia è il sentimento della pienezza evangelica.
C’è una lettera abbastanza singolare di Paolo, quella ai FILIPPESI, scritta quando era in catene che, diversamente dalle grandi lettere dottrinali, è dominata da una ‘comunicazione di sentimenti’ intesi come ‘risonanza del Mistero’. In questa lettera si sente battere il cuore dell’Apostolo. L’intento di Paolo sembra quello di indicare lo stile della spiritualità cristiana come un ‘sentire nel Signore, sentire nella fede, fino a ‘sentirsi nel Cristo Gesù ‘ : “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”(2,5). Secondo SCHLIER e R.PENNA, il versetto deve essere inteso: “Abbiate i sentimenti, il sentire che uno ha quando Gesù è determinante”; oppure:”abbiate tra voi i sentimenti che convengono a chi vive in Gesù Cristo”. Ma in che cosa consiste questo sentire, questa sensibilità? Il retto sentire, quello degno del Vangelo perché segnato dalle sue proprietà, il sentire generato dalla appartenenza a Cristo è la gioia. “Rallegrativi nel Signore, ve lo ripeto,rallegratevi”(4,4). Nella lettera ai Filippesi il termine gioia, sia nella forma sostantive che in quella verbale è presente 16 volte, tanto che ne può essere considerato il filo conduttore. La ripetizione è motivata dal fatto che la gioia è la connotazione di ogni servizio al Vangelo. E’ il sentimento della pienezza evangelica.

2.3 L’equilibrio dinamico e misericordioso
Non si tratta di nascondere nulla della verità, né di dimezzarla, ma di comportarsi come Paolo con i Corinti: “Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come uomini spirituali, ma come a esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci.”(lCor.3,l-2). Con la coscienza che il latte, in alcune età della vita e in alcune situazioni, è un nutrimento completo, che contiene tutto ciò che è necessario.

E’ l’atteggiamento del profeta Eliseo dopo la conversione di Naaman il Siro che, da lui guarito, sceglie di adorare solo il Dio di Israele. Ma Naaman è il generale di un signore che va nel tempio ad adorare altre divinità e deve accompagnarlo. Che fare?. Il Profeta risponde: “Và in pace” (Cfr.2Re5, 1-19).
SAN BENEDETTO nella Regola ai monaci a proposito della scelta dell’abate sugerisce: “L’abate deve essere istruito nella legge di Dio e dotato sapienza per poter preferire sempre la misericordia alla giustizia”. Equilibrio, oltre che dinamico cioè attento alla situazione, alla storia del singolo o dell’assemblea, anche misericordioso: san Benedetto addirittura suggerisce che il valore e l’importanza della coscienza dipende dalla sua finalità che consiste nel poter esercitare la misericordia.

Ai Filippesi san Paolo scriveva: “La vostra affabilità sia nota a tutti”(4,5). Possa raggiungere tutti ed essere visibile e riconoscibile. E usa il termine ‘epikeia ‘ che è da intendere come:- attenzione misericordiosa al caso unico, quasi a entrare misericordiosamente nella difficoltà o nella sofferenza del fratello. Per evitare che sotto il calore dello zelo e con il pretesto della legge non si faccia altro che indurire il cuore di chi ascolta. La durezza infatti è sempre n segnale della scontentezza di sé.

3 3.’Cor ad cor loquitur’ (ossia della dimensione emotiva)
L’espressione è di S. Agostino nel commento al Salmo 85 e fu ripresa dal Card. NEWMANN che la scelse come motto episcopale. La parola della predicazione può raggiungere e toccare il cuore, perché a questo è chiamata, solo se parte dal cuore del predicatore. Qui si intende restituire e accordare spazio alla dimensione dell’affectus fidei, della dimensione affettiva del credere cristiano. Si tratta di una comunicazione della fede giocata intorno alle figure del desiderio e del dono. Gioco non esente dal rischio di un troppo soggettivo e perciò arbitrario sentimentalismo, rischio che però non giustifica l’atteggiamento esageratamente iconoclasta del postconcilio nei confronti della devotio. Anche BONHOEFFER che rifiuta con forza ogni artificio retorico, non esclude in alcun modo la dimensione emotiva:
“La veracità e l’oggettività raccomandano forme semplici, escludono i toni eccessivi ed un’eccitazione esagerata. Il che non escute il massimo zelo, anzi lo richiede. Non deve trattarsi di un’oggettività flemmatica, ma assolutamente appassionata., la cosa in questione richiede a buon diritto la nostra passione. Addirittura può qui trovar posto il pathos. Un pathos carico di zelo per i contenuti”(La parola predicata,82).

La predicazione dunque:
– nasce dal cuore: da ciò che a partire dalla Parola mi muove, mi tocca come la prima volta, nasce
dalla passione, dall’entusiasmo che la parola suscita in me;
– deve avere un cuore: un punto che è come il cuore della predicazione, un punto che mi sta a cuore; il cardinal Martini la chiamerebbe una specie di “ira comunicativa” che, di fronte ad una certa situazione, mi fa dire.’Questo è ciò che bisogna dire adesso’. Non solo è bene, è giusto dire questo, ma ‘è necessario!’
-parla al cuore: è diretta a persone vive, al cuore delle persone, ai loro desideri, alle loro sofferenze e inquietudini.

Quando ‘il cuore parla al cuore’, non aumentano le conoscenze, non si sa di più, ma accade qualcosa; accade il miracolo dell’ospitalità: una parola, una presenza ‘altra’-che viene da altrove, da fuori- è accolta nella casa della propria vita come a casa propria, è percepita-sentita come una realtà di casa, che ci appartiene e con la quale volentieri ci si intrattiene e si abita, come con la gente della propria casa. Il cuore si apre e questo cuore a sua volta si fa casa, ospitalità cordiale. Accade una comunicazione-relazione familiare. Come a Filippi nel caso di Lidia, descritto in Atti 16,14-15: “Una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiatira, timorata di Dio, ascoltava. Il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole annunciate da Paolo. Come fu battezzata assieme alla sua famiglia, ci sollecitò, dicendo:’Se giudicate che sia fedele a Dio, entrate e rimanete nella mia casa. E ci costrinse ad accettare”.

Quando il cuore parla al cuore, le relazioni si aprono alla familiarità, nascono legami sacri, si diventa casa per l’Altro. Paolo ne è davvero persuaso:
” La nostra bocca vi ha parlato francamente, Corinzi, e il nostro cuore si è del tutto aperto per voi(spalancato). Non siete davvero allo stretto in noi, è nei vostri cuori che invece siete allo stretto. Io parlo come a figli: rendeteci in contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore” (2Cor.6,11-13) Come a dire: nel mio cuore c’è molto posto, ci sono molti posti -come nella casa del Padre- difatti vi ho spalancato il cuore,non vi ho nascosto nulla, anche voi fate posto a noi nel vostro cuore! (Cfr. anche: 2Cor6,3 e 7,2).

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