Diocesi di Sora-Cassino-Aquino e Pontecorvo
14 febbraio 2017
Il capo VIII di Amoris laetitia: accogliere/accompagnare e Discernere/integrare
Mi è stato chiesto di commentare il capo VIII della Esortazione Apostolica postsinodale Amoris laetitia, che il Papa Francesco ha offerto a tutta la Chiesa il 19 marzo del 2016.
I nostri due incontri si inseriscono all’interno del tema assegnato all’Anno Pastorale 2016-2017, intitolato «Gioia dell’amore, bellezza del matrimonio». Mi risulta che non vi sono mancate occasioni per riflettere sul tema dell’amore coniugale alla luce dei due sinodi sulla famiglia voluti da papa Francesco: so che è stato dedicato a questo tema l’intero quaderno n. 7 della rivista di teologia pastorale “Doctor Angelicus”, che raccoglie gli atti del convegno pastorale diocesano tenutosi ad Aquino dall’8 al 10 giugno dell’anno scorso. Gli atti del convegno sono preceduti da un’ampia introduzione del vostro Vescovo, che fa ampio richiamo ad Amoris laetitia, cui hanno fatto seguito pregevoli riflessioni dei Proff. Gronchi e Rocchetta e dei coniugi Galasso; riflessioni poi impreziosite dalle ulteriori riflessioni scaturite in seno alle assemblee pastorali zonali e contenute nella seconda parte del volume citato. Ho notato che in esse vi siete posti interrogativi ardui e coraggiosi, ai quali avete tentato di dare risposte concrete ed operative.
Le riflessioni che seguiranno partono da questa consapevolezza e perciò vogliono essere un contributo complementare, spero utile e qualificante, alle sfide pastorali che vi attendono nell’immediato futuro.
- La corretta chiave di lettura del testo
Prima di entrare in medias res, desidero introdurre il mio discorso partendo da una questione preliminare alla quale mi pare abbia fatto cenno anche il prof. Gronchi e che ritengo debba essere affrontata, onde evitare spiacevoli fraintendimenti. Faccio riferimento, come avete probabilmente intuito, al disorientamento ingeneratosi a causa delle polemiche scaturite intorno al testo di AL. Tali polemiche si sono sviluppate soprattutto in ambito giornalistico, fuori della Chiesa, ma ultimamente hanno turbato anche il clima ecclesiale, soprattutto in concomitanza con l’iniziativa di alcuni cardinali, i quali hanno ritenuto di inoltrare – ed in seguito anche diffuso sulla stampa – una lettera al Papa, con la quale si sollecita il Pontefice ad offrire chiarimenti su alcuni punti di AL ritenuti dagli scriventi controversi e possibile fonte di dubbio e confusione. Certo, non sono mancati neppure coloro che, senza il supporto di una adeguata lettura e riflessione, che pure il papa vivamente consiglia, si sono imbarcati imprudentemente in iniziative pseudo-pastorali, arrecando così ulteriore pregiudizio al testo ed ingenerando nei fedeli confusione e sconcerto.
E’ chiaro dunque che si pone il problema preliminare della giusta chiave interpretativa da utilizzare per affrontare il testo con la giusta prospettiva. Si tratta indubbiamente di un testo impegnativo, sia per la mole, che per i contenuti.
Onde evitare di dilungarmi troppo, al sottoscritto è parsa equilibrata e condivisibile la chiave di lettura offerta da un gruppo di teologi statunitensi, i quali hanno stilato un documento dal titolo «Interpreting Amoris laetitia within the Catholic Tradition», datato 1 novembre 2016 e diffuso dalla Catholic News Agency[1]. I teologi statunitensi, come si arguisce dal titolo del loro scritto, propongono una interpretazione che si inserisce nel solco della tradizione. Affermano, infatti, che la giusta lettura del testo pontificio debba essere necessariamente quella che colloca il testo all’interno ed in continuità con il previo insegnamento magisteriale, particolarmente quello espresso da S. Giovanni Paolo II nella Esortazione Apostolica Familiaris consortio, del 22 novembre 1981. D’altra parte, è lo stesso Papa Francesco a suggerire questa pista, quando afferma – nel n. 300 di AL – che l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio non è cambiato e non è stata abrogata la disciplina ecclesiale che lo riguarda. Ed in effetti, l’autentico sviluppo dottrinale non è mai la negazione o il rifiuto di ciò che è stato previamente insegnato dal Magistero, bensì un progresso, una espansione, una miglior comprensione di quanto tradizionalmente insegnato. Di conseguenza, deve rifiutarsi come falsa l’interpretazione della discontinuità, che vorrebbe il testo di Francesco come testo di rottura con il magistero precedente. Una operazione dello stesso genere ebbe a soffrire l’insegnamento del concilio Vaticano II, al punto da far dire a papa Benedetto XVI che vi erano stati due concili: quello della stampa e degli opinionisti non coincideva con le proposizioni effettive dei testi del concilio e che anche in questo caso la lettura più corretta sarebbe quella operata nel solco della tradizione, cioè operando una ermeneutica della continuità[2].
“L’ermeneutica della discontinuità – ebbe ad affermare Benedetto XVI – rischia di sfociare in una rottura tra chiesa preconciliare e chiesa postconciliare” e dichiarava un evidente errore quello di contrapporre i testi del concilio ad un evanescente spirito conciliare inteso come slancio verso il nuovo che secondo alcuni sarebbe sotteso ai testi del concilio stesso[3].
Ecco, analogicamente parlando, oggi potrebbe ripetersi per il testo di Amoris laetitia lo stesso errore che fu fatto per i testi del concilio.
- I reali contenuti del testo dell’Esortazione postsinodale
Parlando ad un gruppo di presbiteri e fedeli della diocesi di Viterbo, il 23 marzo 2016, mi posi la domanda iniziale: in cosa differisce la visione della famiglia in Papa Francesco rispetto a quella dei suoi predecessori? Ed immediatamente aggiungevo: La risposta è semplice: in nulla. Con questo non voglio dire che non c’è alcuna novità nel testo di Amoris laetitia, quasi fosse una mera ripetizione e ricapitolazione di quanto il Magistero ha insegnato in precedenza. Voglio invece dire che il profilo fondamentale della famiglia cristiana non cambia e non potrebbe cambiare, pur nelle mutate condizioni culturali di spazio e di tempo. Ciò che credo sia cambiato nel testo di papa Francesco rispetto ai precedenti è la prospettiva, vale a dire la sua scelta personale di mettere da parte gli aspetti teologici e dottrinali per soffermarsi sugli aspetti dinamici ed esistenziali. Ciò che il papa analizza è la famiglia nel suo divenire nel tempo, nelle dinamiche di coppia, con successi e sconfitte, in ambito affettivo, educativo, psicologico, nelle sfide che pone la procreazione e l’educazione della prole, soprattutto la sfida della trasmissione della fede alle giovani generazioni, la interazione tra le varie generazioni, tra i membri della famiglia e la comunità ecclesiale, e via dicendo.
E’ significativo, a questo proposito, che il tema della XIV assemblea generale del sinodo dei vescovi, tenutasi a Roma dal 4 al 25 ottobre 2015, era espresso nei seguenti termini: «La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo». Ma anche del tema del sinodo è stata fatta ampia banalizzazione, riducendo la complessità e la ricchezza[4] del messaggio dell’Assemblea sinodale alla semplicistica (anche se urgente) questione dell’ammissione o meno dei divorziati risposati alla comunione eucaristica. Oggi di potrebbe rischiare la stessa indebita riduzione della ricchezza del messaggio di Amoris laetitia al solo capo VIII, ha scritto in proposito un porporato spagnolo in un testo che sta per essere pubblicato. Il porporato conferma che il capo VIII di Amoris laetitia nulla cambia della dottrina della Chiesa sul matrimonio. Dunque, la novità – afferma il cardinale – consiste nell’applicazione della dottrina tradizionale della Chiesa alla pastorale dei divorziati risposati.
Ma attenzione: non si tratta di formule pastorali immediatamente operative, applicabili subito e dappertutto, in ogni contesto culturale. Ogni documento pontificio richiede una sapiente mediazione e Amoris laetitia non fa eccezione. Anzi, è il papa stesso che mette in guardia da una lettura affrettata ed invita all’approfondimento paziente (n. 7). Il papa spiega che la finalità del documento è quella di raccogliere gli apporti dei due sinodi che possano orientare la riflessione, il dialogo e la pratica pastorale sul matrimonio e sulla famiglia (n. 4). Mi pare, dunque, che il Pontefice stesso indichi come il documento, lungi dall’essere un vademecum per la pratica pastorale, una pappa già cotta e pronta ad essere consumata, è invece una raccolta di considerazioni volte ad orientare un ulteriore riflessione da compiersi in seno alle comunità diocesane e parrocchiali, in seno ai consigli presbiterali e pastorali, per trovare, in consonanza con i Pastori delle diocesi le formule più adatte a sostenere la famiglia ed offrire stimolo ed aiuto alle famiglie in difficoltà. Si tratta di dar corpo e realtà all’esercizio del discernimento che possiedono soprattutto i vescovi, in forza della loro consacrazione e l’esercizio del conseguente munus pastorale. Ciò però non rende vano o superfluo, anzi, richiede l’apporto del sensus fidei dei fedeli e la necessaria collaborazione dei presbiteri, il cui ministero – mi permetto di ricordarlo – non è ristretto al governo pastorale della propria parrocchia, ma comporta una sollicitudo omnis ecclesiae, di tutta la diocesi, come il compito del vescovo non è limitato al governo della diocesi ma è unito alla sollicitudo omnium ecclesiarum di tutti i membri del collegio episcopale, con a capo il Vescovo di Roma. Solo la sinergia – in linguaggio ecclesiale si dovrebbe parlare di un cammino sinodale – è garanzia che lo Spirito opera nella Chiesa e ad essa suggerisce quanto è necessario al suo cammino nel tempo. Essa, alla luce dello Spirito e con la garanzia che viene dal magistero ordinario e straordinario dei vescovi, trova strade nuove perché il vangelo della carità e della misericordia sia accolto e vissuto da tutti, ciascuno secondo la modalità corrispondente alla vocazione ricevuta. E ciò senza tradire l’insegnamento fondamentale di Cristo. Il papa Francesco afferma esplicitamente che occorre trovare soluzioni maggiormente aderenti alla cultura ed alle tradizioni dei popoli dal momento che ogni principio generale necessita di essere inculturato perché possa essere osservato ed applicato (n. 3).
Dunque, Amoris laetitia si muove nella prospettiva dell’inculturazione della fede. E non può esserci vera inculturazione della fede a seguito di una lettura affrettata: si risolverebbe facilmente in una applicazione non sostenuta da adeguata riflessione e quindi fonte di confusione e di disorientamento[5]. Pertanto, l’Esortazione Apostolica non intende proporre norme o principi generali validi per ogni contesto culturale (n. 300) ed il papa stesso raccomanda di evitare soluzioni estreme (n. 2). Esorta il papa Francesco a trattare la realtà, i rischi, le difficoltà e le sofferenze del nostro tempo con profonda compassione, evitando i due estremi del rigorismo e del lassismo, ma confidando nell’opera della grazia e nella coscienza individuale illuminata dallo Spirito.
- Il capitolo VIII di Amoris laetitia
E’ il papa stesso ad anticipare che sarà il capo ottavo dell’Esortazione ad interpellare ed interessare maggiormente tutto il popolo di Dio.
Il motivo è palese: il contenuto proprio del capo VIII riguarda le situazioni di fragilità coniugale ed illustra l’attitudine che la Chiesa deve adottare rispetto a quelle situazioni familiari che non rispondono appieno alla vocazione coniugale cristiana. Non è un mistero che la condizione di questi fratelli interpella la Chiesa molto più di altre situazioni problematiche.
La novità dell’approccio di Francesco è data dal punto di partenza: egli riconosce e denuncia che per troppo tempo la Chiesa si è accontentata di dichiarare l’esclusione di queste persone dai sacramenti, di giudicare e stigmatizzare la loro condizione, senza mai però – tranne poche e lodevoli eccezioni – mettere in atto strategie pastorali di ciò che io chiamerei «integrazione del disagio». Qualcuno anzi si è spinto molto oltre la decenza e l’umano rispetto: so – e forse anche voi sapete – di persone allontanate in malo modo dal confessionale, perché divorziate. Non sono mancati, accanto ad atteggiamenti censori, atteggiamenti di segno totalmente contrario: di acquiescenza, di dissimulazione. In fondo, meglio non vedere che prendersi la responsabilità di dire cosa è bene e cosa è male. La correzione fraterna è sempre un peso, e quando è fatta dal parroco rischia di essere interpretata come una censura. Meglio ignorare e lasciare alla responsabilità individuale.
Ecco, questo atteggiamento tenuto dai Pastori di anime quali noi siamo denota un disagio, una incapacità di porre in essere quella che ho chiamato una pastorale dell’ «integrazione del disagio». La Chiesa, particolarmente quella italiana, ha patito una mancanza di strategie pastorali atte al recupero di situazioni al limite della regolarità o palesemente irregolari che fino a pochi decenni fa costituivano un numero trascurabile ma che improvvisamente, forse al di là delle nostre aspettative, si sono moltiplicati smettendo di essere eccezioni e divenendo in alcuni contesti culturali la maggioranza dei casi.
Ecco perché i Padri sinodali, prendendo coscienza di questo limite, hanno raccomandato una pastorale più attenta alle situazioni familiari irregolari. Il papa però si è rifiutato di offrire una ricetta bella e pronta, valida per tutti gli ambiti culturali. Peraltro, a quanto mi sembra di leggere tra le righe, papa Francesco raccomanda di evitare di correre frettolosamente alle soluzioni pastorali immeditate. Esse sono mancate in passato: alcuni episcopati hanno pensato di poter precorrere i tempi e proporre alcune soluzioni pastorali più o meno condivisibili in materia; ma alla fine si sono rivelate fonte di confusione o un mezzo di ricerca della popolarità.
La ricetta di papa Francesco sembra essere piuttosto quella dell’accompagnamento individuale, rinunciando a dare una normativa che non potrebbe tener conto di tutte le variabili che i casi singoli possono presentare.
Il papa parte anzitutto dalla considerazione che devono essere accettate ed accolte le persone, quand’anche abbiano alle spalle situazioni di irregolarità matrimoniale. La parabola del buon pastore ci interpella: il pastore deve avere il coraggio di lasciare le 99 pecore al sicuro nell’ovile e inerpicarsi tra i rovi per ricondurre quell’unica zoppa e smarrita. Questo si traduce, in ambito pastorale, nella realizzazione di comunità cristiane che accolgono e non scartano. Il papa ha sempre fortemente parlato contro la cultura dello scarto. Ed invece, essere cath’olicos/cath’olicoi significa essere universali, aperti ad ogni uomo. Ce lo ha ricordato tanti secoli fa il Bernini, quando inventava il colonnato di S. Pietro come due braccia protese verso il mondo.
Accanto a questo primo punto, ve ne sta un altro, strettamente legato: occorre abituarsi all’idea che nella Chiesa possano esserci situazioni di diminuita comunione ecclesiale. Già il CIC, al can. 205[6], parla di plena communio, sottintendendo che esiste anche una communio semiplena o imperfetta che dir si voglia. Ora, è evidente che in molti casi di situazione matrimoniale irregolare, i fedeli coinvolti, se non possono godere della piena comunione sacramentale, conservano grazie a Dio la comunione nella fede e la soggezione ai legittimi pastori. Partendo da questa consapevolezza, il papa dice che vi sono situazioni coniugali che non realizzano obiettivamente o pienamente la concezione del matrimonio secondo l’insegnamento della Chiesa (n. 303). Ho parlato prima di situazioni di fragilità che non rispondono appieno alla vocazione coniugale cristiana. Ho volutamente usato il termine «appieno» perché accanto a situazioni almeno di piena realizzazione della coniugalità ve ne sono altre che realizzano solo parzialmente l’ideale. E ciò perché l’essere umano è soggetto alla dura legge della gradualità. Già Giovanni Paolo II ne aveva parlato quando, nella Familiaris consortio, al n. 9, diceva che ogni essere umano avanza gradualmente nella progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo ed assoluto tanto nella vita personale come in quella sociale. Così anche papa Francesco, in perfetta continuità con il Magistero precedente, riconosce – nello sforzo umano di fedeltà alla propria vocazione – il peso dei condizionamenti concreti. Di qui, la necessità di “… incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata ed accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia” (n. 303). Lo scopo è quello di integrare e quindi aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale (n. 297). Ciò comporta, da parte dell’accompagnatore di anime, la pazienza che il fedele con il tempo prenda coscienza della propria situazione davanti a Dio ed alla Chiesa, del proprio grado di responsabilità circa la situazione che vive al momento (n. 300). L’accompagnamento comporta dunque anche la pazienza di attendere che la coscienza del fedele, illuminata dal vangelo, giunga a riconoscere che la propria situazione di vita non risponde obiettivamente alla proposta generale del vangelo. Anzi, il papa si spinge oltre: seppure – Egli afferma – il fedele giunga a riconoscere la propria situazione di diminuita a comunione ecclesiale, potrebbe darsi che egli giunga anche a riconoscere con sincerità ed onestà ciò che in quel momento può essere la sua risposta generosa a Dio, benché essa non sia pienamente l’ideale oggettivo (n. 303). A questo proposito, il papa fa riferimento a quelle situazioni in cui una donna, abbandonata dal precedente marito, abbia sentito in coscienza la necessità di dare ai propri figli una figura paterna ed assicurare loro un adeguato sostentamento ed un futuro meno mortificante.
[1] Mi sia consentito dire che con mia sorpresa e soddisfazione ho trovato singolare consonanza tra il testo americano e le riflessioni che il sottoscritto aveva già proposto nell’aprile 2016 al clero della diocesi di S. Severo, in Puglia, e che ora sono raccolte nell’ultimo capitolo di un opuscolo intitolato “Misericordioso e Giusto. Il vero volto di Dio Padre”, uscito nell’ottobre dell’anno appena trascorso.
[2] Si veda il notissimo discorso di Papa Benedetto XVI alla Curia Romana, del 22 dicembre 2005, che non fu peraltro del tutto nuovo in quanto già Paolo VI, già all’indomani della chiusura del concilio mise in guardia dall’errore di considerare l’insegnamento del concilio nel segno della rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo aveva preceduto (Paolo VI, Omelia in occasione del I anniversario della chiusura del concilio, 8 dicembre 1966).
[3] Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, … cit..
[4] Ricordo che la Relatio finalis del sinodo si compone di 12 capitoli divisi in tre parti di 4 capi ciascuna.
[5] Altrettanto affermava papa S. Giovanni Paolo II in Familiaris consortio, al n. 10.
[6] Plene in communione Ecclesiae catholicae his in terris sunt illi baptizati, qui in eius compage visibili cum Christo iunguntur, vinculis nempe professionis fidei, sacramentorum et ecclesiastici regiminis.