Nel complesso di Santo Spirito in Sassia, a quattro passi da piazza S. Pietro a Roma, v’era una volta l’Ospedale Sistino, che garanzie politiche dell’attuale amministrazione regionale hanno destinato a diventare un polo museale con lavori di (si spera) prossima realizzazione. Del promesso polo museale dovrebbe far parte anche la Sala Baglivi, all’interno della quale si trova un particolarissimo affresco di Giuseppe Cesari, meglio noto come Cavalier D’Arpino, che è l’unica rappresentazione conservataci delle nozze tra l’erede al trono di Bisanzio e il primo zar di Russia.
Infatti, l’opera, che fu completata nel 1599, raffigura papa Sisto IV assiso sul trono pontificio, in atto di porgere una borsa con la dote a Zoe Paleologina, che era la figlia minore di Tommaso Paleologo, cioè in pratica l’ultima erede della dinastia porfirogenita. Accanto a lei il suo futuro sposo, il gran principe moscovita Ivan III. Dietro, si vedono i genitori dei due nubendi, che il Cavaliere ritrasse nelle vesti di due saggi anziani dalle lunghe barbe bianche.
Non sono in pochi a ritenere che l’età moderna – che alcuni fanno principiare dalla scoperta dell’America (1492), altri dall’affissione delle 95 tesi di Lutero alla chiesa del castello di Wittenberg (1517) – cominci proprio con queste nozze (che vennero celebrate nella Cattedrale dell’Ascensione del Cremlino nel 1472), con le quali di fatto termina la gloriosa storia bizantina, e con essa il progetto di una riunificazione religiosa e politica tra la “prima” e la “seconda” Roma. E Giuseppe Cesari fu l’artista chiamato ad immortalare (con evidente esclusività) un evento tanto importante, non solo e non tanto politicamente, quanto soprattutto per il fertile incontro transculturale che ne venne. Non a caso, Zoe (che aveva assunto il nome di Sophia), ebbe sempre più crescente influenza sulle decisioni del marito, ben più anziano di lei, tanto da introdurre al Cremlino la magnificenza e la meticolosa etichetta delle cerimonie bizantine, nel tentativo di fare di Mosca la “terza” Roma.
Nato ad Arpino nel 1568, Cesari si trasferì a Roma nel 1582 con la famiglia, poiché il padre, pittore a sua volta, cominciò a lavorare insieme con il Pomarancio alla decorazione delle Logge vaticane. Il futuro Cavaliere si fece apprezzare per la sua creatività, avviandosi come ragazzo di bottega. L’anno successivo venne ammesso all’Accademia di S. Luca, della quale diventerà poi presidente, e iniziò a realizzare affreschi presso la corte di Gregorio XIII, il figlio del quale, Giacomo Boncompagni era divenuto Duca di Aquino e di Arpino.
L’apprezzamento e la notorietà che man mano s’era guadagnati non vennero meno con l’ascesa al soglio pontificio di Sisto V (1585), epoca alla quale risale l’affresco della Canonizzazione di S. Francesco di Paola, conservato a Trinità dei Monti. Nel 1586 entra nella Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, che era un’acacdemia pontificia, fondata nel XVI secolo con lo scopo «di favorire lo studio, l’esercizio ed il perfezionamento delle Lettere e Belle Arti, con particolare riguardo alla letteratura d’ispirazione cristiana e all’arte sacra in tutte le sue espressioni, e di promuovere l’elevazione spirituale degli artisti, in collegamento con il Pontificio Consiglio della Cultura». Due anni più tardi realizzò, su commissione del cardinale Farnese, alcuni affreschi nella chiesa di San Lorenzo in Damaso, purtroppo oggi perduti.
Fu attivo anche a Napoli, dove affrscò il coro della Certosa di San Martino (1589), e la volta della Sacrestia (1593). Tra il 1587 e il 1595 lavorò a Roma nella Cappella Olgiati in Santa Prassede, mentre dal 1597 ottenne una commissione nella Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, opera quest’ultima che condividerà con Caravaggio, il quale nel 1593 era entrato stabilmente nella sua bottega.
Tra il 1595 e il 1640 realizzò gli affreschi del Palazzo dei Conservatori: il Ritrovamento della lupa, nel 1596; la Battaglia tra i Romani e i Veienti, nel 1597; il Combattimento tra gli Orazi e i Curiazi, nel 1612; il Ratto delle Sabine, l’Istituzione della Religione e la Fondazione di Roma (tutti del 1635).
Ottenne il titolo di Cavaliere, con il quale è noto per aver affrescato l’Ascensione nel transetto di San Giovanni in Laterano, nel 1600. Negli stessi anni assume la direzione dei lavori di decorazione musiva della cupola di San Pietro, mentre successivi sono gli affreschi della villa Aldobrandini a Frascati e quelli della Cappella Paolina in Santa Maria Maggiore, realizzati tra il 1605 e il 1612. Dopo altri notevoli lavori – alcuni dei quali oggi conservati anche all’Ermitage di San Pietroburgo e alla National Art Gallery di Washington – si spense a Roma nel 1640.
Dunque, Giuseppe Cesari visse e operò in un clima culturale particolarmente stimolante, cioè quello della Roma tardo cinquecentesca, nella quale si volle operare una sintesi degli spunti artistici ed estestici in una sorta di “matrimonio” interculturale. Fu quella un’epoca, in cui v’era stata una reinvenzione del teatro (patrocinata inizialmente da Pomponio Leto, Giovanni Sulpizio Verulano e gli altri membri dell’Accademia Romana), e tante erano le occasioni in cui si organizzavano feste, private e non, con spettacoli teatrali.
D’altronde il teatro del Cinquecento e del Seicento fu intellettualmente transculturale. In esso confluirono istanze di varia matrice: il tardogotico delle corti padane e di quella aragonese, l’umanesimo toscano e dell’Italia centrale, le ricche presenze spagnole e fiamminghe, catalane e francesi e tedesche. Possiamo dire, come hanno fatto altri studiosi, che si trattò di un’arte da inquadrarsi nella molteplicità delle arti dell’intrattenimento e della celebrazione, pubbliche e private, civili e religiose, e nelle specificità e differenze delle diverse situazioni culturali delle corti e delle città.
Le danze e i banchetti, le entrate solenni e i carnevali, le feste religiose e quelle private, le trasformazioni effimere delle piazze di città, le celebrazioni degli intellettuali, il raccontare e il conversare, i tornei, le serenate, i giochi: sono elementi e situazioni che scandiscono i modi dello spettacolo, inserendosi in uno specifico ambiente socio-culturale, ovvero quello della festa. La festa, per usare parole di illustri studiosi, è “un’organizzazione extraquotidiana del tempo, che non è intrattenimento o distrazione soltanto, ma sempre esibisce il suo senso sociale e culturale”. Per questo, come il teatro, non la si vede, non ha un pubblico: o se ne è parte o se ne è esclusi.
Giuseppe Cesari, che, come detto, ebbe un ruolo di primo piano nella Roma rinascimentale, non poteva restare estraneo al fervore dello spettacolo teatrale. Infatti, egli fu il dedicatario illustre di opere drammatiche a stampa, alcune delle quali giunteci nelle versioni a stampa. In realtà, l’interesse del Cavalier d’Arpino per il teatro fu anche di natura pratica, avendo egli partecipato, come apprendiamo da alcune lettere dedicatorie premesse alle opere sottoelencate, in qualità di anfitrione o di scenografo, alla rappresentazione di alcune di esse.
Un’opera legata al nome del Cavaliere è Maggia damore (1609), favola pastorale di Matteo Pagani, la quale costituisce un caso estremo di mescolanza di generi, stili e linguaggi (infatti, alcuni personaggi parlano in versi, altri in prosa, altri in continua alternanza), e nella cui dedica leggiamo che il Cesari diede vari trattenimenti nel suo palazzo romano.
Esiste poi La selva incantata (1626), commedia boschereccia del medesimo autore, che dichiara di aver avuto l’idea di quest’opera, collaborando con il Cavalier d’Arpino (del quale si dice allievo) e con Francesco de Cuppis all’allestimento scenico della Catena d’amore.
Il giuoco di fortuna (1627) di Guido Casoni è un’opera in cinque atti, condita con qualche aria musicale. L’innocente principessa (1627), è una tragicommedia di Francesco Miedelchini, ambientata in una scena boschereccia che si finge in una selva lontana di Salerno, e nella quale l’autore inserisce alcuni inserti dialettali. Le disgratie di Burattino (1628), dal canto suo, è una “commedia ridicolosa e bella”, della quale fu autore il sig. Francesco Gattici.
Infine, c’è Il fulminadonte fedele (1633), tragicommedia di Matteo Pagani, il cui frontespizio è inciso con amorini ed arme del dedicatario, il cui nome è scritto su un cartiglio insieme a quello degli altri celebri arpinati, Cicerone e Mario. Al riguardo, è interessante notare che l’autore ci fornisce notizia della recita de La vedova, un’altra sua commedia, allestita proprio in casa di Giuseppe Cesari.
Se un tal ingegno proveniva da Arpino – città retta dalla famiglia Boncompagni – non è difficile credere che, anche nella sua patria d’origine, la vita culturale era piuttosto intensa. Al riguardo possiamo riferire di due occasioni in cui la città di Arpino fu promotrice e sede di allestimenti teatrali.
Infatti, presumibilmente nel 1775, ad Arpino (presso il “Palazzo delli Signori di Belmonti”), in occasione del “faustissimo esaltamento alla sacra Porpora dell’eccellentissimo signore d. Ignazio Buoncompagni Lodovisi de’ duchi di Sora, e principi di Piombino”, viene rappresentata la festa teatrale Il pomo d’oro tolto alla Bellezza, e reso alla Virtù, la cui musica venne composta dal celebre Gennaro Rava di Napoli.
Questo Pomo d’oro rievoca la mitica storia della contesa tra Giunone, Pallade e Venere, su chi tra esse dovesse meritare il frutto d’oro – la stessa storia che è il sostanziale antefatto della guerra di Troia e delle storie omeriche. Infatti, la scena si finge ambientata sulle “deliziose rive di Cipro con altari dedicati a Venere, sparsi di fiori, e fumanti d’incenzo”. Ovviamente, trattandosi di un’operetta celebrativa di un preciso personaggio, la conclusione è decisamente diversa da quella della storia tramandata dall’antichità. Il pomo d’oro non viene assegnato ad alcuna divinità, ma l’opera si chiude con questi versi detti da Amore: «A Te dunque il gran Pomo / eccelso Ignazio, e grande, / or si serba, e destina, e a te si rende. / Egli fu un tempo, è vero, / premio a rara beltade; or con più dritto / fassi premio, e corona / a virtù troppo eccelsa, e troppo rara. / Sembra picciolo il don; ma è dono il sai / Ben da tre Numi un tempo / e bramato, e conteso. / Or benigno l’accetta: / Che alfin lo porge è Amore; penserà Amore / (né l’augurio è lontano) / a tue chiome apprestar serto migliore».
Ed in effetti il cardinale fu uomo colto e intelligente. S’era addottorato in legge nel 1761 alla Sapienza di Roma, e fu legato a Bologna (dove gli furono dedicate svariate opere drammatiche). Qui pubblicò un piano di riforme economiche per migliorare le finanze dello Stato pontificio, favorendo le attività produttive. In maniera piuttosto avanguardistica – se non si trattasse di un uomo di chiesa, diremmo “illuministicamente” – aveva immaginato una riforma fiscale, prevedendo l’applicazione di imposte dirette sulla proprietà terreria, che, ovviamente, trovò ferma opposizione da parte del senato bolognese, naufragando inesorabilmente anche a seguito dell’occupazione della città da parte delle truppe napoleoniche (1796, cioè sei anni dopo che Ignazio Buoncompagni era passato a miglior vita).
L’autore degli encomiastici versi, nemmeno tanto brutti, si firma nella quarta pagina del libretto, nella quale apprendiamo che essi furono scritti da Venanz’Antonio can. Belmonte, il quale fece precedere il breve componimento drammatico da poche parole dedicatorie, con cui, rapidamente ricordando i servizi che, prima di diventare cardianale, Ignazio aveva reso al re di Spagna, egli si giura vero e fido vassallo del “l’ornamento miglior del Buoncompagno stemma”.
Nell’Elogio storico dell’abate Dom. Antonio Marsella scritto da Francesco Fabi Montani (e uscito a Roma nel 1836), si legge anche un breve profilo del Belmonte, dal quale quell’abate «apparò i primi elementi delle lettere». Di Venanzo Belmonte si dice che era «soggetto di assai pietà e dottrina, il quale come che dovizioso, piacevasi di ammaestrar i fanciulli non per trarne guadagno, ma per ben avviarli fin dalla più tenera età. Esempio veracemente bello della più rara filantropia, né mai abbastanza rammemorato: mentre vedi così per tuo mezzo fiorire la patria di dotti e propri cittadini, unico e vero sostegno i ogni civili reggimento».
Questo canonico Venanzo Belmonte dei Buoncompagni dovette effettivamente essere un attivissimo sostenitore, tanto che nel 1778 fece dare alle stampe a Napoli un’altra opera drammatica intitolata Enea nel Lazio. Sul frontespizio la si definisce “serenata in occasione della prima venuta a’ suoi Stati dell’Ecc.mo signor principe d. Antonio Buoncompagno”, al quale era dedicata. Antonio Buoncompagni era il fratello maggiore di Ignazio, ed era stato, proprio in quell’anno, investito dello stato di Piombino dal padre Gaetano.
L’altro riferimento è un po’ più scarno, ma ugualmente interessante riguardo alla vita teatrale della cittadina arpinate. Infatti, l’abate Domenico Romanelli nel suo entusiasmante resoconto del Viaggio da Napoli a Monte-Casino ed alla celebre cascata d’acqua dell’Isola di Sora (edito a Napoli nel 1819), oltre a fornire ragguagli sulle vestigia degli antichi teatri in terra di Ciociaria, ricorda: «Dopo il mezzogiorno arrivai ad Arpino. La sera fui invitato al teatro Tullio dove si rappresentò in musica una bellissima commedia da alcuni dilettanti, che fanno grande onore alla loro patria» (p. 132).
Vincenzo Ruggiero Perrino