Proseguono gli incontri del gruppo del Corso biblico, presieduti da don Giovanni De Ciantis. Infatti, sabato 26 novembre, si è tenuto il terzo incontro, incentrato sull’analisi di un altro brano biblico in cui Dio, dettando le “regole” per una società giusta, manifesta la predilezione per gli ultimi e i poveri: Deuteronomio 24, 10-21.
Questo passo contiene una serie di indicazioni pratiche della vita comunitaria. Si tratta, ovviamente, di una comunità che mette la volontà di Dio al centro della propria giornata, e non la volontà umana. Il mettere Dio al centro è evidente nella praticità dei precetti, tanto diversi dalle norme astratte che invece caratterizzano i nostri moderni ordinamenti giuridici.
In tutto il brano è chiara la predilezione verso il povero. È bene evidenziare che ciò che qui viene indicato con il termine povertà è naturalmente una poverà di carattere materiale, di indigenza. Tuttavia, le situazioni prospettate indicano anche una povertà di carattere più esistenziale, di solitudine, di emarginazione e di indigenza morale. E probabilmente proprio in questa ultima accezione, ci si può rendere conto di quanto attuale sia il messaggio contenuto in questi versetti del Deuteronomio.
Infatti, i primi versetti – quelli dedicati alla restituzione dei prestiti e dei pegni – sembrano scritti apposta per gli odierni istituti di credito e banche, o per i vari istituti pubblici che sono incaricati della riscossione delle tasse, che spesso calpestano la dignità degli uomini pur di raggiungere il loro profitto.
Allo stesso modo, il precetto del versetto 14 può essere applicato ai nostri imprenditori poco scrupolosi nei confronti dei lavoratori, e nei confronti dei tanti immigranti che affollano le nostre città. I primi dovrebbero essere onesti e pagare la giusta ricompensa per il lavoro che viene svolto dagli operai: invece spesso le aziende imprenditrici, pur di non perdere i propri già lauti margini di guadagno, preferiscono licenziare i lavoratori per non doverli pagare.
E che dire del problema degli immigranti? C’è un vuoto politico spaventoso sul problema, vuoto che si cerca di riempire con i proclami dell’antipolitica populista che cavalca l’onda del malcontento e della paura. L’unica voce vera che si leva sulla questione degli immigranti è solo quella della chiesa cattolica (che una politica della solidarietà ancora ce l’ha, per fortuna).
Ma, ovviamente, il Deuteronomio non parla di politica o di immigranti che scappano da chissà quale guerra: lo straniero può essere anche il meridionale che va al nord per lavorare, o il vicino di casa che ha perso il lavoro. Il problema è che oggi noi non sappiamo più aprire le nostre porte nemmeno ai nostri stessi vicini di casa, figuriamoci se ci possiamo riuscire con chi viene dall’Africa o dall’Asia! Quello che si è perduto è il senso dell’accoglienza del prossimo, chiunque esso sia e da qualsiasi parte venga.
Gli ultimi gridano al Signore: la logica del Signore non è quella di ascoltare il grido di aiuto del povero per “accontentare” la sua richiesta, quanto piuttosto quella di ascoltare coloro che non hanno voce, che non sono ascoltati da nessuno, affinché in essi si realizzi la Sua volontà.
Al versetto 16, non bisogna confondere il precetto di Dio con la giustizia della pena di morte. Anzi, il messaggio è molto chiaro: ciascuno deve rispondere delle proprie azioni, senza che a nessuno vengano attribuite colpe non proprie.
Il versetto 17 insiste sul “giusto” comportamento di accoglienza verso gli stranieri, gli orfani e le vedove. All’epoca lo stato di vedovanza era di massima indigenza, dal momento che morto il marito, che era colui che lavorando provvedeva al sostentamento della famiglia, la moglie e il figlio rimasti soli erano in uno stato di estrema povertà. Ecco perché in tutto questo brano più volte si fa riferimento a queste figure.
E noi oggi come ci comportiamo verso il lutto di qualcuno? Normalmente si partecipa alle esequie per le condoglianze, o si fa una visita nei giorni immediatamente successivi la morte del congiunto. E poi? Chi vive nel dolore viene lasciato solo. Invece, una comunità che mette Dio al centro, è sempre vicino al dolore del fratello.
Al versetto 18 ritorna il monito del fare memoria del passato. È chiaro che il passato da ricordare non è solo quello negativo, ma anche quello positivo. Infatti, bisogna sì ricordare di essere stati prigionieri in Egitto, ma anche che Dio ha fatto in modo da liberare il suo popolo.
Il brano si chiude con tre raccomandazioni, di lasciare nei campi i covoni, negli uliveti le olive e nei vigneti l’uva per lo straniero, l’orfano e la vedova. In tal modo si otterrà la benedizione di Dio. E noi oggi cogliamo i veri bisogni del nostro prossimo? Ci prendiamo cura dei bisogni materiali del nostro prossimo?
La benedizione di Dio è tutto. Però, avere la benedizione di Dio non bvuol dire che tutto deve andare sempre bene, e non deve succedere alcunché di male. Significa, invece, essere fatti degni di poter sedere a mensa con lui alla fine dei tempi.
Vincenzo Ruggiero Perrino