Lo scorso 1 aprile, si è tenuto il decimo incontro del gruppo biblico sotto la guida di Don Govanni De Ciantis, presso la chiesa di Santo Spirito a Sora. Nell’incontro precedente, avevamo concluso le vicende di Davide, il quale, riconciliatosi con Dio, si era unito a Betsabea, e aveva generato Salomone (il cui nome significa “Re di pace”).
Dopo aver dedicato più di qualche appuntamento sulle vicende di Davide, e riprendendo il tema dell’anno in corso, e cioè la predilezione di Dio per i poveri, gli emarginati, gli indifesi e i sofferenti, l’esegesi si è concentrata sul Libro di Isaia. Isaia è, insieme con Ezechiele, Geremia, e Daniele, uno dei quattro profeti maggiori (poi ci sono i dodici profeti minori).
Il capitolo 58 del Libro di Isaia, nelle edizioni moderne della Bibbia, viene intitolato “Il digiuno gradito a Dio”. Isaia descrive il suo atteggiamento verso il popolo, come quello di colui che grida con una voce possente come quella di un corno, con tutta la sua forza. Non è tanto un gridare fine a se stesso, quanto piuttosto un acclamare senza paura, perché ciò che il profeta deve dire viene detto nel nome di Dio. Cosa deve gridare Isaia alla casa di Giacobbe? I delitti e i peccati del popolo.
Una prima sottolineatura è differenza tra la dicitura “casa di Giacobbe” e quella di “popolo di Israele”. Mentre popolo di Israele ha una connotazione più generica e quasi giuridica, “casa” indica la dinastia, e fa riferimento al capostipite: al peccatore Isaia dovrà ricordare chi era il suo avo, e cioè Giacobbe.
Il versetto 2 specifica che il popolo è peccatore, e si rivolge a Dio volendo conoscere le sue vie, chiede il suo giudizio, quasi come se Dio lo abbia abbandonato. Esso si chiede che senso può avere il digiuno, se Dio non lo vede? Il senso è chiaro: la casa di Giacobbe pecca perché vive in un mondo di apparenza, e dunque compie i suoi digiuni quasi con ostentazione non solo nei confronti gli uni degli altri, ma anche nei confronti di Dio.
Per noi oggi il monito è: desideriamo la vicinanza di Dio? Facciamo la sua volontà per ostentare la nostra fede, o con intima partecipazione? Digiuniamo per farci vedere dagli altri e da Dio, o perché è nostro convincimento farlo?
Non a caso, nel giorno di digiuno, gli uomini curano i loro affari, litigano, trattano male gli operai: che senso può avere digiunare quando i rapporti tra gli uni e gli altri siano impostati in questo modo? Non c’è bisogno che il digiuno sia fatto solo per apparire mortificati, quando invece nel proprio intimo ci si comporta in modo difforme dalla volontà di Dio.
Il popolo vuol far passare il proprio piegare il capo come un giunco e l’usare un sacco come letto, come il digiuno gradito al Signore. Sono tutte opere esteriori che mortificano l’uomo, ma che non sono ciò che Dio vuole. Piuttosto il digiuno che Dio vuole è sciogliere le catene inique, rimandare liberi gli oppressi: e ovviamente il riferimento non è solo alle catene in senso materiale, ma anche in senso simbolico sui rapporti umani fatti di sopraffazione e non di giustizia e senso di fratellanza. Il vero digiuno è ridare ai figli di Dio la libertà che compete loro.
Ancora: il vero digiuno è dividere il pane con l’affamato, accogliere i poveri e i senza tetto in casa, vestire uno che è nudo, senza tralasciare l’attenzione verso i familiari. Tutte cose che poi lo stesso Gesù confermerà nella sua predicazione evangelica. Attenzione: Dio non chiede a noi di morire di fame per sfamare gli altri, ma di condividere il poco che abbiamo con chi non ha nulla. Insomma, creare una comunità nella quale il senso del vero digiuno non è “dare”, bensì “accogliere”. È questa la conversione: vivere le cose non per apparire, ma per essere come Dio vuole.
E oggi: noi riusciamo a saziare la nostra e l’altrui fame? Riusciamo a colmare il vuoto interiore nostro e dei nostri fratelli? Oppure ci limitiamo a concepire il digiuno nella maniera esteriore nella quale lo concepivano gli antichi ebrei? Riusciamo a fare comunità nel senso di accogliere il fratello e condividere con lui qualcosa di noi? Riusciamo a fare la volontà non per ostentazione ma per amore?
Vincenzo Ruggiero Perrino