Il tratto peculiare del teatro settecentesco – la definizione delle drammaturgie nazionali e della funzione dell’attore, oggetto ma non ancora soggetto del dibattito culturale – si conserva e si rinsalda nel XIX sec., quando il Romanticismo prima e il Naturalismo dopo accompagnano l’affermazione della borghesia e l’avanzare delle classi popolari sulla scena della storia.
Il Romanticismo è un movimento di rinnovamento dell’arte, della letteratura e in generale del pensiero occidentale, attraverso il superamento del mito della ragione proposto dall’Illuminismo, della disillusione politica della Restaurazione e delle forme tradizionali della cultura, percepite come inadeguate al mondo spirituale dell’epoca. Dalla Germania esso si diffonde nel resto d’Europa grazie alla sempre maggiore circolazione delle idee e al cosmopolitismo che caratterizza gli intellettuali.
L’elemento popolare fa la sua comparsa in scena manifestandosi come folclore, magia e alterità. L’eroe romantico pensa in termini di lotta per la libertà e la giustizia universali. Le biografie degli artisti sembrano incarnare appieno il tentativo di ricongiungere l’arte alla vita, sconfinando nel disagio, non di rado anche mentale.
Sul fronte drammaturgico in Europa nuovi autori si affacciano alla ribalta. In Germania, il teatro romantico (Schlegel, Kleist, Tieck, Grillparzer, Buchner, Hebbel) abbandona le tre unità aristoteliche, la divisione dei generi, la correlazione causa-effetto nella sequenza degli avvenimenti, la retorica e l’enfasi declamatoria.
Nell’Ottocento sulle scene francesi si registra una certa tendenza alla ricostruzione storica di ambienti e situazioni. I mélodrames, che risolvono l’azione mediante disastri naturali o eventi improvvisi e clamorosi, danno ulteriore impulso allo sviluppo delle macchine sceniche: su tutti il panorama (il pubblico si posiziona al centro su una piattaforma, circondato da una tela dipinta), e il diorama (che crea l’illusione di un mutamento lasciando fisse le scene, e variando solo alcuni particolari insieme a direzione, intensità e colore della luce).
In Inghilterra il Romanticismo teatrale si manifesta nelle opere di Byron e Shelley, che mescolano storie melodrammatiche ed echi stilistici shakespeariani, aprendo le porte al melodrame in cui si esprimono due sottogeneri: il gotico e il quotidiano.
In Spagna, il teatro popolare trova spazio nelle sainetes di Ramòn de la Cruz.
Anche in Russia (Griboedov, Gogol, Puskin) grande risalto hanno le idee estetiche del romanticismo e si forma il primo teatro nazionale. E, nella prima metà del secolo, in America, oltre alla nascita dei teatri su battelli a vapore (showboats), vedono la luce le opere di autori come Barker, e Montgomery Bird.
In Italia la discussione tra classicisti e romantici ha in Manzoni e Foscolo i maggiori interlocutori, tanto che la loro opera costituisce un modello per i seguaci delle due scuole. Le due tragedie di Manzoni (Adelchi e Il conte di Carmagnola), insieme con la lettera a Chauvet, sono il documento più valido di un’arte che ha abbandonato gli schemi classici per volgersi verso la tragedia storica e di argomento nazionale, verso una tragedia cioè che alla verosimiglianza arbitraria delle unità ha sostituito la verosimiglianza più profonda della realtà dei fatti. Al posto del teatro di pura invenzione, lo scrittore milanese fornisce l’esempio di un teatro che unisce storia e fantasia e, al pari di un poema, non rappresenta solo il momento finale della catastrofe, ma l’affresco di un’epoca.
Sull’altro versante i classicisti si trincerano dietro lo scudo non solo della tradizione ma anche dei contributi offerti nel genere drammatico dal Foscolo, che, mentre riprende schemi alfieriani di tragedia, immette in essi un nuovo contenuto politico. Si pensi, ad esempio, al conflitto tra guelfi e ghibellini nella Ricciarda. Inoltre, nello scritto Della nuova scuola drammatica in Italia (1826), il poeta de I sepolcri si scaglia contro la fusione di realtà e finzione nella tragedia, riaffermando i diritti della fantasia.
Per quanto riguarda il melodramma, non c’è dubbio che esso approda nell’Ottocento a risultati non raggiunti dal teatro letterario. Alla base del melodrama ottocentesco c’è un’esperienza secolare riassunta nel Settecento dalle scuole di Napoli e Venezia. È Gioacchino Rossini a unificare i dettati delle due scuole, avviando così quel processo che porterà, dapprima con Vincenzo Bellini e Gaetano Donizetti, e poi con Giuseppe Verdi, alla creazione di un melodramma nazionale e romantico.
I moti del 1848 segnano profondamente la storia europea, avviando un periodo di forti trasformazioni sociali e politiche. Lo sviluppo scientifico e industriale infonde fiducia nelle scienze e nel Positivismo, intesi come strumenti per conoscere il reale. Il teatro si apre alle nuove tendenze, alle avanguardie e alle esperienze di teatro privato che sfociano in un traguardo storico: la nascita della regia.
Il teatro del secondo Ottocento è intimamente legato agli avvenimenti politici che in quegli anni modificano l’assetto in particolare della società italiana. Non c’è dubbio che il genere drammatico, condizionato dal rapporto con il pubblico, tenda a diventare l’interprete degli ideali, delle aspirazioni e dei fatti del tempo. Il Risorgimento offre vigore all’idea, che era stata dei maggiori drammaturghi del Settecento, di un teatro nazionale, capace di offrire all’Italia un repertorio dai caratteri specifici e autonomi che le era sempre mancato. Un’aspirazione che è resa attuale e accresciuta dalla convergenza unitaria dei movimenti politici. L’idea illuministica di teatro nazionale si fonde con quella tipicamente romantica di un teatro popolare. Da ciò la scelta di argomenti tratti dalla storia d’Italia e di fatti del passato grandi, importanti e fecondi di un insegnamento morale, legati al presente da un nesso dialettico.
Con il Verismo e il Naturalismo il mondo popolare è obiettivo di artisti borghesi, che si riconoscono in una classe sociale e la esprimono. Il Naturalismo teorizza che il comportamento umano è determinato dai caratteri ereditari e dall’influenza dell’ambiente. Èmile Zola ne Il Naturalismo a teatro (1881) propugna un teatro che maturi un atteggiamento di obiettivo distacco con cui osservare e descrivere i mali della società, in modo da promuovere un rinnovamento. Tutto ciò passa attraverso la necessità di riprodurre con precisione sulla scena gli ambienti che fanno da sfondo alle storie, per chiarire le relazioni che si instaurano tra caratteri e accadimenti.
È ciò che accade nelle opere dei maggiori autori europei: Hauptmann in Germania (dove è attiva anche la compagnia dei Meininger, alfieri di un teatro che allestisce con precisione archeologica le opere shakespeariane); di Ibsen e Stridberg in Scandinavia; di Dumas figlio e di Auger in Francia; di Robertson e Shaw (e, ancorché come finestra sul sofisticato mondo alto borghese, Wilde) in Inghilterra; di Zorrilla e de la Rosa in Spagna; di Ostrovskij, Cechov e soprattutto Gorkij in Russia; di Belasco in America; e dei nostri Verga, Giacosa e Capuana.
Sul fronte della recitazione grandissima importanza, nella definizione del teatro come arte e la realizzazione di uno spettacolo secondo una precisa metodologia, hanno le teorie di Stanislavskij, che pone al centro della riflessione l’attore e la sua formazione tecnica. Il fine ultimo è il raggiungimento di un naturalismo spirituale, ossia la massima rispondenza della realtà scenica al contenuto dell’opera. Lo stile della recitazione deve essere volto a raggiungere questo scopo: a tal fine egli crea un sistema di ricerca sul lavoro dell’attore, che parte dall’analisi del testo e dall’individuazione del messaggio in esso contenuto, per giungere alla comprensione della psicologia dei personaggi, che vengono attribuiti non più in base ad un sistema di ruoli (com’era stato fino ad allora), bensì sull’aderenza dell’attore al personaggio. Attore e personaggio coincidono quando il primo ha terminato il processo di immedesimazione con il secondo: l’attore deve creare una perfetta aderenza interiore al personaggio.
Infine, sul fronte delle teorie teatrali, accanto all’acuta riflessione sul ruolo dell’attore, la progressiva “industrializzazione” dei metodi produttivi dello spettacolo impone, sul finire dell’Ottocento, un duplice canale di indagine. Da un lato, gli operatori teatrali cominciano – complici le rinnovate legislazioni statali dell’Italia unita – a essere considerati come soggetti di diritto, con l’inclusione delle loro specifiche professionalità nell’alveo dei diritti d’autore (non a caso nasce la SIAE). Da un altro lato, dall’interno del mondo teatrale, nascono le riflessioni di uomini di teatro – su tutti Adoplhe Appia e Gordon Craig – che, approfondendo e superando le teorie di Wagner sulla Gesamkuntswerk (opera d’arte unitaria), cominciano un’operazione di “riteatralizzazione” del teatro, inteso non più come espressione vassalla della letteratura, ma come arte dotata di un proprio specifico linguaggio scenico, di cui è depositario il regista teatrale, vero coordinatore di tutta l’operazione scenica.
Cosa accadeva nel sorano nel corso dell’Ottocento teatrale?
Nel 1818 a Napoli viene pubblicato un opuscolo contentente Poesie italiane e latine, che autori vari avevano voluto donare in segno di amicizia e stima, in occasione delle nozze tra Lodovico Martini, signore della città di Atina, e la nobil donzella Flavia Ferrari, figlia di un colonnello della città di Ceprano.
La città di Arpino fu sede di alcune interessanti manifestazioni, delle quali è rimasta traccia. Infatti, a Napoli sono conservati due opuscoli relativi al Collegio Tulliano, all’epoca retto dai Padri della Compagnia di Gesù. Il primo, datato 1853, contiene la descrizione del Saggio che offrivano al pubblico gli alunni di grammatica media e superiore, una sorta di recital ante litteram. Il secondo, che risale invece al 1857, è il resoconto della cerimonia, con tanto di recite e declamazioni, per la Solemnis praemiorum distributio, svoltasi nel collegio alle calende di ottobre di quell’anno.
Altri due testimonia provengono invece dal monastero di Sant’Andrea Apostolo. Il primo è un libretto stampato in occasione di una vestizione monacale. Infatti, l’8 maggio 1856 prese i voti, vestendo appunto l’abito delle figlie di S. Benedetto, la signorina Letizia Cossa, ed in quella occasione furono date delle pubbliche letture di versi, in una sorta di recital poetico, che si possono leggere nel libricino stampato (e attualmente conservato) a Napoli quello stesso anno.
Il secondo è, dal canto suo, una vera chiccha teatrale. Infatti, presso l’Archivio diocesano è conservato un quaderno (risalente all’incirca al 1870 – a dar credito alle immagini di prima e quarta di copertina che ritraggono Garibaldi nell’atto di accedere a Porta Pia) nel quale, alle prime pagine, è riporato il Dialogo per la festa della Revedenda Madre Superiora.
Redatto in una calligrafia ordinatissima, il quaderno prsenta innanzitutto tutte le battute di questo dialogo, di gusto encomiastico (talora stucchevole per il lettore di oggi), suddivise tra cinque interlocutrici. Il dialogo è chiuso da un canto, che è un inno per celebrare appunto la ricorrenza di festa in onore della Madre Superiora.
A questo segue un’altra scena, intitolata Nella reggia della carità, che ha per protagoniste un gruppo di educande – i cui nomi sono riportati con l’assegnazione dei rispettivi ruoli – in atto di accostarsi in dialogo con l’allegoria della carità. Questa seconda azione teatrale è chiusa da preghiere, esortazioni e inni di riconoscenza nei confronti della Madre Superiora.
Le brevi operette teatrali ritrovate nell’archivio e riferibili al monastero benedettino arpinate rappresentano un’importante testimonianza del fatto che, ancora sul finire del XIX sec., presso i cenobi benedettini le ricorrenze importanti erano festeggiate, tra l’altro, con rappresentazioni teatrali.
Qualcosa di analogo avveniva anche presso il sorano monastero di Santa Chiara. In verità, non si tratta di un’azione scenica nel senso proprio del termine, bensì della cerimonia liturgica di vestizione delle novizie che vestivano l’abito monacale.
Il manoscritto In benedictione et consacrazione virginum, che possiamo ascrivere ai primissimi anni dell’Ottocento, contiene una vera e propria “sceneggiatura” con tanto di “battute” da proclamare, di gesti e movimenti da compiere, e di canti da intonare. Le rubriche sono estremamente chiare e dettagliate, così come sui righi del tetragramma sono riportate tanto le note quanto le parole.
Un altro interessante documento proviene invece dalla Cattedrale sorana. Parliamo dell’Officium Assumptions B. M. V., che venne pubblicato quando era vescovo della città Agostino Colajanni, e quindi grosso modo nella prima decade dell’Ottocento. Il libretto fornisce tutte le indicazioni liturgiche, con canti e scambi di dialoghi tra celebranti e fedeli, in occasione della festa del quindici agosto.
Il teatro di corte di Alvito, nel corso dell’Ottocento, veniva utilizzato da attori amatoriali per recite più popolati in occasione del carnevale o di altre festività, finché nel 1839 esso venne messo all’asta e rilevato da un gruppo di cittadini. Poi, nel corso del Novecento, esso fu sede di una serie di messinscena di drammi sacri, tra i quali S. Valerio soldato martire (circa 1920).
Il teatro comunale di Atina, ricavato dalla sala di giustizia dei Cantelmi era stato oggetto di un primo restauro nel 1786, durante un periodo in cui sono registrate alcune rappresentazioni di melodrammi composti dall’atinate Giovanni Sabatini (stimato anche dal più famoso Metastasio). Nell’ottobre del 1895 andava in scena il dramma Marco di Galilea sotto Domiziano, scritto da Salvatore Concialini e pubblicato qualche anno più tardi per interessamento di Pietro Vassalli a Caserta (1902). Il dramma era dedicato alla figura del martire, che la tradizione vuole essere il fondatore e primo vescovo della diocesi di Atina, elevato alla dignità porporale da San Pietro in persona. È interessante notare come l’autore non dovette trascurare un’attenta ricostruzione storica dell’Atina del tempo, indicandola come una delle città più antiche dell’Italia preromana, nella quale si adoravano divinità quali Giano e Saturno, il cui culto era precedente a quello di Giove e degli altri dei pagani. A parte l’opera della Filodrammatica cittadina, attiva almeno fino al 1939 (l’ultima opera data sul palcoscenico di Atina fu la tragedia Borghese e Sparadozzi), il teatro fu oggetto di numerose esibizioni anche di compagnie di altre parti d’Italia: anche Eduardo Scarpetta vi recitò. Poi, fu nuovamente restaurato nel 1912, per interessamento di Giuseppe Visocchi, che fece eseguire lavori di abbellimento e ristrutturazione.
Infine, importante, è l’intenso iter burocratico che fu seguito dal comune di Sora nella seconda metà dell’Ottocento per la realizzazione di un teatro comunale nei locali del vecchio ospedale (probabilmente distrutto dal terremoto del 1915), di cui resta traccia presso l’archivio comunale. Il progetto fu ideato e realizzato dall’ingegner Vincenzo Valente, che fu padre del famoso Antonio.
L’ideazione e progettazione del teatro fu preceduta da almeno un ventennio di dibattito. Punto di partenza può essere una lettera – datata 2 settembre 1865 – con la quale l’allora sindaco Tronconi replicava ad una comunicazione pervenuta dalla Prefettura. Scrive il primo cttadino:
Mi fo’ dovere farle conoscere che in questo Comune non vi sono Teatri demaniali, né Comunali, né di Società o Accademie. Solo vi esiste un piccolo Teatro sotto la denominazione Teatro del Liri, ed è di proprietà del Sig. Evangelista Tronconi. Quando qualche Compagnia vuole avvalersene contratta col proprietario, ed il servizio a direzione è regolato dalle Autorità politiche.
Dunque, nel 1865, ad eccezione del piccolo teatro privato, non vi erano sale idonee per lo svolgimento di opere drammatiche. Ed infatti, altra corrispondenza dimostra indirettamente lo scarso interesse che le amministrazioni comunali dell’epoca, per almeno un ventennio, ebbero per il teatro.
Una lettera di “raccomandazione” del sindaco di Tagliacozzo (del 1869) resta senza seguito, così come una duplice richiesta di una compagnia pescarese (1874); una richiesta di una compagnia molisana (1882, corredata anche da una sorta di curriculum con tanto di locandine di spettacoli di successo) è liquidata con una dicitura che attesta che il «Teatro è già impegnato per il mese di luglio»; ancora, una richiesta proveniente da Capua (1882) conferma la natura privata del teatro richiesto, e pertanto non può trovare accoglimento presso gli uffici comunali.
Solo nel 1885 troviamo una relazione, a firma dell’ing. Vincenzo Valente, contenente un progetto di “Teatro con Casino” (in realtà l’idea primitiva risale almeno al dicembre del 1881, tanto che esiste una precedente relazione preliminare, sempre del Valente, datata 1882).
Il progettista apre la sua relazione, sottolineando l’importanza e l’utilità di un teatro per il decoro di una città, tanto che «la Giurisprudenza non ha esitato a sanzionare il principio che tali opere sien dichiarate di pubblica utilità, da potersi compiere anche con l’occupazione della proprietà privata, cessando il dritto individuale ove incomincia l’interesse della società».
La città di Sora era venuta alla determinazione di fornire ai cittadini, insieme agli altri mezzi di istruzione, anche quello più pratico e conveniente del Teatro. La località era un vecchio fabbricato, addetto in altri tempi a pubblico ospedale, ed inutilizzato all’epoca in cui scrive Valente. Lo stabile era di proprietà enfiteutica dell’Amministrazione Comunale, che pagava 200 lire annue alla Congrega di Carità, e si trovava «all’esterno della strada Volsci, prospiciente alla piazza Indipendenza, ed isolato a due lati dai vicoli Annonj e Renzi che lo fiancheggiano».
A ridosso del fabbricato c’erano alcuni vani che facevano corpo col fabbricato stesso, ed erano di proprietà del sig. Gaetano Renzi, e che, a detta dell’ingegnere, «fa d’uopo espropriare unitamente al piccolo cortiletto dello stesso».
L’intero fabbricato, secondo il progetto, doveva essere diviso in due parti, delle quali l’anteriore era per uso di Casino e sala di aspetto e di concerto ed altri usi relativi; la parte posteriore per il Teatro. Continua la relazione: «Si sono progettati, oltre la platea, due ordini di palchi, più un loggione per le classi meno agiate […]. Il teatro ha una capacità di 380 spettatori circa».
La somma dei lavori da appaltare, derivante dal computo metrico e dalla stima che Valente diligentemente allega al progetto, era di 15400 lire, alla quale bisognava aggiungere i costi per l’esproprio, giungendo così ad un totale di circa 22000 lire, ovvero circa 150.000€ di oggi.
Sui tempi di cantiere l’ingegnere scrive: «L’opera suddetta dovrà compiersi nel termine di mesi dieci dal giorno dell’aggiudicazione del relativo appalto, giusta il Capitolato d’appalto allegato al progetto».
Il progetto fu approvato il 2 febbraio 1885 con delibera consiliare, a cui fece seguito la dichiarazione di pubblica utilità dei fabbricati adiacenti da parte della Giunta. Purtroppo, i proprietari confinanti si opposero, proponendo un reclamo avverso la dichiarazione di P.U.; ed infatti, il fascicolo conservato nell’archivio comunale riporta anche le opposizioni, con tanto di rilievi e controdeduzioni.
I reclami vennero rigettati con deliberazione del Consiglio Comunale del 17 agosto 1886 (cioè oltre un anno dopo). Inoltre, il 25 novembre 1886, il Consiglio concesse alla Giunta il proprio assenso per proporre un ricorso al Re, contro le decisioni ministeriali e per insistere per la regolarità della dichiarazione di pubblica utilità.
Purtroppo i documenti si fermano qui e, quindi, non è possibile stabilire in che termini si concluse il ricorso, per quanto ancora nel corso del 1886 veniva utilizzato il Teatro del Liri per le compagnie di giro che ne facevano richiesta. Pertanto. È presumibile che le doglianze dei confinanti furono accolte, tanto che di un teatro comunale a Sora non si riparlò più per i successivi decenni.
Vincenzo Ruggiero Perrino