Don Benedetto Minchella è nato a Cassino il 29.10.1973, è stato ordinato Sacerdote nella Basilica Cattedrale di Montecassino, per le mani di Mons. Piero Marini, Maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, il 6 dicembre 1998, è Parroco di S. Antonio di Padova in Cassino, Vice-direttore dell’Ufficio Liturgico diocesano, Cappellano dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale. Per comprendere bene il suo itinerario di vocazione al Sacerdozio lo abbiamo intervistato.
– Don Benedetto, come e quando si è manifestata la tua vocazione?
Mi piace sempre iniziare la storia della mia vocazione con quella notazione del vangelo di Giovanni dove si dice che quando Andrea incontrò il Signore “erano le 4 del pomeriggio” (Gv 1, 39), come se ricordasse bene il giorno e l’ora dell’incontro. La stessa cosa posso dire io, non di aver incontrato il Signore, ma ho una data ben precisa e un momento in cui mi sono sentito “pizzicare”. Ero nell’Azione Cattolica e stavamo animando la Messa per un 25° di Sacerdozio e il festeggiato alla fine disse: Fra tanti bei regali, certo per me il più bel regalo sarebbe se un giovane dell’assemblea fosse chiamato dal Signore per completare la mia opera. Io lì per lì non ci feci tanto caso, ma da quel giorno cominciai a sentirmi “strano”, all’inizio sentivo come i sintomi di una malattia, un’influenza, poi man mano mi rendevo conto che c’era in me una sorta di pressione interiore ad interrogarsi, a capire meglio il proprio posto nella vita, riflessioni che forse prima non avevo mai fatto in modo approfondito.
– Quanti anni avevi e quali persone sono state importanti nel tuo discernimento?
Avevo 17 anni, era l’estate tra il IV e il V Superiore, frequentavo il Liceo Scientifico. La prima volta in assoluto che parlai di questi “stranissimi sintomi”, fu con Don Fortunato Tamburrini, freschissimo viceparroco alla Chiesa Madre. Mi pacificò molto dicendomi di stare tranquillo, che quando volevo potevamo parlarne con calma, camminando insieme. Per me fu importante perché a quell’età guardi a un modello, per cercare di incarnare uno stile di vita, un modo di essere a cui rifarti, che sia vicino al tuo mondo interiore. Poi il responsabile del Centro Vocazionale mi spinse ad andare agli esercizi spirituali organizzati a Vallombrosa e lì da quel momento capii che c’era una chiamata del Signore. Ma la cosa non mi portò molta gioia, ero spaventato, soprattutto perché, dato il mio carattere, non volevo rinunciare ai miei progetti, io pensavo di iscrivermi all’università nel campo umanistico per fare l’insegnante, era il mio sogno. Nell’ultimo anno di liceo non avevo parlato con nessun compagno di classe dei sentimenti che avevo dentro e quasi riuscii ad autoconvincermi, dopo aver parlato con delle persone, non vicine alla Chiesa ma di cui mi fidavo, che mi dissero: se è vocazione, non ti passa, vai avanti, prenditi la laurea e poi vedi. E feci così, mi iscrissi a Lettere e Filosofia e detti gli esami del primo anno, ma a metà anno accademico dovetti dire a me stesso che stavo perdendo tempo, temporeggiavo.
Era nata un’amicizia con Suor Fedora Fuoco, anche lei agli inizi del suo noviziato, che mi fece conoscere Don Bruno Durante, che è stato anche Padre spirituale ad Anagni, che faceva gli Esercizi ignaziani, una settimana di completo silenzio. Fu un’esperienza bellissima e per la sua guida e per quello che ho vissuto io interiormente, e decisi – era l’estate del ’93 – di non temporeggiare più. Parlai con l”Ordinario diocesano, l’Abate Bernardo D’Onorio, con cui si decise che sarei andato al Seminario di Anagni. Cosa strana, l’ultimo alunno della Diocesi di Montecassino che era stato ad Anagni era stato, 50 anni prima, Don Antonio Sciullo, parroco di S. Antonio, perché poi Montecassino ha avuto il Seminario in monastero. Certo non potevo immaginare che un giorno sarei diventato io parroco di S. Antonio!
– Come ha reagito la tua famiglia alla decisione di entrare in Seminario?
Mi ha meravigliato più mia madre. A mio padre non ho mai detto che sarei entrato in Seminario, perché, come spesso accade, glielo aveva detto lei, ma ho sempre percepito il suo accompagnamento silenzioso e anche entusiasta. Mia madre aveva paura che fosse un impegno troppo grande, radicale e difficile da portare avanti e mi faceva tante domande, quasi che fosse “l’avvocato del diavolo”, ma io avevo sempre la risposta pronta a tranquillizzarla e poi è stata ben contenta.
Il Seminario è stata una bella esperienza, soprattutto perché mi ha fatto vivere la bellezza dei rapporti umani. Feci molte belle amicizie, c’erano molti di Gaeta. Finiti gli studi sono arrivato al diaconato il 4 luglio 1998 e fui ordinato Sacerdote con un mese di anticipo, il 6 dicembre 1998. Ed è cominciata l’avventura. Dopo un breve periodo in appoggio alla Chiesa Madre, fui mandato come viceparroco a S. Antonio, dato che il parroco stava male e la situazione era un po’ drammatica dal punto di vista della gestione pastorale.
– Ripensando a questi anni trascorsi, come vedi la tua esperienza sacerdotale?
Forse adesso non farei quello che ho fatto allora, forse non avrei neanche le forze psicologiche. Agli inizi ero preso da grande impeto, ma non ero uno che credeva di andare a convertire il mondo appena diventato prete, anche perché c’è sempre stata una buona dose di realismo nel mio modo di pensare, ma sentivo forte la responsabilità di qualcosa che mi era stato consegnato ed ero diventato parroco a soli 27 anni. Poi, anche grazie all’affetto dei parrocchiani e alla disponibilità di molti, si è fatto veramente tanto, per cambiare non solo strutturalmente la parrocchia ma soprattutto per trasformarla in una comunità, perché tutte le chiese sono chiese ma non tutte sono comunità. Pur con tutte le difficoltà, dovute a divergenze di opinioni, diverse sensibilità e disponibilità per il lavoro pastorale, grazie a Dio e a tante persone siamo andati avanti.
– Che significa per te oggi essere Sacerdote?
Sicuramente è cambiata anche la mia idea di prete. Ricordo le parole di un Sacerdote di Milano che ci fece gli esercizi spirituali anni fa: “Vi accorgerete che state diventando sacerdotalmente maturi quando sarete portati a semplificare le cose”. Aveva ragione, oggi mi rendo conto, essere sacerdote è andare all’essenziale di ciò che in questo momento è davanti ai tuoi occhi, la persona, la situazione, il suo problema, le aspettative, i desideri e vedere insieme come poter camminare per realizzare quello che di buono il Signore pone nel nostro cuore. Spesso tutti quanti abbiamo la presunzione di aver capito la volontà di Dio perché siamo troppo sicuri dei nostri schemi mentali e vi applichiamo l’etichetta di volontà di Dio, poi quando gli schemi crollano, ci rendiamo conto che cercare la volontà di Dio non può essere pre-programmato, ma chiede un discernimento attimo per attimo, non può essere calcolato a tavolino, anche se il Vangelo ci dà delle linee-guida.
– Oggi per ogni scelta di vita il “per sempre” mette paura ai giovani…
Il Rettore diceva che in seminario non ci sono ragazzi perfetti che hanno scoperto già tutto di Dio e che si consacreranno a lui nella perfezione della donazione, piuttosto è anche il mondo delle fragilità soprattutto affettive e umane. Ognuno viene da una sua storia familiare, sociale, lavorativa… Io dico sempre che un po’ bisogna pensarci e un po’ non bisogna pensarci. Non dobbiamo stare lì a calcolare quanta capacità abbiamo per far resistere per sempre una cosa. Nelle scelte Dio non pretende che al 100% siamo sicuri di aver capito la sua volontà e di avere le potenzialità per attuarla, basta un 51 % di convinzione, l’altro 49% lo mette Lui. Spesso non c’è il 51, perché ci possono essere delle fragilità umane, di provenienza familiare, che non hanno fatto gustare la bellezza di alcuni valori, allora diventa più difficile rimanerci fedeli nel corso della formazione seminaristica. Questo vale anche per i corsi di preparazione al matrimonio che non possono sostituire un cammino di vita che la persona porta dentro di sé e con il quale deve fare i conti per tutta la vita.
– La pietà popolare e le forme di devozione ai Santi: come vanno intese?
La Chiesa va per escamotage, se così posso dire. Accogliendo il desiderio e l’esigenza del popolo di accendere una candela o recitare una preghiera al Santo, o la richiesta dei sacramenti per i figli, noi abbiamo l’occasione per arrivare ai genitori e alle persone e annunciare loro il vangelo, additare dei criteri di fedeltà al Signore che sono stati veri nella vita di quel Santo. La pietà popolare ha poi un risvolto importante di carattere umano, riesce molto a cementare i legami umani, il senso di appartenenza ad una comunità, infatti la Chiesa la “utilizza” da venti secoli come metodo di aggregazione. Certo, quando non è evangelizzata, non è educata, allora la pietà popolare equivale ai riti lustrali come quelli tribali che si ripetono annualmente per ingraziarsi la divinità: non è questa la pietà popolare, invece deve diventare sprone ad imitare ciò che di buono c’è stato nella vita di un Santo.
– Quest’anno si sta celebrando il 70° anniversario della riconsacrazione della chiesa di S. Antonio. Quanto è importante che il parroco conservi e tenga viva la memoria storica della sua comunità e del suo territorio?
Cassino non può non fare i conti con la guerra. Come la Storia va da avanti Cristo a dopo Cristo, così Cassino da prima a dopo la guerra. E’ stata una ferita tanto grande da distruggere tutto. Se ora vediamo le chiese, i palazzi, tutto l’agglomerato sociale, sembra quasi un miracolo questa rinascita, la forza umana di risorgere dopo una distruzione così grave, perché Cassino era stata rasa al suolo.
Per quel che riguarda la chiesa di S. Antonio, è stato un gioco del destino, prima era un convento francescano al di fuori della città, dopo la guerra diventò l’ombelico intorno al quale si cominciò a ricostruire per cerchi concentrici, divenendo da chiesa di periferia chiesa centrale.
Conservare la memoria storica significa prima di tutto essere portatori di un messaggio di speranza, che è tipico anche del Vangelo: avere la capacità di saper risorgere da una tragedia così grande come la guerra vuol dire che in ogni situazione, anche la più buia, come ci ha insegnato il Signore, c’è sempre la possibilità di risorgere e che in fondo al tunnel la luce c’è sempre. E poi fare memoria di 70 anni è importante per le generazioni più avanti in età, perché le ricollega alle proprie radici storiche, e soprattutto per le giovani generazioni, chiamate a raccogliere l’eredità delle generazioni precedenti, quindi anche tutto lo sforzo della ricostruzione della città civile. Nello stesso tempo bisogna ricordarsi che 70 anni, di fronte a tanti secoli, sono pochi, quindi è come se fosse ancora una comunità in gestazione, che deve ancora partorire anche un nuovo modello di comunità in questo terzo millennio che ha cambiato schemi, sensibilità, modi di pensare e quindi di fronte a nuovi problemi bisogna progettare e realizzare insieme le risposte.
Grazie, Don Benedetto, auguri per la tua missione sacerdotale.
Adriana Letta
Foto di Alberto Ceccon e Adriana Letta