Relazione Armando Matteo nella I giornata del Convegno Pastorale diocesano

Convegno pastorale diocesano

14 giugno 2018

 

 Relazioni familiari e sfide educative

 Armando Matteo

 

 

«La buona notizia è questa: ogni generazione viene al mondo con i fondamentali che deve avere; sono idealisti come noi, goffi come noi, teneri come noi, stupidi come noi che volevamo cambiare il mondo ogni momento. La cattiva notizia è questa: trovano noi. E noi siamo un po’ cambiati» (Pierangelo Sequeri).

 

Introduzione

Nel prendere la parola saluto ciascuna e ciascuno di Voi, ringraziando di cuore il vostro Vescovo Gerardo per questo assai gradito invito. 

La citazione di Sequeri vorrebbe sin da subito offrire la traiettoria principale del mio intervento, nel quale parlerò di relazioni familiari e di sfide educative, e dunque di rapporti intergenerazionali, di educazione, di trasmissione della fede, insomma di figli e  di genitori.

E la traiettoria principale sarà questa: noi adulti siamo un po’ cambiati. Noi adulti non siamo più quelli di una volta. Di più e senza troppi fronzoli: noi adulti ci siamo un po’ “rimbecilliti”, nel senso latino del termine di persone che non hanno più un solido appoggio a terra!

 

Ora il punto è che, se è vero che non tutti gli adulti diventano genitori, ogni genitore non può non essere adulto, solo così potrà dar vita a rapporti familiari in grado di assolvere al compito educativo. Che già di suo non è mai stato facile ed oggi rischia di diventare ancora più complicato!

 

Già Freud, infatti, diceva che quello dei genitori è un mestiere quasi impossibile. Perché? Lo è, in quanto il genitore deve, all’interno di un rapporto di dipendenza, favorire un processo di autonomia. Io, genitore, lavoro su di te e con te, perché tu, figlio, anche grazie a me non abbia più bisogno di me. Che impresa! Il genitore è quasi simile a Dio: è capace di generare vita autonoma! Eppure, quanti risvolti sottili in questa impresa, tra slanci e paure. Risvolti che ora esplicito io e che vanno proprio lungo quella soglia dell’inconscio cui esattamente Freud ha aperto gli occhi della cultura occidentale. Ed ecco cosa vi si trova: da una parte, il figlio, il quale deve e vuole aprirsi al tempo in cui non avrà più bisogno del genitore (finalmente? purtroppo?) e, dall’altra, il genitore che deve prepararsi al tempo in cui nessuno, proprio nessuno, avrà più bisogno di lui! Qui si intrecciamo sentimenti di liberazione ma anche di paura e questo perché in genere ogni forma di dipendenza non è solo negativa, ma anche rassicurante. C’è qualcuno che si prende cura di me, c’è qualcuno che ha bisogno che io mi prenda cura di lui! Ci vuole una certa dose di forza per passare al livello dell’autonomia. 

Oggi tutto questo si complica, in quanto i genitori non vogliono assumere la fisionomia dell’adulto. Il nostro tempo è infatti contraddistinto dall’apparire di un immaginario dell’essere adulto nel quale non è più prevista la possibilità del tramonto, della scomparsa, cosa che però in verità contrasta direttamente con la figura stessa dell’essere adulto e con le connesse responsabilità in ambito educativo.

 

In parole semplici: noi adulti del 2018 facciamo sempre più fatica a vivere in un mondo in cui nessuno, ma proprio nessuno ha bisogno di noi. Facciamo infatti fatica a pensare semplicemente al nostro tramonto, al tempo della nostra scomparsa. E quindi tendiamo a creare forme di dipendenze senza scadenza. Questo rende i processi educativi quasi del tutto inefficaci. 

Non a caso oggi si è prepotentemente imposto un profilo di genitore a basso regime di responsabilità. In ragione di ciò, lo vedremo meglio dopo, si pensa che non sia più necessario educare e sia sufficiente preoccuparsi per i figli. Basta insomma procurar loro delle cose e risparmiar loro fatica. Basta letteralmente pre-occuparsi, ovvero occupare e predisporre prima i posti che loro dovranno occupare. Questa è la strategia dei cosiddetti genitori “amuchina”, “lisoform”, “spazzaneve”, che tolgono la neve prima che i figli escano di casa e questi ultimi non sapranno mai cavarsela con la neve, e arriveranno addirittura a pensare che essa non esista. Il punto è che in questo modo i figli non crescono e avranno sempre bisogno dei genitori! 

E qual è la ragione di tutto questo? La ragione è che i genitori non fanno i genitori perché non vogliono assumere il mestiere dell’adulto. E questo più in generale perché nella nostra società nessun adulto – una persona cioè con più di 35 anni – vuole più fare l’adulto!

Ed ora due citazioni a fagiolo! 

Gustavo Zagreblsky:  «Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza […]».

Massimo Recalcalti: «Se un adulto è qualcuno che prova ad assumere le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole […], non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società […]. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare dove si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale». 

Capite allora che la vera sfida educativa sarà quella di far crescere gli adulti, i genitori, gli educatori. Far crescere i grandi! Far crescere noi adulti… Cosa per nulla facile… è difficilissimo, infatti, dire a queste “ragazze” di 50 anni che devono crescere e che non possono più mettere i jeans gas… diesel… benzina e che so io… lo stesso vale per questi “ragazzi” di 50 anni: è difficile dire loro che non possono più indossare le Adidas… Ma questo lo vedremo con calma. 

Allora, questo era l’antipasto, con un po’ di peperoncino calabrese. Vediamo il menu completo:

– Primo piatto: che cosa significa che gli adulti non sono più quelli di una volta?

– Secondo piatto: che cosa comporta questa “mutazione genetica” dell’adulto nelle relazioni familiari?

– Dolce: qual è, allora, la nostra sfida educativa?

L’avvento del “diversamente giovane”

Ma che cosa significa precisamente che gli adulti non sono più quelli di una volta? Significa prendere coscienza che la stragrande maggioranza di coloro che hanno compiuto e oltrepassato i 35 anni (una parte enorme della società italiana attuale), del grande e nobile “mestiere dell’adulto” – della vocazione, del compito, del “ministero”, del servizio connesso all’essere adulto e del ruolo educativo specifico e irrinunciabile connesso a quest’età della vita – non vuole proprio a che sapere! Sono diventati – come dice il titolo di un simpaticissima serie tv – degli Immaturi.

Più precisamente è la generazione nata tra il 1946 e il 1964 (seguita a ruota da quella successiva nata tra il 1964 e il 1980) che ha compiuto una rivoluzione copernicana circa il sentimento di vita. Oggi al centro delle sue attese non c’è la volontà di diventare adulto, e quindi responsabile della società e del suo futuro, ma quella di “restare giovane” ad ogni costo. Questa generazione rinnega perciò l’identità strutturale dell’adultità, che è quella di sapersi dimenticare di sé in vista della cura d’altri. Al contrario, come scrive Francesco Stoppa, «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla, al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane».

Il contenuto di questo ideale di giovinezza nulla ha a che fare con ciò che normalmente si intende con “spirito della giovinezza” o “giovinezza dello spirito”. La giovinezza come ideale è qui intesa piuttosto come grande salute, performance, libertà sempre negoziabile, via sicura per l’affermazione della propria sessualità, del proprio successo, del proprio fascino, disponibilità ininterrotta a “fare esperienze”, a completarsi e a rinnovarsi. Giovinezza è viagra! Va da sé che qui non esiste più alcuno spazio per il lato etico-morale, educativo,  specificante l’età adulta: definitività delle scelte lavorative ed affettive, anche quando non sono più all’altezza delle promesse che avevano lasciato intravedere all’inizio; responsabilità generativa ed educativa, che comporta quel costante oblio di sé a favore di altri; impegno appassionato per un’accurata e costante manutenzione dello spazio politico, condizione essenziale per la realizzazione del bene dei figli; e da ultimo consumazione del lutto con la presa di coscienza del proprio inevitabile destino mortale, con tutto il carico di lavoro su di sé che questa crisi comporta e che apre lo spazio per il passaggio del testimone (gli Dei greci immortali normalmente mangiano i figli…). Per questo l’orizzonte di riferimento degli adulti attuali – annota Marcel Gauchet – è quello di «essere il meno adulti possibile, nel senso peggiorativo acquisito dal termine, sfruttarne i vantaggi aggirandone gli inconvenienti, mantenere una distanza rispetto agli impegni e ai ruoli imposti, conservare il più possibile delle riserve per altre possibili direzioni».

Quella degli adulti è perciò una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo: si può dire per paradosso che è una generazione che ama la giovinezza più dei giovani. Più dei figli. Ed è a causa di questo amore al contrario che sta procedendo ad un inquinamento senza precedenti del nostro immaginario valoriale di base, dalla lingua che parliamo alla grammatica fondamentale dell’esistenza umana: la vecchiaia, la malattia, la fragilità umana, la morte e infine la stessa giovinezza. Con gravi ricadute nell’educativo e nel campo della trasmissione della fede. Vediamo.

A livello linguistico: se uno muore a 70 anni si dice che è morto giovane, se uno ha quarantacinque anni è ancora un ragazzo, un giovane: può aspettare perciò… In Chiesa abbiamo i giovani, i giovanissimi, i giovani adulti, gli adulti giovani, i diversamente giovani e gli adultissimi…

Per questo la vecchiaia è diventata oggi il nemico “numero uno” della nostra società: è parola eliminata da Wikipedia (chiedetevi semplicemente: quando si diventa vecchi nella vostra Diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo? Cioè a quale età si è disponibili a dichiararsi vecchio e vecchia?), nulla si vende che non sia “anti-age”, è l’ultima e imperdonabile offesa che si possa rivolgere ad un essere umano, è il tallone d’Achille su cui mortalmente ci ferisce la pubblicità e il sistema economico capitalistico (“a tutto possiamo resistere, tranne a ciò che ci aiuta a lottare contro la vecchiaia”). A questo proposito è importante tenere conto della straordinaria capacità del mercato di inserirsi brillantemente in questi processi di riscrittura della qualità adulta dell’umano: adulti che non vogliono smettere di fare i giovani sono perfettamente adesivi al sistema economico imperante, che ha sempre bisogno di elargire soddisfazioni “a termine” e quindi di alimentare l’insoddisfazione dei consumatori. Un consumatore soddisfatto è l’incubo del mercato. Il mito della giovinezza va a braccetto con questo sistema: esiste qualcosa di più irraggiungibile della giovinezza? No, ma se tu pensi che sia possibile (ed è questo che induce a credere il mercato) allora inizi a spendere e paradossalmente più la insegui, più ti sfugge, la giovinezza. Ma non importa. L’importante è spendere e così ogni anno sborsiamo 10,6 miliardi di euro per la cosmesi (anche per lozioni contro la caduta dei capelli, quando a tutti è noto che l’unica cosa capace di fermare la caduta dei capelli è il pavimento!).

Oltre che con la vecchiaia, cambia il nostro rapporto con la medicina (e quindi con la fragilità umana): non è più un sintomo, un messaggio da parte del corpo (stai facendo troppo, corri di meno, mangia meglio, dormi di più, smetti di fumare), ma è intesa come un’interruzione, un blocco di motore, che basta rimuovere per ripartire. E abbiamo medicine sempre più potenti. E la pubblicità ci raccomanda di non leggere le avvertenze (negli spot pubblicitari questo passaggio è sempre velocissimo).

Un discorso simile vale per la morte: essa ha subìto un incredibile esorcismo linguistico che l’ha fatta sparire anche dai manifesti funebri: in Italia, la gente scompare, viene a mancare, compie un transito, si spegne, si ricongiunge, si addormenta, va qui, va là… Nessuno che semplicemente muoia!

 Ne deriva che, a questo punto, parlare di un educazione oggi risulta gravemente faticoso proprio in quanto l’adultità è rinnegata da coloro che dovrebbero incarnarne i contenuti umani e che quindi il gesto dell’educare, che implica sempre la segnalazione di una metà verso la quale indirizzare i non-ancora-adulti, risulta semplicemente impossibile. Di più: se gli adulti desiderano e fanno di tutto per restare giovani – ed è il mercato con incredibile generosità si applica a sostenerli in questa lucida follia – ciò che posso comunicare educativamente ai loro ragazzi è il comandamento di non crescere, di non spostarsi, di non muoversi: rischierebbero di perdere cioè la giovinezza!

Ed è esattamente qui che l’educazione, da gesto del movimento verso, si trasforma in un’ossessionante forma di preoccupazione, di controllo, perdendo quel profilo essenziale e dinamico dell’asimmetria, della conflittualità, della testimonianza di una differenza accolta senza risentimento.

Famiglie adolescenti (M. Ammaniti)

La relazione educativa adulto-giovane, genitore-figlio, si basa su una semplice struttura, che può essere restituita così all’intelligenza: nell’essere dell’adulto il giovane dovrebbe trovare iscritta questa legge: “Lì dove sono io, là sarai tu”, quindi cammina, datti da fare. Nella lingua tedesca esiste una straordinaria complicità tra il termine che dice formazione – Bildung – e il termine che dice immagine – Bild. Questo ci ricorda che si diventa adulti, guardando gli adulti. D’altro canto la parola “adolescente” nulla altro significa che tempo per diventare adulti. Come? Guardando appunto gli adulti.

Cosa comporta ora la rivoluzione, compiuta dagli adulti attuali, del sentimento di vita che tutto fa scommettere sulla giovinezza? Comporta che, nella carne vivente di ogni adulto, il giovane trovi quest’altra disperata legge: “Lì dove tu sei, io sarò”. Insomma: non ti muovere. Tu sei nel paradiso. Tu sei paradiso. L’unico a dover uscire (e-ducere) dal suo possibile cammino sull’orlo della vecchiaia, della morte, del non senso che è “il non essere più giovane”, sono io adulto.

Se per gli adulti, allora, il massimo della vita è la giovinezza e tutto il resto è non-senso, che cosa dovrebbero essi insegnare, segnalare, indicare, mostrare ai giovani? Se per gli adulti crescere è la cosa peggiore che esista e l’età adulta non ha senso, mentre il vero paradiso è nella giovinezza, perché i giovani dovrebbero allontanarsi da esso?

Un ultimo elemento deve essere ancora preso in considerazione: se gli adulti attuali interpretano la loro esistenza come un’esistenza da giovani permanenti e impenitenti, è giocoforza che non saranno più in grado di discernere la vera età dei figli e le connesse esigenze di crescita. Per loro saranno sempre dei “bambini”, dei “ragazzi” (temine, quest’ultimo che gli adulti usano anche per persone che hanno abbondantemente superato la soglia dei trent’anni), cosa che ostacola ancora di più l’assunzione di quel ruolo educativo adulto che comporta appunto la conflittualità, la capacità di dire no e ancora di più quella di saper contenere l’eventuale frustrazione e inevitabile dispiacere che il “no” adulto comporta nel figlio. Quest’ultimo sarà sempre considerato troppo piccolo, troppo delicato, per essere sottoposto a tali esperienze previste da ogni processo di crescita che voglia giungere a buon fine.

In verità fa parte appunto dell’essere adulto la capacità di sviluppare quello spazio interiore in cui contenere il dispiacere, il dolore, per il dolore e per il dispiacere che provoca nel figlio, quando educa, rinviando l’esecuzione di un desiderio, dicendo di no, frustrando un capriccio, evidenziando un mancato sforzo o un compito eseguito con i piedi.

Il punto di innesco per la creazione di un tale spazio interiore è la consapevolezza della propria mortalità: ci sarà un tempo in cui io non ci sarò più e dunque il figlio deve essere preparato a ciò. Questo significa per l’adulto poter pensare al proprio tramonto, cosa che l’attuale giovanilismo impedisce loro di fare.

Sulla base di queste considerazioni si capisce perché le nostre famiglie non siano più nelle condizioni di aiutare i propri figli a diventare adulti, trasformando il prezioso e delicato compito della cura educativa in una sostanziale prassi di controllo e preoccupazione dei figli.

La recente collocazione esistenziale della generazione adulta rende, insomma, il processo educativo quasi del tutto impossibile. Dobbiamo amaramente riconoscere che oggi – lo accennavo all’inizio  – si sia imposto un profilo di genitore a basso regime di responsabilità. Si pensa – e si agisce di conseguenza – che non sia più necessario educare i figli, essendo sufficiente voler loro del bene, preoccuparsi per loro e controllarli. Basta insomma coccolarli, procurar loro delle cose e risparmiar loro fatica, programmandone costantemente le attività. Basta letteralmente pre-occuparsi, ovvero occupare e predisporre prima i posti che loro dovranno occupare.

Questa è la strategia dei cosiddetti genitori “spazzaneve”, già felicemente menzionati; è ancora la logica dei genitori “amuchina”, che sterilizzano e detraumatizzano tutti ambienti destinati alla crescita dei loro pargoli.

L’espressione corrente per dire tutto questo è quella del controllo. Educare è oggi voce del verbo controllare. Si tratta di un gesto che ormai procede ben oltre la normale dose di precauzioni e di cautele legate all’esercizio della genitorialità. Siamo davanti a un esercizio del controllo semplicemente asfissiante per gli stessi ragazzi e che i genitori interpretano paradossalmente come autentica forma d’amore.

 In verità, osserva lucidamente Federico Tonioni, «tutte le volte che controlliamo di nascosto quello che [i figli] fanno o cerchiamo di capire quello che pensano non si tratta di “amore speciale”, ma dell’incapacità di separarsi da loro. Se con il tempo, questa tendenza non accennerà a diminuire, la tentazione di trattenere “a fin di bene” la loro vitalità sarà più forte della disponibilità a offrire fiducia. È così che, al di là delle nostre intenzioni, rischiamo di diventare un impedimento per la loro crescita».

Ed è per questo che oggi diventare adulti rappresenta una fatica di grande rilievo: i nostri ragazzi e i nostri giovani non trovano davanti a sé adulti, con i quali poter entrare in un salutare rapporto di conflittualità educativa, ma adulti che cercano permanentemente di sedurli nella loro condizioni di vita giovane beata, affinché a tutto pensino tranne che a crescere; la loro crescita, infatti, decreterebbe – ed in modo che nessuna crema o pillola colorato o bisturi possa far credere il contrario- il loro (dei genitori) essere diventare adulti o già vecchi: in una parola la loro espulsione dall’universo della giovinezza. Il risultato è netto: tra le generazioni si crea un clima di sostanziale concorrenza con il netto svantaggio di quelle più giovani; oppure, ed è l’altra faccia della medaglia, si crea un clima di vischiosità che produce confusione e alla fine follia.

Gli adulti attuali – così poco adulti – alla fine dei conti amano la loro giovinezza più dei loro figli.

La sfida educativa

Di fronte a questa situazione, ritengo che nostro compito sia quello di aiutare gli adulti a ritrovare la strada verso casa, cioè verso quella che è loro vera casa: ovvero la responsabilità generativa ed educativa.

Oggi più nessuno parla positivamente di tutto questo e cioè di quanto sia umanamente arricchente l’esperienza di vivere sino in fondo la propria adultità, la propria responsabilità adulta. Direi di più: di quanto sia bello, di quanto sia “divino” (se è vero che il Dio cristiano per Sé ha scelto, tra le cose umane, solo la dimensione della paternità) essere adulti fino in fondo.

Per cui ritengo che dobbiamo affrontare la questione di cosa significa essere e vivere da adulto. La mia risposta è la seguente: l’adulto è un ponte, un allenatore ed un poeta.

 – Essere ponte. Essere adulto implica l’essere come un “ponte” tra i figli e il mondo. Più precisamente questa azione di “pontefice” comporta, da parte dell’adulto, saper dare risposte: saper rispondere del mondo ai figli e quindi dei figli al mondo.

Poter mediare il mondo ai figli sottende però l’accettazione, da parte dell’adulto, della condizione umana per quella che è, senza risentimenti né rivolte. Comporta accettare la verità per la quale la piena umanità di ognuno nasce nel momento in cui ci alleiamo con le leggi elementari della vita e smettiamo di collocarci istericamente contro di esse. Il mondo non è mai la meta ideale delle nostre vacanze; cattolicamente, questo mondo non è il paradiso. È dunque decisiva la capacità dell’adulto, scrive acutamente Francesco Stoppa, di «amare la vita per quello che è e non come location ideale dei propri sogni o bisogni; la vita nel suo connotato più reale, nella sua irriducibilità a qualsivoglia aspettativa narcisistica». Questo è l’unico mondo che abbiamo: fare da ponte tra esso e figli significa ogni volta trasmettere la fondamentale certezza che quella umana è una vita vivibile e amabile non a dispetto del fatto che abbia leggi e fondamenta, ma proprio perché ha leggi e fondamenta, alleandosi con le quali ciascuno può diventare autore e attore della propria esistenza.

Consideriamo ora l’altro verso della responsabilità: quella verso i figli nei confronti del mondo, quella che alla fine permette l’esecuzione completa della genitorialità, perché alla fine si tratta sempre di donare al mondo dei figli autonomi. Che cosa significa ora rispondere dei figli rispetto al mondo? Significa per l’adulto assumere la piena consapevolezza del fatto che il futuro – che i figli fisicamente oltre che simbolicamente rappresentano – è anche il tempo della sua scomparsa. Significa riflettere sul fatto che i tuoi figli non sono figli tuoiChi non è capace di fare spazio alla propria mortalità, non è capace di educare sul serio. Non è capace di pensare il momento in cui i figli saranno veramente soli e quindi bisognosi di spalle robuste, che solo un’educazione all’altezza di se stessa, per quanto faticosa, può assicurare. Si mettono al mondo dei figli, infatti, perché si è consapevoli del proprio destino mortale ed esattamente per questo essi non sono per chi li genera e devono poter stare al mondo, grazie a chi li genera certo, ma anche senza chi li genera.

– Essere allenatore. Quello dell’allenatore è un mestiere, si sa bene, quanto mai difficile, come ci insegna per esempio la cronaca calcistica. Ebbene, questo mestiere ci può introdurre dentro quella che è la verità dell’amore: amore non è (solo) preoccuparsi, amore non è (solo) procurare cose, amore non è (solo) risparmiare fatica, amore non è (solo) volere bene. Amare è volere il bene. Amare è volere il bene di chi ci è affidato come figlio o come atleta.

Consapevole di ciò, l’allenatore non può perciò tenere in grande conto della permalosità di tutti i suoi giocatori, non può sottostare a tutti i loro capricci, anche quando si tratta di giocatori famosi e ricchi. Li deve spronare a lavorare sodo, a prepararsi alla sfida, alla gara. Tiene così un occhio attento alle dinamiche di ogni singolo sportivo e un altro attento alla squadra e al torneo cui essa partecipa.

L’allenatore è uno che sa tenere salda la differenza tra volere bene e volere il bene ed su questa base che egli sa reggere al e il conflitto possibile con i suoi atleti. Solo così, reggendo questa differenza, è possibile esercitare quella responsabilità adulta nei confronti dei piccoli, i quali, in un modo o nell’altro, prima o dopo, debbono pur venire in contatto con quegli altri che non appartengono al gruppo di coloro che sono in permanente atteggiamento di adorazione nei suoi confronti. Anche nelle relazioni con gli altri ci sono leggi da assimilare e da accogliere con benevolenza e che tocca proprio all’adulto mediare. La prima di esse è che non si può avere tutto, non si può volere tutto, non si può essere tutto. Non siamo Dio! E nemmeno il re dell’universo.

Tutto ciò contrasta con la perversione educativa più pericolosa della mancata crescita degli adulti: la pretesa da parte dei genitori di essere amati dai loro figli. L’antica sapienza biblica chiede ai figli di onorare i propri genitori, non di amarli. Amare qualcuno significa sempre volere il suo bene, volere che l’altro possa essere in quanto altro; significa attendere, dare tempo, fidarsi e dare fiducia mentre il figlio faticosamente impara cosa voglia dire poter “dire io”.

– Essere poeta. Poter “dire io” è ciò che ci fa veramente “umani”. Nessuno può dire “io” come lo dico appunto io. Nessuno lo può ora, lo ha potuto ieri, lo potrà domani. In questo non c’è nessuno che possa fare le mie veci. Ciascuno è una prospettiva indiscernibile sul mondo; resta un mistero raccolto in se stesso, senza causa e senza possibilità di replica; siamo uno spettacolo unico.

Ciò che definisce tutto questo è la chimica del desiderio, il fatto che percepiamo sempre uno scarto, una differenza, uno iato dentro di noi. Questa è la vita umana: siamo segnati da mancanza, da altro. Noi umani non siamo “un tutto pieno”. Una larga porosità ci costituisce e ci mantiene in essere. Pensiamo a questo semplice fatto: è certo vero che siamo tutti qui fisicamente, in questo bel pub discoteca, ma non è forse altrettanto vero che non siamo tutto qui; che cioè “il tutto di noi” non è qui? Chissà con la mente dove si trova ciascuna e ciascuno di voi….

Una profonda mancanza dunque ci segna dall’inizio e ci segna sino alla fine. Ora l’essenziale dimensione e dinamica del desiderio umano trovano qui la loro ragione d’essere.

Ebbene, in un tempo in cui la grande macchina del mercato vuole persone che credono solo in ciò che si vede e ultimamente si vende, l’adulto-poeta è colui che sa attivare nel bambino, nel ragazzo, nel giovane la capacità di vedere ciò che non si vede e di “apprezzare” (letteralmente: dare un prezzo, un valore a) ciò che non si vende; è colui che sa attivare in loro le antenne del desiderio. Per questo egli si prenderà cura che ogni nuovo cucciolo d’uomo possa entrare in una relazione feconda con la dinamica autentica del desiderio umano: in quanto umani siamo impastati con la mancanza, con la finitezza, con la trascendenza. Siamo sempre “oltre”, c’è sempre uno spazio insaturo dentro di noi, che va conosciuto amato e coltivato. E tutto questo va attivato nei giovani grazie alla poesia, al cinema, al teatro, alla letteratura, alla musica, all’arte, alla contemplazione del cosmo, in cui la vita si dona a noi non solo come qualcosa da consumare ma come un punto in cui l’invisibile irrompe nel visibile.

Come è commovente al riguardo quella pagina del vangelo, in cui Gesù, incontrando colui che la tradizione da sempre indica come il giovane ricco, dopo avergli ricordato i precetti del decalogo e averlo fissato con uno sguardo di dilezione, gli comunica l’ultimo necessario passaggio per poter giungere ad una vita eterna. Gli raccomanda di vendere le sue ricchezze e poi di mettersi alla sua sequela. Gli chiede di fare spazio vuoto nella sua vita e nella sua anima. Gli ricorda la mancanza. Al giovane ricco, infatti, manca la mancanza. L’avere troppo beni costituisce un ostacolo.

Siamo posti quasi davanti ad un piccolo paradosso: per Gesù è necessario possedere la mancanza, mentre possedere beni risulta una situazione mancante, incapace cioè di indirizzare una vita umana alla piena destinazione di sé.

Non mi resta, allora, che augurare a tutti Voi una buona mancanza!

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