Presentato in un convegno in Università il libro di Paolo Borrometi “Un morto ogni tanto – La mia battaglia contro la mafia invisibile”
La mafia ci riguarda tutti, può interferire con la vita di ciascuno di noi molto più di quanto possiamo pensare e il nostro territorio non ne è immune. Non pensiamo che i fenomeni malavitosi siano tra cronaca e fiction, sono realtà che prosperano soprattutto se non gli si dà importanza. Infatti, anche là dove non si verificano episodi eclatanti, c’è una mafia silenziosa e nascosta. E’ necessario parlarne e prenderne coscienza, essere vigili, educarsi ed educare alla legalità, compiere nella vita scelte corrette e ragionate, nell’acquisto o edificazione della casa, nella ricerca di lavoro, finanche nel fare la spesa al supermercato, sapendo che alcuni prodotti in vendita aiutano la criminalità. Questo, in sintesi, il forte messaggio venuto al numeroso e attento pubblico presente nell’Aula Salerno dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, la mattina di venerdì 8 marzo, per la presentazione del libro “Un morto ogni tanto – La mia battaglia contro la mafia invisibile” di Paolo Borrometi, il giornalista-scrittore costretto a vivere sotto scorta dal 2014 per una pesante aggressione e continue minacce di morte da parte della mafia.
Il convegno è stato organizzato grazie all’Università che, come ha detto il Rettore Giovanni Betta, lo ha inserito tra le iniziative per il 40° anniversario della fondazione, e al “Civico Sociale”, Trattoria della legalità, è stato moderato dalla giornalista Angela Nicoletti, ed ha visto la partecipazione di numerose personalità e autorità militari e civili, oltre che degli studenti di Giurisprudenza.
Occorre considerare, ha sottolineato a proposito del libro l’avv. Gianluca Giannichedda, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Cassino, la differenza tra mafia e “cultura mafiosa”, nella quale ultima è facile cadere senza rendersene conto. E’ stato ricordato il cassinate Carabiniere Marino Fardelli, morto a 20 anni in un attentato mafioso, la Strage di Ciaculli, insieme ad altri sei uomini delle Forze dell’Ordine, Medaglia d’Oro al Merito Civile: lo scorso 30 giugno, nella commemorazione per il 55° anniversario, a Paolo Borrometi fu consegnato il Premio a lui intitolato.
Interessante l’intervento di Simona Di Mambro, responsabile, col marito Carmine Mernini, del “Civico Sociale”, nonché di una Casa-Famiglia. Ha parlato dei beni confiscati alla mafia e dell’importanza che vengano consegnati a cooperative che li rimettano in funzione (perché un bene confiscato, se rimane fermo, fa molto piacere a mafia e camorra!), come i loro terreni che, lavorati da ex ricoverati nel manicomio criminale assistiti da professionisti, danno prodotti agricoli di qualità. Nonostante le minacce e i “dispetti” compiuti dal clan mafioso, la lavorazione continua, grazie alla nuova NCO, sigla che non significa più Nuova Camorra Organizzata, ma – come una sfida – “Nuova Cooperativa Organizzata”, ed essi hanno aperto il ristorante dal nome emblematico “Civico Sociale”, che cucina servendosi di prodotti provenienti dai terreni confiscati. Se in questo territorio – ha avvertito in conclusione – non si parla di mafia, il silenzio rischia di far morire la città.
Secondo il prof. Luigi Di Santo, Presidente del Corso di Servizi Giuridici e tra i fondatori dell’Associazione “Don Peppe Diana”, il libro di Borrometi è “lucido, quasi cronistico”, e fa capire che “non è possibile non impegnarsi”. “Io non odio i mafiosi, perché sono cristiano – ha detto – ma non sono indifferente verso chi è indifferente: il peccato più grave è quello di omissione”. La motivazione all’impegno è, andando anche al di là della frase evangelica: “Ama il prossimo tuo più di te stesso”. Il libro è una “chiamata alla responsabilità” perché non sia rubato il futuro alle nuove generazioni. Non bisogna “arrendersi all’apnea della ragione”.
Quando ha preso la parola l’autore del libro, Paolo Borrometi, abituato a parlare “dicendo nomi e cognomi”, ha affermato che se è vivo lo deve alle Forze dell’Ordine e che “il problema del nostro Paese non sono gli immigrati, ma è la mafia” e ha parlato dei giornalisti morti per mano della mafia e di quelli che sbagliano aiutando la criminalità; ha denunciato le cose che non vanno, come per esempio che il 70% delle vittime di mafia non ha avuto giustizia, cosa inaccettabile, come gli intrecci mafiosi nel mercato ortofrutticolo. Ha anche raccontato alcune sue inchieste e l’episodio terribile dell’aggressione subita il 16 aprile del 2014 da incappucciati che lo picchiarono selvaggiamente fino a provocargli una grave menomazione alla mobilità della spalla, il tentativo di attentato di cosa nostra contro di lui il 10 aprile del 2018, la vita che è costretto a fare, lontano dai suoi affetti, con molti pesanti e anche drammatici momenti di isolamento, solitudine e anche paura, perché sì, Borrometi “rivendica il diritto di avere paura”, ma anche la volontà determinata a continuare a “fare il suo dovere di giornalista”. Ha parlato di tutto ciò raccontando parecchi episodi quasi al limite dell’incredibile. Ma, ha concluso, ho preservato “la libertà più importante, che è la libertà di pensiero e la libertà di parola e quella di fare semplicemente il proprio dovere“.
Adriana Letta