Lo spettacolo dei giullari e il ritmo Cassinese

La molteplicità di talenti che si esibivano come attori girovaghi confluì, nei secoli dell’alto medioevo, nella figura del giullare. Questi performers assommavano in sé le vesti di poeti, attori, buffoni, acrobati, musicisti, danzatori. La stessa ridondanza terminologica con cui la società medievale denomina i giullari (di volta in volta sono: mimi, saltatores, balatrones, scurrae, bufones, circulatores, divini, grallatores, funambuli, petauristae) è sintomo della loro marginalità sociale e dell’indeterminatezza territoriale. Infatti, la mobilità è un ingrediente caratteristico del comportamento del giullare. La sua mimesi fa tutt’uno con la facilità che caratterizza la varietà di spostamento degli attori: dalle piazze ai cortili, fin dal V sec., tant’è che molti autori ne denunciano l’inquinante ruscello di pantomime, recite impudiche, pazzie e orge da mercato, che scorre dentro la società.

Se i rapporti con il potere civile erano improntati ad una certa contraddittorietà (essendo i giullari blanditi e accolti dalla corte, ma poi anche fatti destinatari di provvedimenti censori e persecutori), sul fronte ecclesiastico, l’interdizione degli attori girovaghi diventa un topos dell’atteggiamento altomedioevale, fino a riassumersi in alcuni capitolari (Mantova, 787 e Aquisgrana, 789), assai espliciti sulla necessità della condanna: «I religiosi non permettano sia fatto in loro presenza alcun genere di spettacolo che sia rappresentato contro l’autorità dei Canoni […]. I vescovi, gli abati e le badesse non allevino coppie di cani, né falconi, né vagabondi, né buffoni». Le testimonianze documentarie concordano, ancora dopo il X sec., sulla scandalosa espressività corporea.

Però, nel corso dei secoli successivi, la figura del giullare inizia a contaminarsi e talvolta a sovrapporsi con quella dei predicatori (basti pensare ai clerici vagantes). Partecipi dell’accresciuta circolazione culturale e valendosi anche in Italia di repertori più variati di quelli dei secoli precedenti, i giullari del XIII sec. debbono occuparsi dell’intrattenimento di un pubblico al quale i lazzi scurrili non bastano più e che chiede sempre più spettacoli edificanti del cerimoniale liturgico, e racconti di gesta eroiche in difesa della fede. Perciò, i giullari diventano veicolo privilegiato di diffusione di prodotti culturali la cui confezione non è più prerogativa degli intellettuali. Tanto che gli stessi predicatori cominciano ad adottare uno stile molto vicino a quello giullaresco.

Per esempio, i domenicani, fatto tesoro delle tecniche giullaresche di comunicazione con il pubblico, si sostituiranno a loro nelle piazze. Per i francescani l’appropriazione delle tecniche giullaresche diviene elemento fondamentale di apprendistato. E l’esempio viene proprio dallo stesso Francesco, il quale non esitò ad integrare la poesia, il canto, la musica, la mimica, e il linguaggio figurato all’interno delle sue prediche.

Ma, quali erano le tecniche giullaresche che i monaci predicatori fecero proprie? Di che si sostanziava l’esibizione di un giullare? Sicuramente, la recitazione (o il canto) erano accompagnati da una mimica accortamente caricata e tesa ad amplificare l’effetto delle parole. Se il cantore è solo deve essere in grado di recitare più parti modificando il timbro della voce in corrispondenza dei singoli personaggi messi in scena, adattando altresì la mimica del viso e del corpo, facendo magari ricorso all’uso di travestimenti o maschere. È bene ricordare che l’arte dei giullari è fondata esclusivamente sull’oralità, che solo in un momento successivo viene travasata in un testo scritto. Peraltro, il giullare è sempre legato alla danza, sia in quanto portatore di musica – che della danza è accompagnamento indispensabile – sia in quanto danzatore, padrone delle tecniche di diversi balli, che sono il momento scatenante di ogni festa. Circa le musiche che in alcuni casi possono accompagnare il canto o la recitazione purtroppo ci sono rimaste informazioni del tutto vaghe ed inconsistenti, mentre possiamo avere molte più notizie su quali strumenti venivano utilizzati: viole, ghironde, cetre, piccole arpe, flauti, trombe, tamburi, corni. La recitazione avviene in una lingua il più vicina possibile a quella degli ascoltatori. La lingua dei giullari è in costante evoluzione e pronta a recepire i prestiti più disparati dalle parlate più varie. Per altro, costoro basavano buona parte del loro repertorio sull’imitazione.

Questa accettazione più o meno implicita della figura del giullare, sia da parte del potere civile, sia da quello del potere ecclesiastico, permise anche il verificarsi di un’altra circostanza: il repertorio giullaresco poteva essere ammesso alla redazione scritta dei testi. Così, vengono fissati su carta: i cantari e i poemi epici, leggendari o cavallereschi; le serventesi e i lamenti ispirati a fatti storici e di cronaca; i sermoni morali, le leggende agiografiche o d’argomento sacro; le frottole, le mattane, i contrasti, gli strambotti, i canti d’amore talvolta licenziosi, i ritmi. E accade che nella trascrizione di quei testi, ci sono stati conservati i primi esempi di letterature nazionali europea, che gradualmente stavano formulando – anche grazie all’apporto di questi giullari, che venendo dal popolo e andando verso il popolo si esprimevano in volgare piuttosto che in latino – una lingua nuova.

Se, come da più parti si è argomentato, il “nuovo teatro” religioso era nato, o per lo meno aveva precisato in parte i suoi canoni estetici a Montecassino, è ancora al cenobio laziale che bisogna tornare per cercare le tracce di un’espressione giullaresca in volgare. Si tratta del cosiddetto Ritmo cassinese, che è stato oggetto di esegesi, per circa 150 anni da parte di un illustre gruppo di studiosi.

Questo Ritmo (“ritmo”, perché si è creduto, per molto tempo, che fosse composto di versi di non giusta misura) di autore anonimo, risale alla fine dell’XII sec., ed è contenuto nel manoscritto Codice 552-32 della Biblioteca dell’abbazia di Montecassino, che contiene alcuni libri della Bibbia, un responsorio e omelie varie. È con ogni evidenza mutilo dopo il v. 96 ed è tramandato dal solo codice cassinese, il che non lascia particolari incertezze sul fatto che proprio a Montecassino venne scritto.

Il Ritmo sostanzialmente si compone di un prologo, di una narrazione e un dialogo. Il prologo questo senso: «Io parlo a voi per il vostro bene, e sono come la candela che arde sé stessa per far lume ad altri; parlo in figura, ma in modo che mi s’intenda. Perché non si pensa a condurre una vita retta? I godimenti del mondo oscurano la fede». A questa premessa segue il racconto: un orientale magno e prudente incontra un uomo d’occidente, e si chiedono scambievolmente notizie. L’orientale sembra che per primo introduca il discorso, e alla risposta dell’altro prende animo a domandargli altre notizie, e sembra che a lui interessi ciò che si riferisce al tenore della vita, e, più di ogni altra cosa, le vivande. L’occidentale, offeso della domanda un po’ triviale, fa un elogio della vigna di San Benedetto, ove matura ogni frutto che sazia pure alla vista. «Dunque non si mangia?» riprende l’altro, e senza lasciarsi persuadere da una specie di sermoncino, conclude dicendo: «poiché senza avere necessità di alcuna cosa, possedete tutto ciò che desiderate, e con questo vi godete la vita, angeli de celu sete».

Su quale fosse il significato recondito del componimento le spiegazioni degli esegeti non sono state sempre convincenti. C’è stato chi ha creduto che si trattasse di un componimento satirico, che ritrova la sua origine e la sua dichiarazione in taluni avvenimenti, dei quali l’abbazia di Montecassino fu teatro nel X sec., e che ebbero per protagonisti lo scellerato abate Mansone e il monaco basiliano S. Nilo, famoso nel mezzogiorno d’Italia per santità e rigidezza di disciplina monastica. Altri studiosi erano del parere che il Ritmo Cassinese fosse un’esortazione ai peccatori, affinché, abbandonate le vie del vizio, si incamminassero verso quelle della salvezza. Altri ancora che esso fosse un’esaltazione della regola benedettina scritta da un monaco cassinese, in volgare perché fosse intesa da tutti, e diretta al popolo per invogliarlo a seguirla. Ancora, c’è stato chi ha ritenuto che l’anonimo autore del Ritmo, che incolto non era, avesse in qualche modo voluto parafrasare i Dialoghi di Sulpicio Severo. Ed, infine, chi vi ha letto un’opera allegorica, con finalità didattico-morale, sulla falsariga delle altercationes altomedievali, ispirata alla Collatio Alexandri regis cum Dindimo rege, un’opera nella quale vengono esaltate le virtù dei popoli d’Oriente.

Più recentemente, altri studiosi sono giunti ad una spiegazione, per la quale il monaco-giullare autore del componimento, pur conscio del peccato di cui si è macchiato (appunto calandosi nei panni esecrabili di attore), vuole comunque compiere il suo magistero spirituale. Insomma, accingendosi a dare ammaestramento ad altri, confessa di essere nella colpa.

L’autore, che doveva essere un uomo che aveva viaggiato abbastanza almeno nell’Italia meridionale, e aveva una cultura di prim’ordine, verseggia il suo racconto facendo uso della tecnica del cosiddetto procedimento figurale. È verosimile che l’anonimo sia stato un monaco, che però conosceva bene le tecniche narrative ed espositive dei giullari. In tal modo, egli, pur consapevole dell’errore di calarsi nei panni di un attore, intende comunque rischiarare la via agli altri (come fa una candela), illustrando con modi “popolari” il senso della sapienza, ossia del modo di arrivare a Dio, conducendo una vita regolata e disciplinata.

Tant’è che il Ritmo proprio nel suo procedere per fegura svela la sua discendenza dai modi di spettacolo dei giullari. Infatti, se a noi il testo può apparire oscuro in alcuni punti, è anche perché (lacune a parte), manca una parte fondamentale dello spettacolo: i gesti e la mimica. Per il resto, lo stesso incedere ritmico era un procedimento tipicamente giullaresco, così come lo era il richiamo ai nova dicta attraverso il quale si calamitava l’attenzione del pubblico, desideroso appunto di sentire cose nuove (o cose già note – e l’insegnamento morale sotteso al componimento cassinese non era certo una novità nell’Occidente cristiano – in una veste per lo meno inedita), così come lo era il procedere per topoi (la candela e l’albero della vita).

Peraltro, il tenore della narrazione dialogata ci permette un’ulteriore riflessione. Abbiamo detto che il giullare modulava la voce a seconda dei personaggi, in modo da far capire che era un corso un dialogo. Il che è segno che nel recitare il Ritmo, il monaco-giullare abbia fatto uso di una tecnica che ibridava immedesimazione (nella parte del dialogo) e recitazione narrativa (nella parte introduttiva, e, per forza di cose, nel finale, che purtroppo manca). La tecnica giullaresca è riconoscibile nell’ibridazione di materiali “alti” – il sermone moraleggiante e colto – con quelli “bassi” – il dialogo e gli altri materiali dello spettacolo – il che equivale a interrompere un’esposizione o una narrazione per trasferire il fatto nel campo della realtà visibile e udibile, nella forma metrica che unisce insieme, senza troppa cura, la vivacità di certi scorci, la grossolana, ma comica rappresentazione dell’Occidentale, che riesce, tutto sommato, nel suo ingenuo desiderio di sapere, nel suo pronto credere e prontissimo meravigliarsi, nel suo rispettoso inchinarsi davanti alla perfezione dell’altro, una figura viva e cordiale.

Proprio attraverso il filo della laicità, del resto, il Ritmo cassinese si apparenta a quella straordinaria fiorita di cultura trovadorica, che va sotto il nome di scuola poetica siciliana. Intanto, la vita culturale fuori dalle abbazie si concentrava o presso le corti o presso le scholae. Per esempio, a Napoli, sotto gli Angioini, i giullari vissero prosperamente: nel 1282, Adam de la Halle fu chiamato a Castelnuovo, per rappresentare il suo Jeu de Robin et Marion. Invece, nelle scholae, dove non si ignoravano i classici, dei quali anzi si apprezzava lo stile, proprio quest’ultimo veicolò una nuova idea di scrittura teatrale, quella che gli autori stessi chiamarono nova comoedia, che, per il tramite di Giovanni Boccaccio, fornirà, qualche secolo più tardi, stilemi e spunti narrativi ai commediografi rinascimentali.

Vincenzo Ruggiero Perrino

Categorie: Tracce: arte & cultura

Tags: