Ci siamo mai chiesti da dove provengano parole, espressioni, termini apparentemente scontati, ma spesso “gergali”, che comunemente utilizziamo nella quotidianità della nostra vita di cristiani? Quando ci esprimiamo per comunicare realtà inerenti alla dottrina, alla liturgia e alle istituzioni cristiane, attingiamo a un lessico che consideriamo nostro tout-court, acquisito dalla nascita insieme al codice genetico che ci caratterizza, ma che in realtà ha una sua storia ben precisa e che trae origine dalle trasformazioni subite dal latino classico nei primi secoli dell’era cristiana.
Proprio il latino costituisce il fondo linguistico per noi più sostanzioso, su cui ben presto si impiantano novità di provenienza greca ed ebraica. Infatti, il testo biblico che leggiamo nelle attuali lingue correnti proviene da antichi testi latini denominati Vetus Latina e Vulgata (quest’ultima redatta da san Girolamo). A loro volta, questi testi derivano in gran parte dalla cosiddetta Bibbia dei Settanta, versione greca dell’Antico Testamento realizzata direttamente dall’ebraico, tra il III e il I secolo a. C., dagli ebrei residenti ad Alessandria d’Egitto. Gli ebrei, a loro volta, hanno testi per lo più in lingua ebraica con qualche passo nel dialetto “aramaico”.
Ma veniamo alla nostra questione.
Le versioni bibliche dalla Vetus Latina alla Vulgata testimoniano l’impegno costante di trasmettere ai fedeli di lingua latina il messaggio delle Sacre Scritture a partire dai testi originali, nell’urgenza di creare un codice comunicativo chiaro e puntuale, capace di flettere a nuovi significati la lingua della paganità.
Il metodo è quello di creare parole del tutto nuove, i cosiddetti neologismi. Molte “parole nuove” trovano accoglienza nel latino che è ancora quello dei classici: neologismi in senso stretto, perché direttamente trascritti dal greco o dall’ebraico e quindi nuovi anche nel suono, oppure neologismi semantici, che in una parola “vecchia” (quindi dal suono già noto) esprimono un senso profondamente diverso. E’ un processo di adattamento graduale ma costante, legato alla necessità di trasferire in una lingua tradizionale i contenuti di un messaggio assolutamente rivoluzionario.
Un primo esempio: la parola chiesa.
Sappiamo tutti che la sua provenienza è per noi dal latino ecclesia, ma a sua volta il termine è un calco perfetto del greco ekklēsìa, che, nella Grecia di epoca classica, designava una riunione del popolo (dalla preposizione ek unita al verbo kalèo: “chiamare a raccolta”), con particolare riferimento ad Atene e al ruolo politico che la sua assemblea popolare svolgeva in seno alla città. In età ellenistica il termine si volge poi a designare genericamente l’assemblea popolare di altre città greche.
Troviamo la prima testimonianza di una sua connotazione religiosa nel greco della Bibbia dei Settanta, esattamente nel Deuteronomio, in diverse espressioni usate da Mosè quando ricorda il giorno in cui Dio gli ordinò di convocare il popolo in assemblea ai piedi del monte Sinai, per donargli le tavole della Legge: ekklēsìa passa così ad indicare il popolo riunito di fronte a Dio per stabilire l’Alleanza, assumendo in questo momento la valenza chiaramente religiosa di “assemblea del popolo di Dio”; con essa passa in latino tramite le traduzioni della Bibbia. In maniera semplice e diretta la parola, già in contesto greco, subisce il passaggio semantico da “assemblea, riunione” a “luogo” nel quale avvenivano le riunioni. Il nodo centrale del cambio semantico sembra essere l’uso metaforico della parola in Mt.16,18 (ἐπὶ ταύτῃ τῇ πέτρᾳ οἰκοδομήσω μου τὴν ἐκκλησίαν: “su questa pietra costruirò la mia ecclesia”), dove ekklēsìa non indica ancora il luogo fisico delle riunioni, ma è legato al concetto del costruire grazie al verbo oikodomèo (“edifico, costruisco”). Le parole di Matteo sembrano voler presagire la ricostruzione dell’autentico tempio di Gerusalemme, come annunciato dalle profezie bibliche: la chiesa che Cristo vuole edificare è la nuova Gerusalemme, il vero tempio di Dio tra gli uomini.
Da questo uso metaforico è nato un simbolismo in cui è difficile districare la realtà dalla metafora, e in tale situazione si inseriscono le prime testimonianze in lingua latina che, a partire da Tertulliano e Cipriano, consolidano un uso lessicale destinato a soppiantare ogni altro concorrente (basilica, domus Dei, dominicum). L’epoca di tale consolidamento coincide con il momento in cui i cristiani cominciano a godere di una certa tolleranza da parte delle autorità imperiali. Infatti, già nel II secolo essi possono riunirsi in luoghi che sono ancora delle abitazioni private, ma non più occasionali, bensì trasformate in punti fissi di ritrovo, sebbene in forma non ufficiale. Così, quella che era la semplice domus comincia a essere definita domus ecclesiae, “la casa dell’assemblea”, ovvero la casa della preghiera comunitaria; e proprio qui si può cogliere il passaggio di ecclesia da comunità religiosa a luogo in cui quella comunità si riunisce. E da qui il persistere oggi della duplice valenza di chiesa come “comunità cattolica universale” e come “edificio di culto”.
Al prossimo appuntamento.
– Cadia Savona