Marco Tullio Cicerone – è noto – era nativo di Arpino, città nella quale tornava con una certa frequenza, come egli stesso attesta in alcune epistole. Altrettanto noto è che egli fu uno dei più valenti oratori del suo tempo, e che portò lo stile letterario latino a vette altissime.
Quel che forse è meno nota è l’importanza dell’Arpinate nell’orizzonte della storia dello spettacolo teatrale. In generale, sul rapporto di Cicerone e il teatro, al di là del significato etico-politico che egli attribuisce ai testi drammatici (da lui citati in questa dimensione “filosofica” soprattutto nelle Tusculanae disputationes), si può guardare – come ha fatto Giuseppe Aricò in un convegno tenuto proprio ad Arpino nel 2003 – innanzitutto in una prospettiva squisitamente letteraria. In essa rientrano i rilievi linguistici e stilistici e le valutazioni critiche o le notazioni di natura estetica, che Cicerone fa sulla base della sua esperienza di lettore e di spettatore. In altre parole, Cicerone si esercita con la critica teatrale, non di rado esprimendo giudizi su quanto ha letto o ha visto in scena. E nel naufragio, pressoché completo, dell’opera di alcuni drammaturghi dell’epoca repubblicana, le citazioni e i racconti che Cicerone fa ci sono indispensabili per ricostruire interi percorsi bio-bibliografici di autori, i quali, senza le citazioni del Nostro, sarebbero per noi soltanto dei nomi.
Un’altra prospettiva – indagata, tra gli altri, soprattutto da Claudio Vicentini – è quella dell’interesse di Cicerone per le tecniche di recitazione, argomento al quale egli dedica pagine di grande acume. Infatti, i trattati di oratoria di Cicerone (l’Orator e il De oratore, composti verso la metà del I sec. a. C.), insieme con l’Istitutio oratoria di Quintiliano (fine I sec. d. C.), e con il dialogo di Platone Ione (fine V – inizio IV sec. a. C.), costituiscono, anche se indirettamente, le più ampie trattazioni sull’arte dell’attore nel mondo antico. Quanto leggiamo in essi ha costituito la base teorica della recitazione, esercitando un’influenza fondamentale sul teatro fino a tutto il XVIII secolo.
Ovviamente, gli scritti di Cicerone riguardano più propriamente la figura dell’oratore e non quella dell’attore, ma contengono una serie di paragoni tra le tecniche dell’oratoria e quelle della recitazione, e, soprattutto, muovono dal presupposto dichiarato della loro stretta somiglianza. Infatti, simili sono le finalità che oratoria e recitazione perseguono: l’oratore non deve solo convincere il giudice e il popolo, ma, come l’attore, anche commuovere e dilettare tutti i presenti. Sia l’attore che l’oratore declamano un testo: il primo, un dramma che un poeta ha composto tenendo conto degli effetti da produrre sulla scena; il secondo, un discorso scritto non solo scegliendo gli argomenti per vincere la causa, ma anche individuando le immagini, le parole e le frasi più efficaci per stuzzicare l’immaginazione degli allocutori. Quindi, declamando quanto ha preparato, l’oratore utilizza le intonazioni della voce, i gesti, i movimenti, insomma tutta l’espressività fisica necessaria per impressionare l’uditorio e veicolare la decisione del giudice. Cicerone la definisce un’“eloquenza del corpo”, che viene chiamata actio, e che per l’arpinate “scaturisce direttamente dall’anima”.
Ma, oratoria e recitazione non sono simili solo per il rapporto con il testo, le immagini o per gli scopi prefissati. Infatti, tanto chi recita un dramma, quanto chi declama un’orazione deve saper assumere atteggiamenti e forme espressive di personalità differenti dalla propria. L’attore parla e agisce in modo da rappresentare un personaggio; l’oratore deve parlare e agire come se fosse il proprio assistito a rivolgersi al pubblico e al giudice. Ecco, allora, che Cicerone suggerisce che l’oratore tragga insegnamento dagli attori. Non a caso, Cicerone, all’inizio della sua carriera, si sarebbe ispirato all’arte di due celebri principi della scena, Esopo e Roscio.
Tra l’actio e la recitazione teatrale venivano tuttavia individuate due differenze fondamentali. Mentre l’oratore trattava di fatti autentici e di persone reali, l’attore rappresentava figure immaginarie e vicende inventate che doveva rendere vive e plausibili di fronte agli occhi degli spettatori. Inoltre, era essenziale che l’oratore, per essere convincente e credibile, apparisse sempre dotato di una certa autorevolezza personale, che rappresenta una vera e propria arma retorica a cui non poteva assolutamente rinunciare.
In definitiva, lo scopo principale di tutto l’apparato espressivo impiegato dall’attore e dall’oratore era comunque identico: riuscire a scatenare negli spettatori passioni ed emozioni, l’uno per ricevere l’applauso a teatro, l’altro per vincere una causa in tribunale. «Il convincere è necessario», scrive Cicerone, «il dilettare è piacevole, il commuovere è vincere». Perché gli uomini «giudicano più in base a odio o amore, desiderio, ira, dolore, gioia, speranza, timore, errore, o per qualche altro modo interiore, piuttosto che in base alla verità, o a una disposizione o una qualche norma giuridica». L’arpinate aveva acutamente notato che le emozioni accortamente prodotte erano in grado di turbare l’animo del giudice, fino ad orientarne l’opinione e a fargli perdere la capacità di valutare rigorosamente argomenti, fatti e testimonianze.
Come si possono provocare le reazioni emotive del pubblico? Innanzitutto, c’è bisogno di un’attenta configurazione del testo da declamare. Se, nel teatro, la storia e le battute di una tragedia o di una commedia sono studiate per sollecitare l’attenzione e i sentimenti degli spettatori, in un discorso preparato dall’oratore, tutte le vicende narrate devono assumere una precisa colorazione emotiva.
In secondo luogo, vi sono gli espedienti che riguardano la “messa in scena”. Sono espedienti particolarmente vistosi: «Si vedono gli accusatori esibire spade insanguinate, ossa estratte dalle lacerazioni e vestiti tutti macchiati di sangue; li si vede togliere le fasce alle ferite e scoprire le parti del corpo colpite da percosse […]. Così, la pretesta insanguinata di Cesare, messa davanti al corteo funebre, spinse il popolo a un’ira rabbiosa. Si sapeva che Cesare era stato assassinato, e il suo corpo era infine stato posto sul catafalco; eppure quella veste madida di sangue rievocò la scena del delitto in modo tale da dar l’impressione non che Cesare fosse stato ucciso, ma che venisse ucciso proprio in quel momento».
In terzo luogo, bisogna saper sfruttare le risorse proprie della recitazione, come la capacità di pronunciare le battute articolando sapientemente gli effetti sonori. I ritmi e i suoni sono infatti di per sé capaci di sollecitare i sentimenti di chi ascolta. Basti pensare che gli strumenti musicali riescono a produrre emozioni senza articolare alcuna parola.
Infine, per sollecitare la reazione emotiva del pubblico, è utile che l’oratore, nei momenti richiesti, declami il suo discorso come se fosse pronunciato dal suo cliente, proprio come l’attore che assume voce, toni e gesti del personaggio da rappresentare: «Solo i nudi fatti commuovono; ma quando fingiamo che siano proprio i clienti a parlare, è anche la persona a dare emozione. Infatti l’impressione non è che il giudice ascolti gente intenta a lamentare guai altrui, bensì che percepisca con l’udito sentimenti e voce di sventurati di cui anche il volto muto muove alle lacrime; e quanto più quelle parole otterrebbero pietà se fossero loro a pronunciarle, tanto più, secondo una certa proporzione, esse risultano efficaci nel commuovere quando sono dette come per bocca loro; avviene lo stesso per gli attori a teatro».
Se l’oratore vuole vincere la causa, deve provocare le reazioni emotive del pubblico e del giudice. Per far questo è necessario che egli sappia suscitare davvero in sé, mentre pronuncia il suo discorso, le diverse passioni che vuole scatenare nell’uditorio. La difficoltà risiede nel fatto che nessuno può provare un’emozione a comando, con un semplice sforzo di volontà. Tuttavia, non è impossibile creare in sé, momento per momento, tutti i moti interiori che sono necessari. Cicerone riflette sul fatto che un bravo attore, quando recita una scena, riesce a infiammarsi, non solo la prima volta, ma anche nelle repliche successive, giorno dopo giorno, per parecchio tempo. Non si vede quindi perché non debba riuscirci anche l’oratore, che è avvantaggiato anche dal fatto di dover pronunciare il suo discorso una volta sola, senza correre il rischio che la sua sensibilità venga in qualche modo “consumata” dalle repliche.
Secondo Cicerone, l’attore e l’oratore possono scatenare in sé le stesse emozioni che vogliono scatenare negli altri, attraverso un particolare procedimento. Questo procedimento nasce dalle condizioni stesse in cui si trovano quando agiscono di fronte al pubblico: l’attore è consapevole di dover mostrare e mettere in gioco la propria bravura; l’oratore sa che dalla sua prova dipende il destino del suo assistito e l’affermazione di una verità giudiziaria. L’incertezza sull’esito della prestazione, che non può mai essere garantito, e insieme la presenza delle persone che osservano (e giudicano), produce perciò una tensione particolare, che provoca nell’animo di chi si esibisce una sorta di ipereattività emotiva. Dice Cicerone: «la natura stessa di quel parlare volto a commuovere gli animi altrui, commuove chi parla in misura anche maggiore di qualunque ascoltatore». E tutti gli effetti visivi allestiti allo stesso scopo, come l’apparizione di una figura pietosa o terribile sulla scena teatrale, o l’esibizione di fronte a giudici di un tribunale di un accusato vecchio, triste, in vesti dimesse, col corpo solcato di ferite riportate in guerra, provocano la commozione dell’attore, o dell’oratore, «ancor prima di muovere a pietà gli altri».
Quindi: le parole e gli artifici, predisposti per emozionare il pubblico, suscitano prima di tutto le passioni dell’attore o dell’oratore, che, davanti agli spettatori, si trovano in uno stato di particolare sensibilità emotiva. Dall’interno del loro animo le passioni emergono nelle espressioni esteriori, segnando i tratti del volto, i gesti e l’intonazione della voce, che appaiono così particolarmente efficaci. E di qui si trasmettono poi per contagio, incendiando l’animo di tutti i presenti.
Saper provare delle emozioni, tuttavia, non è tutto, altrimenti tutti sarebbero in grado di recitare efficacemente o di essere ottimi avvocati. Cicerone insiste anche sulla necessità che l’attore e l’oratore siano dotati anche di una tecnica sapiente e consapevole, che si acquisisce col tempo e l’esercizio. Alla base dei trattati ciceroniani c’è la convinzione che l’oratoria, come la recitazione, possa giungere a risultati eccellenti solo se tutto ciò che è messo a nostra disposizione dalla «natura» viene sviluppato dall’«arte».
Il processo naturale della dinamica dei sentimenti, che costituisce il fondamento dell’actio e della recitazione, di per sé non è quindi sufficiente. Anzi, se un attore o un oratore si limitassero a esibire di fronte al pubblico o al giudice gli effetti delle passioni sul loro animo, correrebbero il rischio di rimanere incompresi e di ottenere l’effetto contrario a quello voluto. Questo perché le passioni dell’animo, come spiega Cicerone, spesso sono «confuse», e allora le espressioni che producono appaiono oscure. Inoltre, osserva l’arpinate, l’attore e l’oratore, mentre esibiscono un’espressione dettata da uno stato emotivo, devono mantenere la lucida consapevolezza dell’intero andamento dell’orazione, o dell’intera scena da recitare, e misurare su questo l’intensità dei gesti e delle intonazioni. Perciò, è di estrema importanza esercitare un rigoroso controllo sugli atteggiamenti del proprio corpo.
Per perfezionare e controllare le espressioni che sorgono spontaneamente dai moti dell’animo, per ripulirle da ogni “oscurità”, chi recita o declama deve conoscere con esattezza quali sono i segni esterni caratteristici di ogni singola passione, altrimenti non potrà controllarne l’esatta riproduzione sul suo volto, nei suoi gesti e nella modulazione della voce. Infatti, come spiega Cicerone, «la natura ha assegnato a ogni emozione un’espressione, un tono di voce e un gesto specifici», ed essi «sono a disposizione dell’oratore per esprimere le varie sfumature del discorso, come un pittore fa con i colori».
Nell’azione complessiva di chi si esibisce di fronte al pubblico si intrecciano così due forme di comportamento: una spontanea, che lascia affiorare sul volto e nei gesti i tratti semplicemente dettati dalle emozioni, e una consapevole, che adotta gesti e movimenti studiati e codificati, al fine di rendere più incisive le espressioni, e dotarle di grazia e bellezza. Tra queste due forme di comportamento si instaura un delicato equilibrio. Se viene compromesso si produce il pericolo di una recitazione rozza ed esagitata o, al contrario, fredda e artificiale.
La possibilità di fare un catalogo dei segni espressivi delle diverse passioni suggerisce un’altra via. L’attore o l’oratore possono tentare di riprodurre su di sé questi segni – movimenti del capo e delle braccia e delle mani, inflessioni della voce – a freddo, servendosi di una tecnica lungamente esercitata. Le forme espressive che utilizzano sono studiate e codificate proprio in modo da rispondere perfettamente alle esigenze del teatro o del tribunale, e dunque da apparire, in quei particolari contesti, assolutamente convincenti. Una persona in grado di riprodurle abilmente, adattandole alle proprie caratteristiche personali, riuscirebbe perciò a rendere la presenza di passioni e stati d’animo così bene da non lasciare insoddisfatta alcuna esigenza degli spettatori. E in tal modo, il suo effettivo coinvolgimento emotivo risulterebbe a questo punto superfluo: prova o meno quell’emozione, egli riesce a renderla evidente su di sé al punto da condizionare l’attenzione e il giudizio degli astanti.
Così, l’arte della recitazione potrebbe risiedere esclusivamente nella capacità di simulazione. È frutto di abilità, più che di ispirazione o di reale partecipazione emotiva. Tanto più è attraente, piacevole ed efficace quanto più l’attore riesce a riprodurre perfettamente, attraverso una tecnica raffinata, i sintomi di una passione. Ma solo perché ciò manifesta una particolare bravura. L’espressione autentica di un’emozione provata davvero, sulla scena resterebbe inerte, goffa e penosa.
– Vincenzo Ruggiero Perrino